di Walter Catalano

Non mi ero predisposto alla visione con particolare attenzione verso The Peripheral, in italiano Inverso: la serie televisiva statunitense creata e prodotta per Amazon Studios e Warner Bros Television in collaborazione con Kilter Films, da Scott B. Smith insieme a Jonathan Nolan e Lisa Joy, e basata sull’omonimo romanzo di William Gibson. L’immaginario cyberpunk gibsoniamo, fatto di realtà virtuali, computer, periferiche di input e output, mi pareva ormai inguaribilmente datato in senso visuale: un affastellamento di residuati e protesi tecnologiche intese a mantenere o resuscitare un’epica degli anni ’80/’90 sostanzialmente fasulla, rispetto a una deriva informatica che ha ormai imboccato ben altri percorsi. Inoltre non essendo mai stato particolarmente affezionato a Westworld, che ho abbandonato senza rimpianti alla seconda stagione, non mi facevo nessuna illusione sul nuovo progetto degli stessi ideatori e produttori. Devo riconoscere invece che, superata l’iniziale perplessità, la serie mi è apparsa decisamente superiore alla precedente. Là dove spesso Westworld si inceppava diventando astrattamente noiosa e pretestuosa, qui, grazie anche al sottotesto intricato ma nitido offerto dal romanzo di Gibson – uscito nel 2014 e a cui è seguito nel 2020 il secondo volume del ciclo, Agency – il ritmo resta più incalzante e i personaggi mantengono la loro coerenza.

Niente da eccepire anche sulla performance dei protagonisti, efficaci e ben caratterizzati sotto la regia, prevalentemente, dell’italo-canadese Vincenzo Natali: Jack Reynor, già visto nei panni dello scienziato-stregone John Whiteside Parsons nella purtroppo interrotta serie CBS Strange Angel, e la giovane ed eterea Chloë Grace Moretz, che interpretano le figure di Burton Fisher, ex marine in congedo con impianti neurali – una connessione neurale “aptica” sotto pelle che gli permette di condividere i sensi con i commilitoni del suo plotone –  installati durante il servizio attivo nelle forze armate nel corso della guerra contro il Texas secessionista; della candida ma intraprendente sorella minore Flynne – “tutta unicorni e arcobaleni” dirà di lei un personaggio – che lavora in un negozio di stampe 3D ed ha uno spiccato talento nei giochi di simulazione virtuale; e della madre Ella (Melinda Page Hamilton), malata terminale per un raro tumore; che sopravvivono, siamo nel 2032, nel contesto rurale, molto hillibilly, e socialmente degradato di un’area semiselvaggia nel Blue Ridge del North Carolina, dove spadroneggia la cricca del gangster Corbell Pickett (Louis Herthum) – gli Appalachi si confermano anche in quest’occasione un’area iconica per il cinema americano: si pensi a Un tranquillo weekend di paura (Deliverance, John Boorman, 1972) e Il cacciatore (The Deer Hunter, Michael Cimino, 1978). I due fratelli arrotondano la magra pensione di invalidità dell’esercito come sperimentatori di prototipi di giochi online, e questo secondo lavoro sarà l’occasione che avvierà la vicenda. La possibilità di testare una nuova simulazione ambientata in una Londra del 2099, solo apparentemente virtuale, sbalza i protagonisti 70 anni avanti, come riluttanti pedine di una guerra di intelligence condotta attraverso le “periferiche” del titolo, ovvero organismi robotici in grado di ospitare la coscienza del soggetto permettendo di viaggiare nel tempo, per interposta persona, tramite un flusso di particelle quantistiche che trasportano informazioni e permettono al viaggiatore di “abitare” un avatar sintetico. Gli eventi si dipanano attraverso linee temporali parallele – chiamate “stub”, tronconi, frammenti – che si creano (e si distruggono) ad ogni possibile biforcazione divergente nella linea del tempo, sorta di rami che diventano secchi a seguito di divaricazioni contraddittorie nel tempo quantistico, eliminando così qualsiasi possibile paradosso temporale e, nel caso specifico, sotto la minaccia dell’evento apocalittico – chiamato Jackpot – che incombe sul “troncone” da cui provengono i fratelli Fisher e sta all’origine di quello londinese in cui si muove Aelita West (Charlotte Riley), il personaggio più sfuggente e carismatico che li ha convocati e che lotta a fianco del gruppo dei Neoprimitivi per sovvertire l’ordine sociale mondiale, instaurato dopo il Jackpot, sotto il controllo di multinazionali e oligarchi russi. Il rimando traslato ad Aelita, il romanzo di Aleksej Nikolaevič Tolstoj, pubblicato nel 1922 nella Russia appena divenuta Urss e al successivo film omonimo realizzato dal regista Jakov Protazanov nel 1924, primo kolossal sovietico di fantascienza, non si limita evidentemente per Gibson solo ad un’onorifica citazione nel nome di uno dei personaggi principali, ma assume una valenza ben più evocativa ed ellitticamente tematica.

