di Franco Pezzini

L’itinerario fin qui battuto nel rapporto tra fantastico, reale e relative zone intermedie, liminali o incerte oltre ogni velame o cortinaggio, non può che approdare idealmente all’edizione 2023 del call per racconti brevi organizzato dal Premio Calvino insieme alla rivista “L’Indice” e al Book Pride di Milano, Visioni divergenti e corpi indisciplinati: una selezione che da 817 incipit ha visto emergere 35 prescelti da cui i dieci finalisti. Stavolta il fantastico non è infatti una chiave esclusiva o stringente, come nelle edizioni dei due anni precedenti che nel titolo pure implicavano il tema della visione e delle visioni: quest’anno era peculiarmente in scena il corpo, e soprattutto su quello si sono provati i partecipanti. La visione si fa così visionarietà, febbre del misurarsi con l’oggetto-corpo nella sua materialità e nelle sue implicazioni interiori, sociali, ideologiche: come già detto in tante occasioni, del resto, fantastico non è tanto un contenuto quanto un modo di narrare e di vedere.

Come sintetizzato in sede di bilancio sullo speciale dell’“Indice” dedicato al call, i temi dei testi finalisti riguardano prevalentemente tre bacini ideali. Anzitutto quello di miti e riti della riproduzione in un mondo “altro” surreale o francamente distopico, affrontati elegantemente da Deborah Foss in Perfectum – uno dei due racconti dichiarati vincitori ex aequo dalla giuria tecnica del call – a evocare manipolazioni genetiche ma in fondo sociali, storie di umani costruiti (e non partoriti) per perverse istanze eugenetiche, contrapposizioni di gemelli rivali, modi ribelli di mettere al mondo figli tra libri & scritti contro una tecnologia ignorante, pretese governative d’avere nuovi cittadini, fin dall’infanzia, dai connotati di utili e orridi delatori, ricavandone solo grotteschi fantocci.

Meno estremo ma non meno ricco di implicazioni e suggestioni è l’altro racconto vincitore ex aequo, Equilibristi di Aquiles José Martínez Pérez che al tema della nascita “anomala”, qui dal corpo di un padre, abbina suggestioni di epopee di freak alla Leslie Fiedler, introducendo idealmente al secondo bacino tematico, le mutazioni (vere o presunte) legate all’età, alle opzioni sessuali o a fattori ben più sfuggenti. Ormai lontani dalle grandi biblioteche di metamorfosi di dei ed eroi (Ovidio, tanto per fare un nome), gli eredi del Lucio lucianeo/apuleiano e del Gregor Samsa kafkiano si confrontano con mutazioni talora più discrete, altrove scioccanti. Oana Rodica Alexandrescu, ne Il capello, affronta in forma surreale e ironica il tema dell’incanutire e del riconoscersi; il brillante, vertiginoso Repack di Alessio Penna lavora sul motivo – appunto – del repack di figurine, del rapporto coi padri, e sulla possibilità di un progressivo slittamento identitario a giocare similmente con ricordi e tasselli esistenziali; Nuovo mondo ofidico di Gaetano Pagano muove in un contesto onirico, febbricitante e magico, dove un mondo senescente ormai allo stremo impone di farsi rettili, quasi in un’involuzione all’età dei sauri. Ancora, Di padri e tritoni di Carlo Maria Masselli spalanca una saga di tonnare dove però la mattanza con gli arpioni e il canto della Cialoma non mirano a tonni ma a disturbanti tritoni dal volto umano (da cui la prassi di eliminarne subito la testa); mentre i pescatori si confrontano con una mutazione più “naturale” ma non meno devastante legata all’età.

Un’altra mutazione fisica, spiazzante ma all’inizio ben accolta, emerge poi in Più niente da toccare di Beatrice Sciarrillo, testo premiato dal pubblico, sull’imprevista (totale, resta un buco) scomparsa della pancetta di una bambina – il che introduce al terzo bacino tematico, su rapporti con la forma fisica socialmente accettata e conflitti di genere. Il densissimo Sull’origine del plurimillenario codice Dunbar di Anna De Rosa, riflette così di obesità (ribelle) e di intervento sugli archetipi estetici; il distopico Nel bene e nel male di Rita Siligato descrive la prova estrema organizzata da una società patriarcale per selezionare poche donne cui garantire un futuro controllato con matrimonio e figli, eliminando spietatamente le altre; Un musulmano frocio di Saif ur Rehman Raja, dove il “fantastico” è nella costruzione forzata e violenta di paradigmi normalizzanti, evoca crisi di altro genere legate al rapporto coi corpi, e per contro le metamorfosi di una politica fintamente “aperta” e pronta a sottoscrivere per utile i più retrivi diktat patriarcali.

