di Francisco Soriano

La guerra ha spesso rappresentato nella storia degli uomini, con i suoi orrori e le sue derive, uno spazio lirico senza precedenti e una testimonianza fedele sulla fragilità della vita. Lo stesso “war poet” Wilfred Owen poneva l’accento, in un testo scritto nelle trincee ai confini del fronte occidentale nel Primo conflitto mondiale, sulla funzione etica del poeta: “Queste elegie non sono in alcun senso consolatorie per questa generazione. Potranno forse esserlo per la prossima. Tutto ciò che può fare un poeta è mettere in guardia. Ecco perché il vero Poeta deve essere sincero”.

È grazie all’imprescindibile traduzione di Paola Tonussi (War Poets – Nelle trincee della Prima guerra mondiale, Edizioni Ares, Milano, 2022), già finalista del Premio Comisso con una biografia su Emily Brontë, vincitrice del Premio Vassallini dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti nel 2003 e membro della Società letteraria di Verona, che vengono alla luce in Italia per la prima volta, i versi di poeti coinvolti in azioni belliche durante la Prima Guerra Mondiale e raccolti in una vera e propria “elegia della gioventù perduta”.

La storia dei “War poets” si dipana in uno dei momenti storici più drammatici per la nostra Umanità. L’invasione del Belgio avvenuta il 4 di agosto del 1914, da parte della Germania, colse di sorpresa soprattutto gli inglesi. In Inghilterra erano copiosi i problemi che affioravano a causa della strutturale trasformazione dell’economia e dalle contraddizioni che emergevano da uno sviluppo forsennato e senza regole. Gli scioperi delle industrie più importanti e le proteste che rivendicavano i diritti delle persone cominciavano a destabilizzare il Paese. L’instabilità era quella di una società in crisi di identità per una nuova visione di società che, tuttavia, avanzava veloce verso nuove dinamiche in ogni settore. Inoltre, in Irlanda si susseguivano le rivolte per l’autonomia e in Inghilterra le proteste rispecchiavano nuove rivendicazioni, come ad esempio quelle che riguardavano il diritto al voto delle donne e la richiesta di essere ammesse alle scelte decisionali nelle istituzioni di governo. L’Inghilterra non affrontava una guerra da oltre un secolo e, in Europa, vigeva una consolidata idea di pace. A differenza di quello che era stato programmato dagli aggressori, come spesso capita (lo vediamo anche nell’ultimo conflitto fra Russia e Ucraina), non fu una guerra-lampo e il conflitto non finì presto: nelle trincee ci fu una vera mattanza di giovani e un disastro di dimensioni umane che cancellò una intera generazione. I soldati morivano respirando gas nervini, colpiti dai proiettili e assiderati nel fango, già resi fragili da infezioni e malattie. Il prezzo pagato in termini umani ed economici assunse contorni tragici. Infatti, nessuna delle parti belligeranti riuscì a prevalere in modo determinante. Le capacità distruttive degli eserciti, invece, progredirono nell’intento di uccidere indiscriminatamente: il lanciafiamme fece la sua prima apparizione nella seconda battaglia di Ypres, nel maggio del 1915. Si susseguirono battaglie e massacri infernali. Gli inglesi nella impossibilità di sfondare le difese tedesche, protette razionalmente da filo spinato elettrificato e fortini inespugnabili da nord a sud, gettarono nella frustrazione i combattenti. Per questo motivo fu pensata e realizzata, con risultati a dir poco disastrosi, una manovra di aggiramento con una spedizione a Gallipoli e Salonicco che avrebbe dovuto cogliere di sorpresa il nemico. I “War poets” si distinsero in guerra anche con gesta eroiche, vivificate per lungo tempo come strumento della solita propaganda di guerra, insensata e dolorosa. Quasi tutti perirono, uccisi da cecchini o in scontri fatali fra truppe nemiche: alcuni gettati in fosse comuni per essere più tardi riesumati, altri fecero presto ritorno in Patria ricevendo l’onore della retorica dell’eroe-poeta. Pochissimi tornarono dal fronte occidentale, luogo inesorabile di morte: Ypres e Verdun per ricordarne alcuni ma, anche dai Dardanelli, il disastro ebbe il suo compimento.

