di Luca Cangianti

Palazzi massicci alti dieci piani si alternano a complessi di edilizia popolare. Nelle vie secondarie si scorgono costruzioni dai tratti più rurali che rimandano a un paesaggio scomparso ormai da un secolo. Oggi l’Appio Tuscolano si presenta come uno dei quartieri più densamente popolati della Capitale. Fino agli anni cinquanta ospitava gli stabilimenti della Fatme, officine di piccole e medie dimensioni, depositi di mezzi pubblici e opifici cinematografici. La popolazione di conseguenza era un composto di ceti impiegatizi e popolari con una sostanziosa presenza operaia.
Inizia in questo contesto la storia del Comitato di quartiere Alberone, la sede politica di via Appia Nuova 357 che prende nome – come la zona circostante – da un leccio centenario, morto nell’inverno del 1980 e poi sostituito innumerevoli volte. «All’inizio, ti parlo di cinquant’anni fa, ci riunivamo nella sala dei biliardi di questo bar che al tempo era di mia madre.» Sono seduto a un tavolo all’incrocio tra via Furio Camillo e via Niso. Ascolto i racconti di Giammarco D’Ubaldo: «La mia era una tipica famiglia di tradizione comunista. Pensa che mio nonno nel dopoguerra andò alla sede del Pci e tesserò sette familiari senza nemmeno avvisarli. Quando tornò a casa, mia nonna gli disse: “Vabbè, d’accordo, ma almeno ce lo potevi dire, no?”»

Il primo intervento del Comitato fu di tipo antifascista, perché il quartiere era pieno di sedi dalle quali partivano intimidazioni squadristiche verso gli studenti medi, specialmente quelli del liceo Augusto. I locali del Comitato sono costituiti da un semplice stanzone, in un sottoscala senza bagno al quale si accede varcando un portone rosso. Dentro ci sono ancora le scomode panche senza schienale che hanno messo alla prova la solidità (non solo politica) di generazioni di compagni e di compagne. Provengono da una vecchia occupazione: la Chiesetta di via Vigna Fabbri.
Questo luogo e coloro che lo hanno animato sono stati attori politici ineludibili nella vita del quartiere, specialmente negli anni settanta con le autoriduzioni delle bollette per difendere ed espandere il salario sociale, con le lotte contro la disoccupazione e la gestione clientelare dell’ufficio di collocamento, e poi per la stabilizzazione dei lavoratori assunti con la legge 285 del 1977. Le sigle che trovarono ospitalità presso il Comitato sono state molte decine e anche le sensibilità politiche furono diverse. In alcuni casi in conflitto le une con le altre. La corrente prevalente fu quella che faceva riferimento all’area dell’autonomia operaia: «Per noi dirci autonomi significava non delegare niente a nessuno, focalizzarci sui bisogni proletari secondo il principio dell’autorganizzazione indipendente dalle strutture partitiche e sindacali. Gli autonomi del nord ci consideravano un po’ “rozzi” perché più che intellettuali “operaisti” eravamo operai veri e propri.» D’Ubaldo ha pubblicato un libro insieme a Giorgio Ferrari: Gli autonomi. L’Autonomia operaia romana (DeriveApprodi, 2017). Qui la cronaca degli eventi è divisa tra “anni belli” e “anni bui”. I primi sono quelli delle conquiste sociali e della liberazione esistenziale che le accompagnò. I secondi iniziano con gli anni ottanta, la repressione e la militarizzazione del conflitto – proprio quando morì il primo “alberone”, quello centenario. Il Comitato criticò aspramente il sostituzionismo e la pratica di sovradeterminazione delle organizzazioni clandestine; cercò di contrastare la barbarie giuridica e civile del pentitismo con una proposta di amnistia generale che potesse liberare il movimento dalla tenaglia dell’armatismo e della repressione statale.

Oltre al materiale raccolto sul sito del Comitato, una pubblicazione utile a conoscere la storia dell’intervento antagonista nell’Appio Tuscolano è Quelli dell’Alberone. Analisi di un percorso sociale (Massari, 2000). Qui in un’intervista a più voci, Enrico Vincon, un militante recentemente scomparso, racconta: «l’anno che segna una svolta nella storia del Comitato è stato il 1982: la repressione raggiunse il suo culmine, le sedi si svuotarono, al Comitato di quartiere rimanemmo in tre o quattro a tenere aperta la sede. Alcuni compagni erano stati messi fuori gioco dalla repressione, altri iniziarono poco alla volta ad allontanarsi poiché consideravano il Comitato poco sicuro a causa delle frequenti visite della polizia, altri ancora si ritirarono a vita privata.» Eccoci nel pieno degli “anni bui”, gli stessi in cui dilaga l’eroina: «È stato un disastro anche tra i compagni» ricorda D’Ubaldo. «Il motivo? Secondo me la perdita di speranza di poter cambiare la vita, il mondo. Con il riflusso molti militanti non hanno saputo trovare una nuova motivazione che gli facesse sopportare la tristezza del presente.» Anche su quel versante il Comitato cercò di fare la sua parte promuovendo la Commissione eroina che elaborò un intervento basato sulla liberalizzazione e demitizzazione della sostanza. Poi vennero nuove battaglie territoriali: quella per gli spazi verdi da sottrarre alla speculazione, quella per consentire a tutti di fare sport senza dover spendere cifre che normalmente le famiglie proletarie non avevano, quella di rendere la Caffarella uno parco pubblico. «Il rapporto con i vecchi compagni dura ancora ed è solido. Purtroppo ogni tanto dobbiamo salutarne qualcuno per sempre. Fa parte della vita. I locali del Comitato comunque non hanno perso la loro vocazione: ospitano ancora le strutture autorganizzate di lavoratori e di chi non ha alcuna intenzione di accettare le ingiustizie di questa società.»

In Quelli dell’Alberone D’Ubaldo racconta un episodio delle origini che riguarda la sua amicizia con Franco De Marchis, un altro dei fondatori deceduto nel 2020: «Io e Franco ci conoscevamo dalle elementari, eravamo in classi diverse, ma nella stessa scuola, ci perdemmo di vista un paio d’anni dopo le medie e un giorno, mentre io stavo pulendo i vetri del bar di mia madre con dei vecchi giornali di Lotta Continua, Franco passò e dopo aver guardato i giornali mi disse: allora pure tu sei diventato compagno?»
Nella vita capita di fare scelte così nette che poi ti accompagnano per sempre: rimangono fisse come un fotogramma di un film in qualche piega dell’inconscio. Inavvertitamente do un’ultima occhiata alla vetrina del bar e per un attimo mi sembra di scorgere l’immagine riflessa di due ragazzi scanzonati che sorridono.