di Franco Pezzini

Carlo H.(akim) De’ Medici, Leggende friulane, ed. orig. 1924, prefaz. di Antonella Gallarotti, con venti illustrazioni di Cleo Miradic, pp. 95, € 12, Cliquot, Roma 2023.

Carlo H.(akim) De’ Medici, I topi del cimitero, ed. orig. 1924, con gli inediti della raccolta Crudeltà, 1927, prefaz. di Federico Cenci, illustrazioni dell’autore, pp. 139, € 18, Cliquot, Roma 2019.

 

“Tu, certo, rechi nella coscienza tua il rimorso – lieve, sia pure, poiché sei indurito nel vizio – di un peccato d’amore commesso e non espiato… Non negare! Lo leggo nelle tue pupille inquiete.

È necessario dunque che tu interrompa il tuo viaggio e mi segua”.

 

Per quanto circonfuso di mistero, lo scrittore e giornalista italiano Carlo Hakim De’ Medici (Parigi, 29 agosto 1887 – Como, 1 ottobre 1956, data di morte appena emersa dopo lunghe ricerche, soprattutto dello studioso Furio Gaudiano), figlio di un ricco banchiere ebreo parigino e vissuto a lungo a Gradisca d’Isonzo in provincia di Gorizia, ha di recente recuperato una certa notorietà per il bel romanzo gotico Gomòria. Racconto magico (ed. orig. 1921: Cliquot, 2018, con le meravigliose illustrazioni liberty dell’autore), in cui mixa con prosa elegante temi e suggestioni di due romanzi di Huysmans, Là-bas (da lui tradotto nel 1929 per Corbaccio) e À rebours, in un risultato strano e originalissimo che occhieggia in qualche tratto a racconti folklorici italiani.

Ombre fiabesche – ma soprattutto oniriche e macabre, a tratti ironiche e meditabonde – emergono però anche nella bella raccolta I topi del cimitero, dedicata “al mistico e satanico / fratello mio / Gaetano Trevi di Montegufo / assassinato alla Malanotte”, cioè il sovreccitato protagonista di Gomòria, in un malizioso e divertito crossover narrativo. Il volume, arricchito anche qui dalle straordinarie illustrazioni dell’autore, recupera i quattordici racconti dell’originale del 1924 e, dal successivo Crudeltà che doveva rappresentarne una versione riveduta e aggiornata, 1927 (stesse splendide xilografie, sette storie identiche, altre cinque modificate, due omesse) quattro racconti nuovi.

Leggendo questi testi visionari e raffinati, ritroviamo a tratti le lezioni di Poe (i topi in un ambiente ecclesiastico, le navigazioni oniriche, le straniate amnesie e gli amori dai connotati estremi, i conversari grotteschi col diavolo, i cadaveri che restano sotto ipnosi o certe storie comiche sul nero), di Villiers de L’Isle-Adam (alcuni contesti erotici crudeli e straziati), magari di certo Meyrink (la componente misticheggiante e onirica) o piuttosto di Ewers (immagini disturbanti come le statue di cera inglobanti il sangue d’una defunta), nonché un naturale dannunzianesimo d’epoca. Leggendo, viene alla mente per tipi d’atmosfera la scena del Dracula di Coppola in cui, contro le leggi di natura, le boccette di profumo nella stanza delle spose del Conte stillano verso l’alto: una suggestione insieme onirica ed estenuata, nell’ambito d’una raccolta che pare un po’ forzato ridurre alla luce dell’iniziatico e dell’esoterico per cui pure l’autore nutrì interessi specifici. In queste pagine De’ Medici parla dei misteri dell’interiorità e dell’immaginario, del sogno e del dubbio, del sentimento strapazzato che a distanza d’anni lascia strascichi. Alcuni racconti (come “Per la mia pace” o “La felicità”) sono gioielli dell’umorismo nero, altri incalzano un’inquietudine filosofica frutto di riflessioni d’epoca e d’ansie personalissime (“Dopo”, “Ogni sera”, “Madrigale”), altri ancora echeggiano, al di là d’ogni maniera o stereotipo, delusioni dolorose in apparenza personali (“Offerta”, “L’idolo”).

