di Giovanni Iozzoli

Ero arrivato davanti alla Residenza Socio Assistenziale T. Meliconi, in un tardo pomeriggio di marzo, quando viene fresco e buio verso le 6. Stavano finendo gli anni 90. Stavano finendo molte cose. Ero di passaggio a Rimini, potevo trattenermi giusto un’oretta e poi continuare il mio giro – Ancona, Ascoli e tutta la via crucis. E’ che io avevo sempre promesso alla buonanima di mia madre che sarei venuto a trovare zio Gerardo, prima o dopo. E adesso che lei era morta, mi sembrava buona creanza ottemperare. Non che ne avessi voglia, si capisce. Quei posti lì mi mettono sempre un po’ di depressione, di angoscia. Ospizi e ospedali. Quando devo entrarci mi tornano in mente quello che vidi da ragazzino nella cripta di una chiesa a Roma, non ricordo quale; c’era una teca piena di ossa e di teschi e sopra la scritta: Hoc sumus. QUESTO, SIAMO.

Adesso però, nel salire le scale, cercavo di farmi forza. Non stavo andando in un ossario, questo era un posto ancora pieno di vita, dove si facevano tante cose buone per gli anziani. Tenerli occupati, socializzare, quelle cose così. E poi c’erano i medici, il personale e magari anche qualche bella infermiera sorridente ad accogliermi. Insomma, non dovevo farmi affliggere dall’ambiente. E soprattutto non pensarci, al fatto che dentro una struttura così, a suo tempo, potremmo finirci tutti. Ospizi, ospedali e anche cimiteri: questi sono i posti che mi impressionano un po’. Anche le chiese antiche con le cripte: se posso le evito.

Entro dentro e alla reception, invece, della bella infermiera trovo un tizio tarchiato, con i baffi e gli occhiali. Mi dice il piano e il numero di stanza e mi fa segno di salire. Sono un po’ interdetto. Pensavo che qualcuno mi accompagnasse. Che faccio, mi presento io a zio Gerardo, così, di punto in bianco, dopo 30 anni che non ci vediamo? Sicuro non mi riconosce. Io speravo nella bella infermiera che mi facesse strada e dicesse: “signor Espositooo, guardi che bella sorpresa è venuto suo nipote a trovarlaaa…”.

Comunque zio Gerardo si era scelto un bel posto, per venire a morire, a 500 metri dal mare. Forse ormai si guadagnava più coi vecchi che con i turisti. I vecchi duravano tanto, non cambiavano sede una volta stabiliti e spesso avevano delle belle pensioni da spremere. I turisti invece erano fugaci falene che danzavano al sole per qualche settimana e poi sparivano, inafferrabili e traditori. Era per quello che il villone a tre piani dell’ospizio non era mai diventato un albergo per bagnanti.

La vita epica di zio Gerardo era stata una specie di leggenda, in famiglia. Lo si citava spesso come esempio di indomita capacità di adattamento. Era un fratello di mia nonna e mentre tutta la sua famiglia, come i suoi antenati, erano rimasti eternamente inchiodati alla terra e alla zappa, lui aveva girovagato per paesi e città come uno zingaro, trovando sempre una soddisfacente collocazione, ovunque andasse. Era scappato via dal paese giovanissimo, prima che arrivasse la cartolina che lo avrebbe mandato a morire in Africa Orientale. Era stato in Svizzera e in Francia. Era rientrato a guerra finita, da orgoglioso disertore, e si era rimesso subito in cammino – un paio d’anni da un cugino in America. Era tornato in Europa per andare a fare il minatore in Belgio, dove pare pagassero molto bene. A Marcinelle, per un fortunato cambio turno, salvò la pelle – e la raccontava sempre, quella storia, a noi nipoti piccoli, per farci capire le cose della vita. Girò ancora per fabbriche e cantieri d’Europa e in età ormai avanzata si spostò sulla riviera romagnola, in pieno boom turistico, e siccome sapeva far tutto, era laborioso, simpatico e impavido, gli stabilimenti se lo litigavano come factotum. In famiglia si diceva che non si fosse mai sposato perchè era un po’ donnaiolo.

