di Paolo Lago

N. Vallorani, Noi siamo campo di battaglia, Zona 42, Modena, 2022, pp. 319, euro 15,90.

Con Noi siamo campo di battaglia, Nicoletta Vallorani mette in scena un mondo distopico devastato da un Potere oscuro e terribile che si dirama nei più sottili interstizi della società. Si tratta, del resto, di uno scenario già delineato nei primi due romanzi di quella che si costituisce adesso come una trilogia, Eva (2002) e Avrai i miei occhi (2020). A questo potere si contrappongono singoli personaggi, perduti nelle nebbie di una squallida e metafisica Milano del futuro oppure, come nel nuovo romanzo – in cui il “noi” emerge fin dal titolo – una comunità di individui i quali, da singoli, sono riusciti a trasformarsi in gruppo, quasi in un unico corpo che può opporsi alle rigide e dolorose norme imposte dal Potere. Come afferma la «prof» (un personaggio attorno al quale si organizzano in una comune i ragazzi protagonisti della storia) nell’Epilogo, «ora io è noi, anche adesso che sono sola in questo giardino». Perché «pensiamo plurale. Siamo noi e non io». Un «plurale» che lotta contro qualsiasi violenza imposta dal potere: violenza di genere, violenza contro la natura e l’ecosistema, violenza come carcere, violenza come sistema dittatoriale costruito su astruse e incomprensibili leggi.

Lo scenario distopico affrescato nel romanzo si ispira alla situazione reale che abbiamo vissuto sulla nostra pelle nei momenti più bui del periodo pandemico: una gestione dell’emergenza infarcita di leggi speciali e autoritarie, contraddittorie, spesso incomprensibili. Un periodo oscuro in cui i più sacrificati ed emarginati sono stati i ragazzi e i giovani, inquadrati come irresponsabili diffusori del virus. Nel mondo futuro allestito da Vallorani, dopo le diverse ondate di una pandemia, ormai i ragazzi sono diventati invisibili al mondo degli adulti, esclusi, emarginati, vittime sacrificali di turno. Con le scuole chiuse e ogni tipo di attività sociale abolita, i giovani sono come spariti di fronte allo sguardo degli adulti: «Chiusi in casa dopo un po’ non ci hanno più voluti. Portavamo il contagio senza essere necessariamente malati. Non ci ammalavamo ma dicevano che infettavamo gli adulti, quelli produttivi, mica dei bamboccioni come noi». L’ostracizzazione dei giovani è stata un grosso sbaglio perché, come afferma Carla Benedetti nel suo pamphlet La letteratura ci salverà dall’estinzione, essi sono capaci di farsi «acrobati del tempo», cioè di vedere ‘oltre’ laddove lo stanco sguardo adulto non riesce ad arrivare. Anche e soprattutto in tema di inquinamento e cambiamento climatico. In una città devastata dai mutamenti del clima, in cui da un’estate torrida si passa ad un inverno rigido, i ragazzi guidati dalla «prof», quando ormai le scuole sono definitivamente chiuse, si riuniscono nella comune chiamata il «Vivaio» perché l’idea è quella di costituire un orto e un giardino:

Ci venne questa idea dell’orto: far crescere qualcosa non era solo una questione di cibo, ma di prospettiva, proiezione verso il futuro. Volevamo farci piante, come Dafne trasformata in alloro, per sfuggire allo stupro che, dentro di noi, sapevamo che sarebbe arrivato. Era già con noi.

I ragazzi, proiettandosi verso il futuro, vogliono ricreare uno spazio naturale e trasformarsi in piante essi stessi, quasi come gli attivisti ambientali protagonisti di Il sussurro del mondo (The Overstory, 2019) di Richard Powers. Il Potere, per evitare il diffondersi della malattia, ha progressivamente cementificato l’intera città distruggendo la natura e le piante. Il «Vivaio», creando e curando il Giardino, mette in circolo una contestazione alle dinamiche imposte dall’alto. Può venire in mente, per certi aspetti, la comunità dei «Giardinieri» di L’anno del diluvio (The Year of the Flood, 2009), di Margaret Atwood, resistente ad una società dominata dalle derive di una scienza che attua continui esperimenti sul DNA. Come nel romanzo di Atwood, anche in Noi siamo campo di battaglia il Potere agisce direttamente sui corpi con una violenza che, per mezzo del carcere, si fa istituzionalizzata. Il carcere è uno spazio rigido e granitico dove si rinchiudono e si torturano gli oppositori a un regime che cerca di mantenere costantemente i cittadini in uno stato di emergenza e di paura. Una situazione che si ripete anche ai giorni nostri, fuori dalle distopie e dentro la realtà: la continua emergenza disposta contro fantomatici ‘nemici’ o contro il «terrorismo» non sta facendo altro che trasformare la nostra realtà quotidiana in distopia. Il «Vivaio», inviso alla macchina statale e burocratica, assomiglia ai centri sociali occupati e autogestiti, odiati iperbolicamente da qualsiasi forma di organizzazione di potere; ma assomiglia anche alle comunità delle periferie delle grandi città, composte soprattutto da giovani abbandonati a sé stessi, spesso stranieri o immigrati, che vengono respinti e ostracizzati con estrema violenza dal centro politico, economico e culturale delle città, come vediamo ad esempio nel recente film Athena (2022) di Romain Gavras.

