di Giovanni Iozzoli

G. Marco D’Ubaldo, Giorgio Ferrari, Gli autonomiVolume IV. L’Autonomia operaia romana, DeriveApprodi, Roma, 2017, 224 p., € 18.00

Derive Approdi ha dato alle stampe il quarto volume della serie Gli autonomi. L’intento è quello di approfondire il racconto di una stagione politica, stringendo il focus in modo più serrato sui territori – a partire da quello romano. I curatori del volume sono Giorgio Ferrari e G.Marco D’Ubaldo, storici referenti di due realtà cruciali della piazza romana: i Comitati Autonomi Operai e il Comitato dell’Alberone.

La scelta di indagare la “territorialità” delle esperienze dell’autonomia, è senza dubbio adeguata. Non c’è ricostruzione o ragionamento politico sulle “autonomie”, che possa prescindere da questa dimensione – e questo, oltre che per l’oggettività delle vicende storiche, anche per una teorizzazione largamente condivisa in quegli anni: territorio voleva dire lettura della composizione di classe, costruzione degli elementi di programma, adeguamenti dei livelli di organizzazione e di nuovo ricaduta sui territori. “Territorio” voleva dire terreno di verifica costante delle ipotesi di partenza. E non si trattava dell’ideologica suggestione del “riprendiamoci la città”: era piuttosto faticosa e dirompente costruzione quotidiana di vertenze (territoriali, appunto) che dessero al discorso sull’autonomia, gambe sociali e radicamento.

Il tono del libro si sottrae a ogni amarcord compiaciuto: si sta leggendo la storia a partire dal presente e gli autori, al di là delle vicende biografiche personali, si sentono attivamente parte in causa di una vicenda politica non chiusa, quanto piuttosto traslata e rovesciata sui giorni nostri.

Roma capitale, Roma epicentro politico, nel bene e nel male. Giusto partire dalla sua area autonoma: perché nell’arena romana i ragionamenti sulla metropoli come declinazione della nuova composizione di classe, hanno trovato il loro terreno di pratica più avanzato. Per capirlo, basterebbe avere fra la mani qualcuno dei documenti di rinvio a giudizio relativi ai molti processi contro l’autonomia operaia romana: nelle carte giudiziarie – preziosi strumenti di memoria politica, a saperli leggere – erano puntigliosamente elencati dai magistrati decine e decine di organismi autonomi con le loro sigle, i loro insediamenti sociali, i loro presunti organigrammi, e già solo quelle mappe giudiziarie renderebbero conto di quanta e quale ricchezza rivoluzionaria si stesse parlando.

I curatori del volume ricostruiscono efficacemente il quadro storico dell’Italia – e della sua capitale – agli inizi del decennio 70. In quel contesto maturano alcune condizioni precise, che costituiranno l’humus di crescita dell’autonomia a Roma:
– sul piano soggettivo la decantazione della breve stagione dei gruppi, che libera energie di migliaia di militanti;
– la lotta per la casa, da sempre cruciale in un territorio che dal dopoguerra subisce una costante pressione demografica e un impetuoso sviluppo del ciclo dell’edilizia;
– la lotta nella sanità pubblica e nel comparto elettrico, con la preziosa saldatura tra mobilitazione operaia e diritti delle utenze;
– la presenza delle istanze centrali del PCI e della CGIL, al massimo della loro egemonia, eppure già avviate verso il logoramento della stagione dei sacrifici e della repressione dei movimenti;
– l’antifascismo, in una città in cui la memoria e la presenza fascista, trent’anni dopo la fine della guerra è ancora vivissima (basta rileggere l’autobiografia di Giulio Salierno, per cogliere il senso di quella persistenza tumorale nella capitale).

È attraversando questi terreni – dentro passaggi concreti, tutti giocati nella dimensione di massa –, che si sviluppa la formazione degli organismi autonomi romani: esperienze che fin dalla fondazione portano dentro di sé lo sforzo testardo di ricomposizione dell’agire politico e di quello sindacale, la cui separatezza, nella progressiva elaborazione soprattutto dei Volsci, è giudicata come ostacolo allo sviluppo di una moderna prospettiva rivoluzionaria.