Da qualche anno la sua salute da 85enne era peggiorata e una qualche demenza oscura e silenziosa gli aveva fatto smarrire lo sguardo nel vuoto, a farfugliare preghiere misteriose e inconcludenti. Il cervello dello zio era diventato in poco tempo una cittadella abbandonata, riconquistata dalla natura del deliquio, del sogno, dell’immaginazione, del caos da cui tutti proveniamo.

Al secondo piano mi si para davanti una suora dall’aria indaffarata. E’ piccola, bianca immacolata, con lo sguardo metallico dietro le lenti spesse. Le dico chi cerco e lei mi fa segno di seguirla; mi inchino rispettoso, le suore mi mettono sempre soggezione.
Lei arriva davanti ad una porta in fondo al corridoio e senza troppi complimenti, senza nemmeno bussare, apre. Mi infilo nella stanza. Là dentro tutti gli odori si mescolano, con le finestre e le tapparelle serrate: canfora, medicinali, urina, i resti della cena su un vassoietto. La suora è andata. Non so che fare. Dico: buonasera e piano piano striscio dentro, col mio pacco di Ferrero Rocher in mano, che ho comprato all’autogrill. Già mi manca l’aria.

Mio zio stava dormendo su una poltroncina, in un angolo. Si faceva fatica a riconoscerlo. La pelle del viso cadeva da tutte le parti, il mento era come rigonfio per la lingua arrotolata, rilassata dal sonno profondo. Il suo vigore ottimista e buono era come scomparso. Rimanevano a marcarne la fisionomia solo gli zigomi e l’arcata sopraccigliare, ancora duri, da uomo forte qual’era stato. Non so se svegliarlo o no. Rimango in piedi come un fesso in mezzo alla stanzetta, alla disperata ricerca di un filo d’aria. Non dovevo venire, lo sapevo. Sono troppo sensibile a queste cose, mi impressiono e poi sto male.

L’altro occupante della stanza è seduto di spalle sul suo lettino. Sembra basso ma molto robusto. Tutto piegato in avanti. Pare non essersi accorto di me. Ripeto: buonaseraa.. a voce un po’ più alta. L’uomo si gira, e mi fissa a bocca aperta, senza rispondere. Faccio segno col dito verso mio zio: come a dire, sono venuto per lui. Continua a fissarmi, si volta meglio verso di me, con una espressione indagatrice. Mi avvicino a lui, nella penombra e mi accorgo dei suoi occhi: due strani bulbi lattuginosi, biancastri e azzurrognoli, le porte misteriose di una cataratta finale. L’uomo deve essere quasi cieco e mi sta fissando per cercare di mettere a fuoco la mia figura. Ha i capelli bianchissimi, radi e una barbetta mal curata. Dopo qualche secondo mi dice compito: – suo zio sta dormendo; dorme sempre a quest’ora.
Ha una dizione impeccabile, da persona colta.

Annuisco ma sono perplesso: come faceva a sapere che sono suo nipote? Nessuno sapeva della mia visita. Forse i ciechi sviluppano un qualche tipo di intuito particolare, come si legge nei fumetti? Il vecchio si assesta meglio sul letto, per girarsi del tutto dalla mia parte; con una voce flebile e premurosa, come se stesse continuando un discorso cominciato da tempo, mi fa: – sa, io ho aperto diversi ospedali in Africa…ero un medico…un primario…anche piccoli, ambulatori, più che altro…ma servono anche quelli…non c’è bisogno di grandi cose…

Vorrei dirgli: bravo, essere condiscendente. Poi penso che magari se la sta sognando, questa cosa dell’Africa, o l’ha vista in televisione ieri sera, o magari è la morfina che lo fa straparlare. Sembra andato di testa anche lui.
– adesso arriva la negra… – mi dice.
Io annuisco sempre. Intanto mio zio ha cominciato ad emettere un lungo lamento sommesso ad ogni respiro, come una lacrimazione interiore. Io sono sempre piantato in mezzo alla stanzetta.
Il vecchio cieco mi dice: – sarebbe così cortese da aiutarmi ad andare alla toilette?

