di Gioacchino Toni

Mauro Gervasini, Se continua così. Cinema e fantascienza distopica, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 156, € 14,00

È nelle sue pessimistiche proiezioni nel futuro di timori e inquietudini del presente che il genere distopico può dirsi politico. È nella lettura del presente, nel saperne individuarne brutture e ingiustizie, per poi amplificarle in scenari futuri, che si palesa la propensione politica di tale genere: Se continua così, non a caso, è il titolo del saggio che Mauro Gervasini dedica alla fantascienza distopica cinematografica.

Ad aprire la rassegna non può che essere Metropolis (1927) di Fritz Lang, opera in cui l’aspetto distopico risiede proprio nella descrizione della condizione umana proiettata nel futuro: «un’umanità schiavizzata, sfruttata, sulla quale si esercita spietato l’egoismo di pochi» (p. 24). Ed è nelle immagini, sottolinea Gervasini, ben più che nella trama, che è da ricercare la “politicità” di tale distopia.

Ad ispirare numerosi racconti distopici, segnala l’autore, è la “fantascienza sociopolitica” britannica di scrittori come Aldous Huxley, H.G. Wells e George Orwell. Suggestioni orwelliane si possono rintraccaire, ad esempio, in V per Vendetta (V for Vendetta, 2005) di James McTeigue, derivato dall’omonimo romanzo a fumetti scritto da Alan Moore e illustrato da David Lloyd, così come ne I figli degli uomini (Children of Men, 2006) di Alfonso Cuarón. Tra le produzioni audiovisive che hanno lasciato un segno indelebile nel tratteggiare scenari distopici, Gervasini ricorda anche l’inquietante serie televisiva britannica Il prigioniero (The Prisioners, 1967-1968) ideata da Patrick McGoohan (che ne è anche interprete) e da George Markstein.

In ambito cinematografico statunitense tra i film distopici su cui si sofferma il volume vi sono, tra gli altri, In Time (2011) e Gattaca – La porta dell’universo (Gattaca, 1997), entrambi di Andrew Niccol, Rollerball (1975) di Norman Jewison, Terminator (The Terminator, 1984) di James Cameron, Strange Days (1995) di Kathryn Bigelow, Minority Report (2002) di Steven Spielberg e La notte del giudizio (The Purge, 2013) di James DeMonaco.

Pur sottilinenando come diverse opere, omettendo riferimenti temporali futuri, siano difficilmente collocabili nel genere distopico vero e proprio, non mancano film con tratti distopici che fanno riferimento a scenari postatomici e a problematiche ecologiche, epidemiologiche e tecnologiche. Si pensi ad opere come Il mondo dei robot (Westworld, 1973) scritto e diretto da Michael Crichton, ripreso ultimamente da una serie televisiva della HBO, o a pellicole tratteggianti scenari postnucleari come L’ultima spiaggia (On the Beach, 1959) di Stanley Kramer, The Day After – Il giorno dopo (The Day After, 1983) scritto da Edward Hume e diretto da Nicholas Meyer per la programmazione televisiva e Il giorno dopo la fine del mondo (Panic in Year Zero!, 1962) di Ray Milland.

Non poteva essere omesso dall’autore lo sperimentale cortometraggio La Jetée (1962) di Chris Marker, realizzato con voce fuori campo su di un montaggio di fotografie in bianco e nero e una breve sequenza in movimento, ispiratore del più recente L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, 1995) di Terry Gilliam. Per certi versi lo stesso 1997: Fuga da New York (Escape from New York, 1981) di John Carpenter è un film distopico ambientato nel corso di una Terza guerra mondiale in corso. Scenari postatomici fanno da sfondo alla saga australiana inaugurata da Interceptor (Mad Max, 1979) di George Miller che raggiunge con Mad Max: Fury Road (2015), dello stesso regista, una delle più accattivanti ambientazioni del genere mai messe in scena.