Nel giro di pochissimi anni collettivi e comitati di quartiere – vedi l’emblematica vicenda dell’Alberone – compongono una rete cittadina vivissima e magmatica che attraversa tutte le dimensioni del conflitto metropolitano: l’organizzazione delle lotte incoraggia la spontaneità dell’invenzione proletaria, che a sua volta si organizza e rilancia il processo.

Di notte non era poi così difficile imbattersi in un piccolo gruppo di persone che trainava masserizie verso qualche palazzo disabitato, a volte neanche ultimato, cercando di non farsi beccare dalla polizia. Il fenomeno era talmente vasto e inusitato per una grande città, che finì addirittura in un servizio del settimanale Time (p.85)

E questo significava che, al di là delle campagne e delle grandi lotte organizzate dalla sinistra extraparlamentare, vigeva nei quartieri e nel corpo sociale proletario un’illegalità di massa diffusa, la cui domanda di organizzazione era propriamente la ragion d’essere dell’autonomia.

L’autonomia operaia romana nasce e cammina sulle due gambe della pratica sociale: lavoro e territorio. L’organizzazione politica dei Volsci, in particolare, è espressione diretta di realtà provenienti dal mondo del lavoro salariato:

Fatta eccezione per alcuni studenti di medicina che operavano all’interno del Collettivo Policlinico (e che ebbero una importanza fondamentale nello sviluppo delle lotte) quegli organismi erano composti esclusivamente da lavoratori: impiegati, tecnici amministrativi, operai. Proprio così: operai, che avessero il camice da infermieri, la divisa da portantino o la tuta dell’Enel erano forza lavoro sfruttata come gli altri che stavano in fabbrica, anche se non avevano le “stimmate” delle mani callose. Fu un tratto distintivo dei Volsci quello di imporre all’attenzione del movimento quelle figure snobbate dagli esegeti della classe operaia, quasi che fossero improduttive o parassite, comunque ritenute marginali rispetto all’interpretazione del conflitto capitale lavoro (p.59)

Quindi: naturale acquisizione del carattere socialmente dispiegato dello sfruttamento capitalistico, naturale considerazione del carattere “operaio” di questo lavoro sociale.

Lavoro e territorio, dicevamo: nel corso degli anni 70 romani, alcuni quartieri, vedi Centocelle o San Basilio, liberano il massimo del loro potenziale, in una specie di continuità carsica del conflitto, che persiste dal dopoguerra – occupazioni, autoriduzioni, rivendicazione di trasporti, servizi, socialità alternativa.

Mettere in rete questa proliferazione, non è semplice: si inventano strumenti nuovi – come l’Assemblea cittadina dei comitati operai e di quartiere -, tutti esperimenti faticosi, che vivono di unità, rotture, ricomposizioni, tessuti quotidianamente col filo delle lotte e delle vertenze.
Il metodo dell’autonomia romana, davanti a questa ricchezza sociale, è sempre il medesimo: dalla masse alle masse, perché autonomia vuole dire anzitutto rottura della cattiva dialettica tra presunte “avanguardie esterne” e classe.

Accadeva infatti in quegli anni che un avanguardia colta ed edonista andava sovrapponendo la sua Weltanschauung alla storia reale di un paese mancato… Le concezioni negatrici in origine di un processo di emancipazione proletario indipendente e della capacità della masse di darsi una propria organizzazione autonoma, erano largamente diffuse tra le avanguardie di allora (p.47)

L’Autonomia nasceva come rovesciamento di queste concezioni, che erano eredità non solo dal revisionismo, ma anche del ceto politico del 68.