Se questi sono solo i dieci finalisti, allargando agli altri dei 35 selezionati e all’ampio numero dei partecipanti con incipit si riscontra in termini molto diretti il successo della proposta di provocazioni narrative nel segno del fantastico – e, direi quasi, la necessità di ricorrere a un certo linguaggio per raccontare e raccontarsi meglio.

Un fantastico che del resto trova buona rappresentanza anche nella messe di romanzi di esordienti giunti alla competizione principale del Premio Calvino (per cui si contano grandi numeri di testi, più di ottocento nella XXXVI edizione che va ora a chiudersi con la premiazione del 6 giugno). Tra i tanti esempi che meritano menzione, pare bello ricordare qui un originalissimo romanzo di Claudio Conti premiato al Calvino un paio di edizioni fa e meritoriamente approdato di recente alle stampe, L’uomo che ha venduto il mondo, per Pessime idee (pp. 436, € 20), Roma 2022. Nelle sue pagine, a tratti esilaranti e grottesche, a tratti malinconiche e commoventi o invece impregnate d’angoscia, Conti mostra una capacità narrativa non comune nel gestire i paradossi (tempi, dimensioni) di un romanzo di fantascienza apocalittica: dove c’è però anche molto altro, dalle provocazioni religiose, filosofiche e scientifiche alla storia della modernità, delle sue mode e dei suoi miti – con tanto di apparizioni del David Bowie di The Man Who Sold the World. Divertente e divertito è l’impianto di note – comprese le note di note – sottostante tutto l’insieme, quasi a ricordare anche nei momenti più cupi l’esistenza di un gioco letterario, specchiato idealmente nell’altro gioco che si sospetta esista su un più vasto piano metafisico. Senza però dimenticare che si tratta in fondo di un romanzo – scopriremo da un certo punto in avanti – sulla perdita, che ci stana oltretutto sul tema delle possibilità esistenziali. Se avessimo fatto altre scelte eccetera: un ritornello pensieroso, nella vita di chiunque, che da un lato gioca con le provocazioni del multiverso e dall’altra lascia un sapore malinconico su tutto ciò che andrebbe perduto in altre serie causali, su tutto ciò che comunque perdiamo.

A connotare l’insieme, qualità di scrittura, intelligenza scintillante, fantasia pirotecnica: gli umani non si rendono subito conto delle implicazioni della comparsa di un’incomprensibile riga nel cielo, e sarebbe indebito spoiler dettagliare il meccanismo che regge una trama tanto complessa. Ho scritto gli umani, ma lo sguardo privilegiato è su un campionario piuttosto ristretto, scelto (emergerà) non casualmente e modellato in modo brillante attraverso dialoghi vivaci e siparietti di estrema godibilità – a partire dalla coppia del musicista black metal Gioele e della donna con cui ha scelto di condividere l’ultima avventura, Fede, figlia di un personaggio un po’ particolare che da un certo punto in avanti si rivela il vero protagonista e il maldestro colpevole degli eventi. Gli scorci poi dove irrompe la fantasia surreale (legata a un curioso blocco in fase REM) di Lisa, figlia di Fede e dell’equivoco ex-partner Tony (divo – si fa per dire – di un programma per bimbi sotto la pelliccia dell’orso Fromby), sono pirotecnie giocose alla Alice 2.0, con tanto di adeguato tessuto espressivo attraverso continue trovate linguistiche e persino di punteggiatura. La vicenda condurrà questo malassortito gruppetto di personaggi dal Piemonte alle grotte della lontana Svezia e forse più lontano – visto che, scopriremo, “Il Tempo è un luogo”. E solo il linguaggio fantastico riesce a farci davvero capire perché.