Rispetto al libro, però, la serie va comunque considerata una rivisitazione più che un adattamento fedele. La cornice è identica, i personaggi sostanzialmente gli stessi, così come anche molte scene e i principali snodi di trama. Tuttavia, la storia televisiva ha tinte più nette, più manichee e tende a virare le varie tonalità di grigio dell’ambiguità morale di gran parte dei personaggi gibsoniani nel bianco o nero di polarità opposte e definite. Nonostante la sua profonda influenza, Gibson non ha avuto finora troppa fortuna quando il suo lavoro è stato trasposto sullo schermo – Johnny Mnemonic di Robert Longo (1995) e New Rose Hotel di Abel Ferrara (1998), sono film solo in parte riusciti con la parziale eccezione dell’interpretazione di Keanu Reeves in Johnny Mnemonic – pur avendo lo scrittore lavorato per qualche anno ad Hollywood e scritto un Alien 3 che non è stato mai realizzato. La sua forte critica alle sovrastrutture finanziarie e tecnologiche del mondo contemporaneo, che da Neuromante in poi ha prefigurato ed estremizzato le derive che abbiamo sotto gli occhi – basti pensare alle follie futuristiche miliardarie di Jeff Bezos – rischia spesso di passare sotto tono, annacquata ed edulcorata, dalla letteratura ad altri linguaggi più massificati come cinema e tv. Il personaggio di Wilf Netherton (Gary Carr), figura speculare a Flynne nel tempo futuro, ad esempio, è nel romanzo di Gibson nettamente più complesso del suo corrispettivo televisivo, così come l’intera trama a suo riguardo, decisamente più articolata, mentre nella serie ci si concentra solo e unicamente sul suo rapporto con Lev Zubov (JJ Feild), oligarca della Klept, organizzazione commerciale mafiosa che regge le finanze del mondo dopo il Jackpot, con strategie geopolitiche criminali semplificate e banalizzate eccessivamente nel serial. Aggirando tutte le sottigliezze del romanzo lo show snellisce il contrasto: alla violenza sistemica del capitalismo predatorio delle corporation e delle zaibatsu, Flynne e i suoi accoliti reagiranno scatenando una guerriglia individualista, anarchica e imprevedibile.

Dal punto di vista concettuale e nella labirintica struttura tematica comunque la serie non fa troppo torto al romanzo. In molti vi hanno trovato affinità stilistiche notevoli, oltre che ovviamente con Westworld (che comunque, come già ho detto, resta uno show assai meno nitido e focalizzato di questa nuova produzione), anche con Fringe e soprattutto con la notevolissima Counterpart (purtroppo, come molte serie troppo sofisticate, cancellata dopo la seconda stagione), anch’essa basata su due realtà parallele e confinanti, con ognuno dei personaggi che aveva una controparte dall’altro lato. Sul piano iconografico invece ci si rifà ad una visualità anni ’90, forse esplicito rimando all’epoca d’oro del cyberpunk, a cominciare dal tema musicale e dalla sigla dei titoli di apertura quasi da Space Opera – un po’ The Expanse, ottima, un po’ Foundation, penosa – come a volersi accattivare un pattern identificativo di genere. Così infatti, inseguendo la stessa riconoscibilità, sia lo scenario americano teso ad un realismo redneck fin troppo ostentato, che gli estraniati e metafisici paesaggi londinesi costellati di svettanti e mastodontiche statue neoclassiche, confermano una visualità da videogioco – dato il tema in fondo giustificata – che risulta suggestiva ma decisamente abusata.

Per quanto i fan più intransigenti di William Gibson possano restare inevitabilmente delusi, bisogna dare atto alla serie tv di aver mantenuto, a grandi linee, una certa coerenza nell’affrontare tematiche attuali quali lo stato di sorveglianza, la minaccia rappresentata dalla cleptocrazia, la difficile situazione dell’America rurale, il trattamento dei veterani di guerra, l’aumento dei costi di assistenza sanitaria e i disordini politici negli Stati Uniti. Forse in modo superficiale, ma un certo, almeno formale, impegno, è stato mantenuto: in fondo di un prodotto d’intrattenimento si tratta e da Gibson si è preso, comprensibilmente, più l’aspetto thriller ed action che la riflessione sociologica.  La lotta tra il controllo sociale da una parte e l’autonomia individuale dall’altra, così come l’interazione e la compenetrazione tra Physis, e quindi Sòma, e Tèchne, che sono un po’ i temi cardinali di Gibson e del cyberpunk in generale, restano comunque intatti. Non è poco.

Insomma, per concludere, molti pregi e molti difetti. Per ora tiriamo avanti e stiamo a vedere cosa ci riserverà la seconda stagione.