Il leggendario de I topi del cimitero appartiene essenzialmente al registro narrativo del gotico, ma non stupisce che in altri scritti De’ Medici punti più direttamente a suggestioni folkloriche. Come appunto in un volume proposto in questo giugno nell’ambito della meritoria riscoperta dell’autore portata avanti da Cliquot, Leggende friulane, uscito in originale novantanove anni orsono per Bottega d’Arte di Trieste: oggi edizione speciale in carta pregiata fuori collana, in numero limitato, con illustrazioni dell’autore qui occultatosi sotto lo pseudonimo/anagramma Cleo Miradic. Il contenuto sono sei testi frutto di ricerche attente tra storia e geografia del Friuli orientale – contea di Gorizia e Gradisca, più una puntata esterna fino a Cividale – ma assenti in quanto tali dall’autentico corpus folklorico dell’area. Si tratta infatti di novelle reinventate dall’autore con un occhio a quelle circolanti (emblematico “La Dama Bianca”, unico testo a giocare di sponda a una leggenda esistente) e ampie, consapevoli libertà alla stessa storia locale, a evocare quello che la prefatrice definisce giustamente “Medioevo alternativo” ma che è in fondo il mondo proprio di tanti racconti popolari e saghe (si pensi solo agli Attila e Teodorico resi disinvoltamente contemporanei dal Nibelungenlied). Non stupisce che queste leggende – che dall’uscita del volume nel 1924 saranno sussunte in raccolte folkloriche come “autentiche”, del pari a quanto avvenuto con altri testi d’autore, per esempio di Carlo Michelstaedter ed Egone di Roccanera, e come un giorno forse avverrà con le trame dei film di Lorenzo Bianchini, si pensi solo a Oltre il guado, 2013, ambientato proprio nelle foreste del Friuli – mostrino il passo cupo, torbido e maliziosamente affabulatorio che abbiamo imparato a riconoscere come di De’ Medici. Il quale invece non riuscirà a comporre la vagheggiata, monumentale opera trattatistica Passeggiate friulane su cui aveva raccolto tanto materiale.

Quanto a cupezza non c’è che attingere al bacino della storie tradizionali dell’area friulano/slovena: dove non si contano tra l’altro le storie di amore finite male, come quella paradigmatica di Veronica di Desenice, fatta affogare dal padre del partner Federico II di Celje. In questo senso, a connotare Leggende friulane (frutto tra l’altro di un’età tra Otto e Novecento dove dipinti e opere musicali su medioevi più o meno farlocchi e melodrammi di dame in costume dilagano) non è tanto un sapore costante di originalità – al netto delle libertà di reinvenzione dell’autore e di qualche impennata visionaria – quanto la scrittura elegante, anticata e tanto godibile.

Si parte dunque da “La Dama Bianca”, storia di un peccato d’amore soltanto virtuale (donde l’incipit a questo pezzo) pagato a carissimo prezzo dalla povera Esterina da Portole, già malmaritata e murata viva. Poi “Adalgisa della Groina”, nuova storia d’amore infelice tra Gisulfo, bel valletto rimasto a casa del signore di Gorizia partito crociato, e la giovanissima aristocratica del titolo: al ritorno dopo anni dei crociati, destinata a un vecchio compagno d’armi del padre, la ragazza si uccide e la rosa dal suo petto lanciata per Gisulfo (prontamente sepolto in carcere) resta a galleggiare sempre fresca nelle acque del torrente vicino. Segue “Fra’ Mauro l’eremita”, su un pio monaco dalla vita leggendariamente lunga – conosce nel 489 il fuggitivo Odoacre e conforta Rosmunda dopo il 568 del passaggio di Alboino: nutre il sogno di costruire una chiesa alla Madonna in cima al roccioso Na’ Poklu, ma pecca di orgoglio e temerarietà comandando l’opera al diavolo e finisce male. “Ginevra la Bellissima” vede la tentata violenza alla protagonista da parte di un vecchio nobile cui era stata promessa, ma in grazie di una preghiera la giovane – attesa invano al castello dello sposo – onde evitare lo stupro riesce a farsi mutare in marmo. Il predatore impazzisce per lo shock e (scarsa consolazione) lo sposo darà infine un vano bacio nuziale alla fronte pura della statua. Persino quando salvate, le donne insomma finiscono male: e alcune in modo piuttosto bizzarro. Come in “La Spiritata di Gradisca” – così si chiama un torrione eretto sul cosiddetto Sperone degli spiriti – che si sofferma sull’origine del nome: Lucia, servetta di osteria, veglia nel locale un cavaliere ferito, che prima di ripartire a combattere i Turchi le lascia surrealmente il proprio cuore in custodia. Interrato per maggiore sicurezza alla fuga di Lucia, il cuore verrà però inopinatamente trafugato da una sirena, col risultato che Lucia impazzisce. Rimasta lì a cercare il prezioso cuore, finirà murata per errore nel torrione della Spiritata in costruzione. In ultimo, “La beffa di Richinvelda”, narra in un fantasioso e macabro contesto alla Poe la terribile vendetta del patriarca Nicolò di Lussemburgo, fratello di Carlo IV imperatore, contro i congiurati responsabili dell’assassinio del suo predecessore Bertrando: nella scena finale, a finir male in una chiusa non spoilerabile è – ennesima donna – la madre di uno di questi. In quasi tutti i racconti la triste sorte appare collegata a qualche colpa o atteggiamento criticabile dei protagonisti: ma l’autore non è interessato ad ammannire una moraletta, e si colloca piuttosto con dignità nella lunga storia del gotico italiano.

Al netto insomma dell’enfasi un po’ abusata posta sull’esoterico che pure corteggiò (e che estasia soprattutto un certo tipo di lettori nostrani), De’ Medici conferma insomma di essere soprattutto un sottile, elegante e godibilissimo narratore nero che, con il progresso degli studi e lo smascherarsi forse di ulteriori pseudonimi (i testi riconosciuti sono frutto di un arco breve di anni), potrebbe riservarci ulteriori, affascinanti sorprese.