In questa visione della guerra come gesto eroico e quasi “ineluttabile” per la difesa della propria terra, possono distinguersi diversi periodi e contenuti che non sembrano, tuttavia, contraddire la prospettiva iniziale della necessità di un conflitto visto soprattutto dal punto di vista dell’aggredito. All’origine dell’avventura bellica, Rupert Brooke fu il poeta che più di tutti, in assoluto, si distinse per fascino e slancio eroico: alla sua morte Winston Churchill scrisse un necrologio, nel “Times” del 26 aprile del 1916, in cui ne glorificava le gesta e il ruolo assunto per la patria. Cercò di eternare il suo talento, morto per suo volere in modo consapevole: “Si aspettava di morire, voleva morire per l’amata Inghilterra, di cui conosceva la bellezza e la maestà; e avanzava verso quel limite in perfetta serenità, con l’assoluta convinzione di quanto fosse giusta la causa del suo Paese, e il cuore sgombro d’odio per i suoi simili”.

Rupert Brooke fu, nonostante la giovanissima età, un critico letterario molto noto nei circoli frequentati dagli intellettuali del tempo: Donne, Marlowe e Webster vennero analizzati secondo i criteri di una nuova poetica e di una rinnovata fase letteraria per l’Inghilterra. Lo stesso Brooke, infatti, insieme a Edward Marsh pubblicò un volume riconosciuto come pietra miliare della letteratura anglosassone e ricordato per il titolo “Georgian Poetry”. Questi scrittori tentarono e interpretarono lo spirito di una mutazione che attraversava tutta la società anglosassone: l’idea era di affrancare la poesia inglese dai modelli vittoriani che non rispondevano più alla narrazione di un quotidiano profondamente diverso dal passato. Le visioni di Brooke in poesia sono un esempio di rara bellezza, vorticosa trasparenza di parole irripetibili in un contesto, come la guerra, che potrebbe apparire al contrario come uno spazio di brutalità dove nulla, oltre la morte, potrebbe essere generato. Eppure Brooke, bellissimo, giovane, con la sua estetica mitica dal fascino cristallino, venne sepolto sul costone di una collina su un’isola greca al cospetto del Mediterraneo, forse come aveva sognato, ricordando la fine degli eroi esaltati nei classici greci come nell’Iliade:

Oh! Noi che conoscemmo la vergogna, là abbiamo trovato quiete, / Dove non c’è male né dolore, e il sonno porta sollievo, / Dove nulla è annientato tranne questo corpo, nulla è perduto tranne il respiro; / Là nulla scuote la lunga pace e la gioia del cuore / Ma solo l’agonia, e anche quella ha fine. / E il peggior amico e nemico è solo Morte.

Come ben ci rappresenta Paola Tonussi nell’introduzione alle sue traduzioni e nelle interviste rilasciate su varie riviste letterarie (in particolare su “Pangea”, Ai confini dell’esistenza. Viaggio lirico e allucinato tra i poeti di guerra – 5 Dicembre 2022), le public schools inglesi formavano i propri studenti “all’autocontrollo e alla disciplina”, anche con lo sport, incoraggiando “una forma di patriottismo consono alle aspettative della loro classe sociale sulla missione dell’Impero”. Inoltre, i “War poets” si riconoscevano per una peculiare qualità distintiva: l’inclinazione quasi incontenibile, nonostante gli orrori e il tempo impiegato in battaglia, alla scrittura di versi, lettere, diari, romanzi. A differenza di Brooke, anche gli altri poeti provenienti dalla stessa classe sociale e dalla stessa visione di società e di mondo, andarono oltre lo spirito eroico denotato nei primi versi, innalzando i loro canti sull’altare di un sacrificio assurdo, disumano e di violenza ancestrale. Uno degli esempi più chiari della consapevolezza di questo orrore, la ritroviamo in Richard Aldington che affermava, in una delle sue splendide poesie, l’insensato divenire della guerra:

Inutile, / Quant’è inutile tutto questo clamore, / Questa distruzione contesa … / Notte dopo notte la luna sale / Superba, perfetta: / Notte dopo notte cantano le Pleiadi / E Orione ondula la cintura di traverso al cielo. / Notte dopo notte la gelata (II – In trincea, Richard Aldington).