Tra le distopie cinematografiche incentrate sul contagio, oltre a un doveroso riferimento alla serie televisiva britannica I sopravvissuti (Survivors, 1975-1977) ideata da Terry Nation, Gervasini si sofferma su film come Contagion (2011) di Steven Soderbergh, 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle e 28 settimane dopo (28 Weeks Later, 2007) di Juan Carlos Fresnadillo – pur non trattandosi di vere e proprie distopie, essendo vicende ambientate in un presente ipotetico –, 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, 1971) di Boris Sagal – derivato dal romanzo Io sono leggenda (I Am Legend, 1954) di Richard Matheson. Un occhio di riguardo è poi concesso al romanzo Andromeda (The Andromeda Strain, 1969) scritto da Michael Crichton e portato sullo schermo nel 1971 da Robert Wise, per il suo conributo al rinnovamento dell’immaginario fantascientifico virale-epidemiologico.

Come in Metallo urlante di Valerio Evangelisti, Andromeda mette in scena il morbo come sorta di resistenza estrema al dominio dell’inorganico (la tecnologia, armi comprese). E svela la debolezza delle sovrastrutture umane, che di fronte all’epidemia, non curabile e non controllabile scientificamente, regrediscono a uno stato semiprimitivo pronto all’homo homini lupus (p. 83).

A portare alle estreme conseguenze la deriva hobbesiana del genere umano, scrive Gervasini, sarà poi l’inquietante Il tempo dei lupi (Le temps du loup, 2003) di Michael Haneke.

Circa le distopie ecologiche, non si può evitare di far riferimento al romanzo Dune (1965) di Frank Herbert – pur non trattandosi di una distopia palese –, da cui deriveranno due omonimi film diretti rispettivamente da David Lynch nel 1984 e da Denis Villeneuve che ne trae un’opera in due parti, la prima uscita nel 2021. Sul grande schermo la questione distopico-ecologica compare già negli anni Settanta con 2022: i sopravvissuti (Soylent Green, 1973) di Richard Fleischer, ispirato al romanzo Largo! Largo! (Make Room! Make Room!, 1966) di Harry Harrison, mentre, venendo a tempi più recenti, Gervasini si sofferma sul coreano Snowpiercer (Seolguk-yeolcha, 2013) di Bong Joon-ho e su Interstellar (2014) di Christopher Nolan.

Un intero capitolo del volume è dedicato all’analisi comparata del romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968) di Philip K. Dick e dei film Blade Runner (1982) di Ridley Scott e Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve. Gervasini sottolinea come nel film di Scott vengano omessi diversi elementi che hanno invece un ruolo importante nel romanzo, come l’ormai avvenuta scomparsa degli animali naturali sostituiti da copie sintetiche e il culto incentrato attorno al predicatore Mercer, ma, soprattutto, nel film gli esseri artificiali antropomimetici, anziché rappresentare un’umanità disumanizzata, si palesano come oppressi dotati di sentimenti ed emozioni che gli umani stanno invece perdendo. Inoltre, rispetto al romanzo, Scott apre la visione a ciò che c’è “fuori dalla finestra”, dando luogo così a un noir urbano ambientato nel futuro. Venendo poi all’opera diretta da Denis Villeneuve, Gervasini ne mette in luce non solo l’originalità ma anche la complessità e la sofisticatezza che, forse, hanno contribuito al sostanziale insuccesso presso il grande pubblico.

Il volume si sofferma anche sul cyberpunk a partire dalla sua nascita letteraria segnalando come questo, però, si sia nutrito sin dalla sua origine di cinema e videogame, come ha ammesso lo stesso William Gibson che ha indicato esplicitamente il film Blade Runner di Scott e, soprattutto, l’universo videoludico, come importanti fonti di ispirazione. Per quanto riguarda il grande schermo Gervasini si sofferma soprattutto su Matrix (The Matrix, 1999) scritto e diretto da Andy e Larry Wachowski, indicandolo come uno dei film più importanti del genere.

Tra le opere cinematografiche cyberpunk vengono affrontati anche alcuni film che hanno preceduto il romanzo seminale Neuromante (Neuromancer, 1984) di William Gibson: Blade Runner di Scott, Tron (1982) di Steven Lisberger, Videodrome (1983) di David Cronenberg e Brainstorm – Generazione elettronica (Brainstorm, 1983) di Douglas Trumbull. Dunque la rassegna prende in considerazione Strange Days di Kathryn Bigelow, i due Terminator (del 1984 e del 1991) di James Cameron, i giapponesi Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo, Tetsuo (1989) di Shin’ya Tsukamoto e l’anime Ghost in the Shell (1995) di Mamoru Oshii, dunque Hardware (1990) di Richard Stanley, Johnny Mnemonic (1995) di Robert Longo, eXistenZ (1999) di David Croneberg e Upgrade (2018) di Leigh Whannell.