Se in Avrai i miei occhi, la crudeltà del potere emergeva soprattutto sotto la forma di violenze imposte ai corpi delle donne, siano essi umani, cavie, cloni o cyborg (come nota Giuliana Misserville in Donne e fantastico, la fantascienza femminista ha usato largamente la figura del cyborg, a partire dal Manifesto Cyborg di Donna Haraway), adesso la forma della violenza appare diffusa ovunque, nella durezza delle repressioni delle manifestazioni, nell’annientamento della natura, nel controllo invasivo dei media, in un meccanismo crudele e perfetto: «L’epidemia produce l’emergenza che produce le regole che producono il regime militare che produce la distrazione collettiva. È tutto perfettamente sequenziale e sarebbe persino rassicurante, non fosse che nessuno se ne sta rendendo conto». Il personaggio di Yuri, incarcerato, sarà sottoposto alla tortura unicamente per dimostrarsi, alla fine, sottomesso al Potere: «Non è importante la confessione. Solo la sottomissione, in ogni forma di tortura».

Se il Potere si struttura nelle forme del carcere, del controllo emergenziale e della famiglia istituzionale, le cui modalità sono imposte da schemi predefiniti, la contestazione si articola nelle modalità della libera comunità e del giardino, uno spazio ‘eterotopico’ (come direbbe Foucault) in cui le radici delle piante si espandono e si diffondono. Alla rigidità del Potere, irreggimentato nelle sue astruse geometrie, si contrappone la fluidità del divenire. Emblema di questa fluidità sono appunto i ragazzi, portavoce di un mondo ancora possibile, un po’ come i piccoli protagonisti di Bambini bonsai (2010) di Paolo Zanotti, i quali, in un mondo futuro devastato dal mutamento climatico, si allontanano dalle loro dimore durante la stagione delle piogge – nel momento in cui gli adulti si rintanano timorosi in casa – fino a intraprendere un viaggio iniziatico dalle connotazioni ecologiste. Tale fluidità fa sì che, nel romanzo di Vallorani, i ragazzi quasi si trasformino essi stessi in città fin dal titolo, in cui il «noi» si fa coincidere con un «campo di battaglia» che non è né più né meno che la città stessa devastata dalle maglie del Potere: nel corso della narrazione, infatti, si ripete più volte il sintagma «noi città». I ragazzi, per «fertilizzare» il futuro, diventano anche «creature compost», humus vivificatore per la diffusione dell’orto e del giardino nelle strade ormai cementificate dello spazio urbano (e allora, «noi siamo giardino»). I loro corpi, come già notato, sono soggetti a una metamorfosi continua per sfuggire alla violenza di un Potere irreggimentato in granitiche pose, «un nemico asettico e professionale, che indossa la scienza invece della crudeltà».

Un’altra espansione del Potere appare infatti una scienza asservita, in fin dei conti, agli interessi del Capitale: una scienza che diviene sinonimo di crudeltà. La creatività, la comunità, la pluralità si oppongono in maniera netta a tutto questo. Ecco che, anche in un panorama devastato da una gelida e allucinata distopia, c’è sempre spazio per la speranza. L’orto, il giardino, il «Vivaio» sono forme espressive che si contrappongono alla devastazione, all’annichilimento delle volontà, ai muri e alle barriere eretti nelle vie cittadine, alla disumanizzazione che non permette, in tempi di pandemia, di piangere i propri morti. L’orto e il giardino sono sinonimo di comunità, di un «noi» che lotta contro una scienza-crudeltà, contro il carcere, contro il controllo e la famiglia rigida e istituzionale. Anche a livello formale, Noi siamo campo di battaglia appare pervaso di una scrittura fluida e ‘nomadica’, in continuo movimento, in continua fuga dalle subordinazioni a un genere definito. La narrazione di Vallorani valica i generi, dalla fantascienza fino al thriller con incursioni anche nell’horror e nel fantastico, perché quando «il cielo è rosso sangue sui tetti della città», «è una serata da vampiri» (e allora si potrebbe pensare ad un’altra scrittura femminile, quella di Chiara Palazzolo con la sua «trilogia vampira»). La scrittura ‘plurale’ è sinonimo di comunità, di orto, di giardino, di vivaio ed è essa stessa politica, come quella attuata dal personaggio della «prof»; una scrittura che salva e si trasforma in una lotta che non finisce.