Lo stesso Aldington era, prima di partire per il fronte, un poeta e intellettuale dandy, amico di Pound ed Eliot e frequentatore di Hilda Doolittle, la Musa-poetessa incontrastata del mitico Ezra. Dunque, costoro erano già insigni poeti prima di essere soldati al fronte, nel caso di Aldington, con la divisa del reggimento pioniere 11th Leicestershires. Non a caso Paola Tonussi chiarisce che la definizione di “War poets” è “più conveniente che precisa”, nel senso che cerca di mettere assieme poeti partiti per il fronte che non si caratterizzavano solo perché fossero in guerra, essendo nonostante la giovanissima età già famosi poeti. Una definizione che risulta utile per dire semplicemente che “erano lì”, a combattere per la loro patria e, la consacrazione ai “War poets”, “è comunque nei cuori di chi continua a leggerli, nella memoria di chi li ricorda, negli onori tributati nella grande cattedrale di Londra”.

Isaac Rosenberg (1890 -1918)

I poeti di guerra moriranno uno alla volta nelle trincee del fronte occidentale. Charles Hamilton Sorley cadde in azione il 13 ottobre 1915, a Loos, a vent’anni, mentre si lanciava all’attacco a capo della sua compagnia. Venne colpito alla testa da un soldato tedesco. Wilfred Owen fu ucciso a pochi giorni dall’armistizio, il 4 novembre del 1918, mentre con il suo battaglione attraversava il canale Oise-Sambre a Ors. Sepolto in quel villaggio, ai genitori venne recapitato lo zaino con le sue poesie pubblicate postume. Julian Grenfell insignito capitano per le sue gesta temerarie, morì il 26 maggio del 1915, colpito da una scheggia di mortaio mentre sorvegliava i nemici. Nonostante fosse stato soccorso e trasferito presso l’ospedale di Boulogne-sur-Mer, Grenfell non sopravvisse alle ferite. Julian è fra i sedici poeti della Prima guerra mondiale ricordato al Poet’s Corner nell’Abbazia di Westminster. Philip Edward Thomas fu sepolto in Francia, al Commonwealth War Graves Cementery ad Agny. Fu ucciso in battaglia ad Arrass, il 9 aprile del 1917, dopo esservi giunto da pochi giorni. Francis Ledwidge invece venne ucciso presso il villaggio di Boezinge, a nord di Ypres, mentre riparava insieme ad altri commilitoni la strada per Pilkem. Il “poeta dei merli”, così definito per la sua passione per gli uccelli, fu sepolto insieme ai suoi amici caduti al “Memoriale di guerra bretone”, Carrefour des Roses, per essere, infine, trasferito nel cimitero di Boezinge. Isaac Rosenberg venne colpito da un cecchino, probabilmente in località Fampoux, il primo di aprile del 1918, durante un pattugliamento notturno. Prima fu sepolto in una fossa comune, successivamente riesumato e condotto, nel 1926, nel Bailleul Road East Cemetery, vicino al Passo di Calais, in Francia. Anche Rosenberg è fra i sedici poeti della Prima guerra mondiale a essere commemorati nell’angolo dei poeti all’Abbazia di Westminster. Siegfried Sassoon fu uno dei pochi a sopravvivere al conflitto. Arruolatosi nel corpo dei fucilieri Royal Welch Fusiliers con il grado di ufficiale partì per la Francia. Conobbe al fronte Robert Graves che influenzò incisivamente la sua poetica. Sasson fu un impavido soldato e venne insignito dalla Croce al valor militare. Fu gravemente ferito in azione nel 1917 e, per questo evento, decise di scrivere una missiva al Dipartimento di guerra denunciando il conflitto bellico e rifiutandosi di combattere. Su istanza dell’amico pacifista e filosofo Bertrand Russell, il testo venne letto alla Camera dei Comuni. Lo stesso Graves difenderà il compagno, criticato pesantemente in patria, nel tentativo di evitargli un processo della Corte marziale, con le motivazioni che Sassoon venne gravemente ferito e fu successivamente vittima anche da shock da granata. Finalmente ricoverato presso il Craiglockhart War Hospital, venne tenuto in cura dallo psichiatra William Rivers. Fu proprio in quel periodo che incontrò Owen e ne diventò amico, influenzando la sua poesia e spronandolo a scrivere. La svolta tuttavia, dopo tante vicissitudini, fu drammatica quanto sorprendente: ambedue tornano al fronte. Owen trovò la morte e Sassoon fu ancora una volta ferito al capo da fuoco amico. Sassoon si distinse nelle sue raccolte di versi per l’ironia e la condanna di politici, religiosi e generali che, in qualche modo, furono ritenuti responsabili degli eccidi. Il pubblico lo condannò ripetutamente: infatti la figura di anti-eroe che incarnava, non fu gradita in un momento in cui lo spirito patriottico era di vitale necessità. Lo scrittore si dedicò alla scrittura di romanzi e all’attività di conferenziere negli Usa e in Europa. Scrisse testi autobiografici e nostalgiche memorie della vita di campagna anteguerra. Nel 1951 fu insignito dell’Ordine di comandante dell’Impero Britannico e, nel 1957, ricevette la Queen’s Medal for Poetry. Nel 1957 Sassoon si spense e i suoi taccuini vengono conservati a Cambridge.