Circa l’universo distopico cyberpunk, oltre che sull’opera di Andy e Larry Wachowski, Gervasini insiste sull’importanza di un autore come Cronemberg.

Ad avere perfettamente colto l’importanza videoludica in un più ampio discorso su futuro e cyberpunk è David Cronenberg con il citato eXistenZ, film che ha più di un debito con due precedenti titoli del regista canadese, Videodrome e Il pasto nudo (1991). Il tema è quello delle mutazioni antropologiche causate dai mezzi di espressione di massa, ma diciamo meglio. Attraverso la televisione, la scrittura e il gioco si creano mondi ai quali aderiamo tramite procedimenti di immersione cognitivi, dal coinvolgimento puramente emotivo a processi di identificazione con i soggetti stessi della comunicazione. Cronenberg però va oltre ipotizzando un’adesione e un mutamento fisici: la televisione di Videodrome o il game di eXistenZ […] incidono sulla carne dei fruitori e degli utenti creando lacerazioni, escrescenze e anche distorsioni psicologiche come la follia, l’alienazione e soprattutto il delirio. […] La prospettiva di Cronenberg è tutta rivolta alla componente organica, in un duplice cortocircuito perché non si tratta semplicemente di contaminazione bio-meccanica ma proprio del metallo/macchina concepito come carnale (p. 120).

Nonostante il volume sia dedicato alla distopia sul grande schermo – non vengono infatti prese in considerazione le produzioni seriali televisive, salvo brevi riferimenti – l’appendice è dedicata allo scrittore Valerio Evangelisti, indicato come l’autore dell’immaginario distopico più potente e importante del panorama italiano. Se i riferimenti distopici sono ravvisabili nell’intero suo ciclo dedicato all’inquisitore Nicolas Eymerich, secondo Gervasini la digressione distopica dei suoi romanzi trova compimento nel libro Metallo urlante uscito nel 1998), composto da quattro racconti, vero e proprio momento di svolta nella letteratura fantastica prodotta in Italia.

Metallo urlante a ben guardare è un compendio di molti elementi distopici. La visione del futuro, anche quello più remoto, è perennemente minacciosa, spesso i paesaggi umani sono devastati da malattie, pestilenze, ma anche da massacri commessi con armi sempre più sofisticate, di distruzione di massa. Eppure la tensione tra carne e metallo, con il secondo che diventa gradualmente organico quindi a sua volta senziente, e la prima condannata all’apatia, alla corruzione e alla biodegradabilità anche delle emozioni, non ha mai un esito scontato. […] Di sicuro Valerio Evangelisti è uno scrittore politico, così come può e deve esserlo la migliore fantascienza. Metallo urlante lo dimostra una volta di più rappresentando narrativamente scenari di un possibile futuro fondato sui principi dell’autoritarismo e persino del razzismo. Ma anche di un presente arresosi all’idea che il capitalismo, e la sua applicazione sociale, il cosiddetto neoliberismo, non abbiano alternative. Soprattutto è politico perché contempla ipotesi di sovversione, e questa letteratura, fin dagli esordi, non può essere altro che sovversiva (pp. 137-138).

Gervasini ricorda come nella letteratura di genere, scelta da Evangelsiti per portare avanti la sua “insurrezione immaginaria”, lo scrittore bolognese adotti uno stile asciutto che rimanda alla “prosa behaviourista” di Jean-Patrick Manchette, cioè una modalità narrativa che preferisce far desumere le psicologie dei personaggi dalle loro azioni. «Attraverso il fantastico ancora oggi, a quasi 30 anni dal suo esordio, i libri di Valerio Evangelisti dicono moltissimo del nostro mondo (occidentale) e sanno scardinare senza didascalismi ideologici i rapporti di forza dettati dall’unico dio veramente idolatrato nella contemporaneità: il mercato. Scusate se è poco» (p. 140).