Giorgio Ferrari descrive i Volsci come un laboratorio dell’ortoprassi sociale, in cui però regnava il gusto dell’eterodossia teorica:

Nell’epoca del post-comunismo mi sento ancora marxista e autonomo: per questo, quando nei primi anni 70 incontrai i compagni del Policlinico e dell’Enel che erano usciti dal Manifesto, per me fu un sollievo. Finalmente potevo esprimere i miei dubbi sull’esperienza comunista senza essere guardato con sospetto; finalmente facevo assieme ad altri quelle riflessioni politiche a cui i rivoluzionari non dovrebbero mai sottrarsi (p.20)

La crisi del paradigma comunista, nella maturità dello sviluppo e della crisi capitalistica degli anni 70, è già palese, per chi voglia vederla, nonostante le piazze piene e i pugni chiusi: l’autonomia operaia era anche il terreno su cui tale dibattito poteva liberarsi con più franchezza.
L’esatto opposto di quelle componenti gruppettare in cui regnava l’ortodossia più conformista, le quali, negli anni della sconfitta, passarono dalla sera alla mattina dall’altra parte della barricata, lasciando dietro di sé le loro sicurezze dogmatiche come una vecchia pelle di serpente – e continuando magari a predicare con la medesima sicumera, le magnifiche e progressive sorti del riformismo anni 80…

La prima metà degli anni 70, vedono l’autonomia romana in prima fila nel tentativo di stabilizzare ipotesi di lavoro politico nazionale. Non è facile, proprio perché alcune esperienze sono a forte caratterizzazione politico-ideologica, mentre altre vivono una dimensione essenzialmente sociale – e non è scontata la condivisione di linguaggi e campagne.

Il rapporto che i Comitati Autonomi Operai provano a consolidare è sull’asse milanese con Rosso, che per un periodo diventa anche rivista nazionale (con via dei Volsci redazione romana). Ma la stagione dell’autonomia milanese è una fiammata che nasce più tardi e si consuma prima, rispetto alla solidità dell’esperienza romana. Differenze radicali di lavoro politico, diventano ostacoli alla costruzione di un punto di vista nazionale: Rosso, sotto la guida di Negri, spinge molto sulla retorica dell’operaio sociale e su una progressiva centralizzazione di struttura, funzioni e direzione politica. Per i Volsci, l’acquisizione del carattere sociale dello sfruttamento capitalistico è una consapevolezza quotidiana che non ha bisogno di conferme o forzature – né teoriche né in termini di costruzione del partito. A Roma, anche nei momenti più alti del conflitto, si preferisce organizzare la vertenzialità diffusa del lavoro sociale sul territorio, non ritenendo matura alcuna credibile “dualistica dei poteri”. Nella rievocazione dei curatori riecheggia ancora la polemica di parte romana verso una torsione intellettualistica, ideologica e soggettivista, che segnerà pesantemente il laboratorio milanese e il suo tracollo.
Il dibattito tra le diverse anime nazionali diventerà rottura. Ma ormai siamo già alle soglie dei tre passaggi chiave che determineranno il senso di quella stagione e il suo declino: la fiammata del 77, il rapimento Moro e la grande ondata repressiva che comincia il 7 Aprile 79 e proseguirà ben oltre la metà degli anni 80.

Dentro questa potente storia di emancipazione e rivolta, scorrono le vicende umane di una generazione di militanti: gli arresti ripetuti di Pifano, Miliucci e decine di altri quadri dirigenti, la chiusura di Onda Rossa e dei Volsci ad opera di Cossiga, le lotte dei disoccupati organizzati della legge 285, migliaia di appartamenti occupati, l’intervento nell’Irpinia terremotata, i cicli di autoriduzione, le lotte per i servizi e una pressione costante sulla spesa pubblica, colta efficacemente nella sua dimensione di salario sociale.

La stagione della gestione dei processi politici e della dissociazione, dividerà ulteriormente i destini delle diverse componenti organizzate: davanti allo tsunami repressivo i Comitati Autonomi Operai esprimeranno una capacità di tenuta, che altri non riuscirono a marcare. Rosso e tutte le esperienze dell’autonomia milanese scompariranno sul finire degli anni 70 stritolati dalla repressione e dalla deriva clandestina. Il ceto politico-intellettuale autonomo si frammenterà in scelte e opzioni non sempre dignitose, tra dissociazioni, conversioni istituzionali e pelosi innocentismi (curiosamente il libro non ricorda la contestazione furiosa della piazza romana al comizio “radicale” di Toni Negri: un episodio minore, che dà però la misura di quanto fossero cambiati i termini del dibattito politico, dentro la sinistra rivoluzionaria, nel breve volgere di pochi anni…).