Non so che fare. Lo aiuto volentieri. Ma forse sarebbe meglio chiamare l’assistenza o la monaca. Mi sposto dalla sua parte. Lo sguardo perso nella profondissima cataratta azzurrognola, le mani già protese verso di me, per farsi sollevare. Le gambe del pigiama sono rialzate sulle tibie: i piedi sono spaventosamente gonfi, come due oscene zampogne; e uno dei due se lo sta mangiando il diabete. Io queste cose non riesco a vederle, mi impressiono.

– Grazie… lei non sa com’è difficile tirare avanti con una malattia invalidante… sono medico, io… ho il diabete… ho tante patologie… la vita che ho fatto.

Lo tiro su piano piano, sembra fatto di porcellana, o di carta velina. Si attacca al mio braccio e si trascina verso la porta del bagnetto. Dal rigonfiamento sotto al pigiama mi sembra indossi il pannolone, forse se ne è scordato; dovrei dirglielo: guarda che hai il pannolone. Intanto ha aperto la porta del bagno e si è infilato dentro richiudendosela alle spalle – spero non a chiave. Non sapevo che fare. Forse avrei dovuto entrare in bagno con lui, controllare che non si facesse male; però sono un estraneo, magari mi diceva: che vuoi, nel cesso con me? Che ne so se lui è abituato ad andare in bagno da solo? Adesso mi agito. Se succede qualcosa, là dentro? La suora mi sgriderebbe, direbbe: ma chi l’ha autorizzata a lei, ad accompagnare in bagno il paziente? Quando vogliono le suore sanno essere spietate.

Intanto mio zio continua a dormire, ma il lamento sembra diventato più un rantolo, come uno che non riesce a respirare. Mi avvicino a lui, lo guardo da vicino, sa di borotalco. Si, effettivamente sembra non ce la faccia a respirare, fa lunghe apnee. Anche qui, non è che devo avvisare qualcuno? Perchè lasciano i visitatori da soli?Forse lo zio va svegliato, deve cambiare posizione. Io ho ancora i Ferrero Rocher in mano e li appoggio sul tavolino. Non dovevo venire.

Torno alla porta del bagno, appoggio l’orecchio e dentro non si sente niente. Busso piano: – mi scusi, tutto bene là dentro? Dieci secondi di silenzio. Poi all’improvviso un brutto rumore di oggetti che cadono e si frantumano. Lo sapevo. Questo è cascato, si è rotto il femore e adesso la suora chi la sente? Entro e trovo il tipo appoggiato penosamente al lavandino, come un orso precario e barcollante; il pannolone mezzo giù, come le braghe del pigiama; ha l’affanno. Tra il lavandino e il pavimento i resti della mensola che stava sotto allo specchio. Si vede che si è aggrappato e l’ha sfondata, facendo cadere per terra tutto quello che c’era sopra – saponi, rasoi, un bicchiere.

Entro in bagno, lo faccio appoggiare a me e gli sistemo alla meglio il pannolone e i pantaloni del pigiama. Per fortuna non sembra essersi fatto male. Però è imbarazzato. E’ in balia della sua invalidità, del suo buio, di un estraneo che lo deve riportare a letto. Scosto i pezzi di vetro del bicchiere con il piede e lo faccio uscire dal bagno. Si risiede al suo posto, sospirando, come se avesse fatto una fatica immane. Mi sta di nuovo dando le spalle, sembra assorto; forse si è anche dimenticato della mia presenza. Da dietro, visto cosi’, curvo e silenzoso, fa ancora più pena. La nuda vita che contempla se stessa. Intanto mio zio è lì sulla sua poltroncina che continua a dormire e rantolare. Ho già visto abbastanza. Non ho nessuna voglia di svegliarlo. Come farei a spiegargli chi sono e cosa sono venuto a fare? Se non capisce più niente, non capisce e amen. Nel viaggio mi ero persino immaginato un finale a sorpresa: lui che mi abbraccia e mi dice, nipote mio sei l’unico in famiglia che è venuto a trovarmi e lascio tutto a te!