Di fatto, all’inizio degli anni 80, le uniche soggettività autonome sopravvissute alla bufera del 7 aprile e alla sconfitta di classe, sono l’area romana e il polo veneto: due realtà che conviveranno per un decennio nel Coordinamento nazionale antinucleare antimperialista, in una testarda dialettica (di unità e competizione…), che segnerà positivamente anche le grandi campagne di quegli anni contro le carceri speciali e la tortura, il contrasto al Piano Energetico Nazionale, le battaglie internazionaliste, dall’America Latina alla Palestina.

I Comitati Autonomi Operai, per tutto il decennio 80, saranno il punto di riferimento nella faticosa opera di ricostruzione di un tessuto nazionale, soprattutto per i giovani gruppi del centro sud.

non avremmo potuto reggere l’impatto della repressione di quegli anni bui senza la convinzione di migliaia di militanti e la solidarietà dei quartieri proletari… e questa non scaturiva da un cenacolo di teste pensanti, ma da un radicamento sul territorio che non aveva precedenti e dove le lotte costituirono la migliore scuola quadri che avremmo potuto immaginare (p.125)

Troppe cose, però, stavano rapidamente cambiando: riprodurre se stessi e le proprie forme non è nel DNA autonomo; l’autonomia non sa e non può darsi come cristallizzazione, come preservazione della memoria – è un processo in movimento che impone di stare un passo avanti, inventare nuovi paradigmi, bruciare sempre i ponti alle proprie spalle. Anche su Via dei Volsci e la piazza romana, incombono gli anni 90: la Seconda repubblica incalza, il sistema dei partiti crolla, i blocchi sociali tradizionali vanno sfaldandosi, il capitalismo italiano diventa terreno di scorribanda multinazionale, sempre più marginalizzato nella divisione internazionale del lavoro e dei capitali. Ma questa è già storia di oggi.

Nella mutata situazione politica e sociale, i comitati autonomi operai vanno senza drammi e clamori verso l’autoscioglimento: nel 1992, nel corso di una discussione pubblica e collettiva, la maggior parte degli autonomi romani sceglie di considerare esaurita la funzione dell’organizzazione dei Comitati autonomi («vent’anni erano davvero troppi», dice Ferrari).
L’orizzonte è una nuova immersione nelle due ipotesi di lavoro che si erano sedimentate nel corso degli anni 80: la costruzione dei Cobas e le occupazioni autogestite, come elemento di ri-radicamento nel mondo del lavoro e nel territorio.

Storia aperta, quella dell’autonomia.
Storia sospesa, forse – per quello che non si riuscì a fare e per quello che non si è ancora riusciti a dire.

che fare delle nostre vite non ci sembra affatto scontato. Non pensiamo che a risolvere il problema basti la stesura di un programma comune – che già a redigerlo significherebbe aver messo a confronto analisi e prospettive – se non si rende almeno manifesta l’intolleranza a questo presente, senza nasconderci le difficoltà e senza remore nel dirci come la pensiamo. Ed è questo il tratto distintivo che tanti anni fa, ci ha fatto riconoscere l’uno nell’altro prima ancora di incontrarci. L’intolleranza al presente ci ha fatto incontrare, la volontà di cambiarlo ci ha fatto riconoscere compagni nella vita e nella lotta. Senza questo legami umano e politico, senza questa complicità nel vivere insieme un’avventura estrema fino a mettere la propria vita nella mani dell’altro, saremmo stati un’altra cosa (p. 194)

Che fare delle nostre vite, non ci sembra affatto scontato. Un’affermazione che suona tutt’altro che esistenziale e individualista, una domanda di senso che rimbalza di generazione in generazione, si rovescia sul presente, interroga il futuro. Una propensione molto “autonoma” nel cercare le vie nuove della prospettiva rivoluzionaria.