Intanto il sedicente dottore ha cominciato a tossire, prima piano e poi più forte. E tra un colpo e l’altro mi ripete, come a tranquillizzarmi: adesso arriva la negra. Chissà che ricordi va impastando. Ma era vera la storia degli ospedali in Africa? Chissà se esistevano davvero. Magari c’era davvero qualche sperduto ambulatorio tropicale, da qualche parte, dentro cui una targa e una vecchia foto ricordavano che quel povero cieco sulla via della demenza, era stato un uomo importante, un punto di riferimento per qualcuno, un benefattore. Ma come facciamo a ridurci così pateticamente in vecchiaia? E perchè uno come me, sempre sull’orlo della depressione, era venuto a vedere questo triste spettacolo? Davvero speravo in qualche eredità da raccogliere? Davvero sono così meschino? E’ che sono sempre senza soldi. Sempre. E mi attacco alle speranze più ingenue, come qualcun altro, magari, si attacca alla bottiglia.

Sono tornato davanti alla poltroncina di mio zio. I pensieri ormai roteavano impazziti senza né capo né coda. Mi facevo domande mai fatte prima. Perchè quest’uomo in gamba, tanto stimato, che sapeva cadere sempre in piedi, non si era mai sposato, non aveva mai messo su famiglia? Donnaiolo? E se invece fosse stato semplicemente omosessuale? Anche questo suo continuo sradicarsi, cercare nuovi mondi, non poteva essere quella la ragione? E qualcuno magari in famiglia lo sapeva – magari anche mia madre, penso con stupore. E tutti i soldi che aveva guadagnato dove li teneva? Sfioro il dorso della mano di mio zio, rugoso come la zampa di una tartaruga. E’ pulito, sbarbato e ordinato, come l’ho sempre visto. Lo saluto piano, tra i denti, e mi tornano a galla i ricordi di bambino, di quando eravamo una grande famiglia felice, prima che tutto deflagrasse e impazzisse e ognuno andasse per i fatti suoi. Non ci rivedremo mai più in questa vita, zio. Tra l’altro adesso non rantola più e sembra che non respiri neanche. Ci mancherebbe anche che morisse adesso, mentre sono qui.

Saluto anche l’altro degente. Vado davanti al suo lettino e faccio una specie di inchino anche a lui. Ma non mi vede, non mi guarda nemmeno. E’ perso nel suo mondo. I suoi occhi liquidi, con quei lampi di un azzurro indefinibile, mi ipnotizzano come lo sguardo di un serpente. In quegli occhi è annegata una storia, forse epica quanto quella di mio zio. Cerco di cogliere il segreto di quelle due vecchie vite alla deriva. Sono uomini di un’altra pasta, di un altro stampo. Passati come salamandre nel fuoco di guerre e disastri, sempre ricostruendo indomiti, il senso del loro stare al mondo. E se penso alla mia vita? Con i miei debiti cronici, una moglie separata che mi odia, due figli che mi sono indifferenti? E il mio saltellare da una città all’altro, col campionario in valigia. Altro che Africa. Esco dalla stanza e mi richiudo la porta alle spalle, come fosse una bara. Mentre mi avvio lungo il corridoio a testa bassa, incrocio una signora di colore, sulla sessantina, con una sportina di plastica al braccio; ha i capelli tutti grigi e un’aria stanca, cammina strascinando i piedi. Allora il tipo stava davvero aspettando “la negra”? E chi è? Una badante? O un suo vecchio devoto amore africano che l’ha seguito per accompagnarlo alla fine?

Esco dalla RSA T. Meliconi che è già buio. Il fresco frizzante di marzo non mi dà ristoro. L’aria continua a mancarmi, come quando ero dentro. Non avrei dovuto andarci, a trovare zio Gerardo. Ho anche lasciato i Ferrero Rocher sul tavolinetto, a portata di mano del diabetico, che ci si può ammazzare. Che testa di cazzo: come si fa a portare i cioccolatini a dei vecchi malati? Adesso senti la suora, se li vede. Ormai sono fuori, bisogna rimettersi in macchina e correre ad Ancona. Devo arrivare per le 19 da Galeazzi Ferramenta. Ritornano le preoccupazioni: il campionario di utensileria per macchine industriali nella valigetta, l’elenco dei clienti da visitare, un paio di spie sul quadro che si accendono e si spengono infide. L’odore di borotalco e urina che sembra avermi impregnato i vestiti. Accolgo tutti i pensieri, vanno bene tutti, se riesco a tenere lontano quello più terribile: questo, siamo!

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