Interessante e particolare è la funzione e il ruolo che i “War poets” hanno avuto nella mutazione della poesia moderna inglese. Un punto sul quale è ineludibile soffermarsi per capire quanta importanza storica e letteraria abbiano rappresentato. Il consolidamento del loro “canone” ha trasformato radicalmente la letteratura anglosassone. Una mutazione genetica del registro e del lessico che ha completamente stravolto lo stile: per questi poeti l’imagismo e il vorticismo poundiano sembrano aver rappresentato per i loro scritti, rara e ineffabile modernità, quest’ultima concepita come ipotesi concettuale che vivifica immagini e stili senza i gorgoglii barocchi e gli inutili aggettivi folgoranti. Era la lezione di Ezra Pound e del suo affascinante influsso su schiere di poeti e scrittori fino ai nostri giorni. Una svolta poetica che la si ritrova in tutti questi poeti e, in particolare a Harold Monro, Robert Graves e, addirittura, l’ultimo Rupert Brooke. Un processo che si concentrava sulle “istantanee” dal fronte e che non può non farci pensare a Giuseppe Ungaretti, Rebora e Jahier, come la stessa Paola Tonussi ci ricorda:

Con Jahier, Rosenberg condivide conoscenza e riferimenti alle storie bibliche, e sempre con l’orrore quasi surrealista descritto nei versi di Rosenberg ha a momenti assonanze inaspettate Rebora: sto pensando a poesie come Viatico e ancora di più a Voce di vedetta morta –  “C’è un corpo in poltiglia/ Con crespe di faccia, affiorante/ Sul lezzo dell’aria sbranata” –, dove ci sono evidenti similarità tematiche con La discarica dei morti di Rosenberg, un analogo uso crudo delle immagini, stridori di crudeltà a rievocare l’efferatezza della guerra.  Rebora vive poi la stessa esperienza di shock da granata di Owen: ma mentre Owen, che rimane intrappolato giorni in una trincea bombardata con i resti di un amico morto accanto, torna al fronte a morire, Rebora rientra alla vita civile con difficoltà, la mente sconvolta dalla guerra, l’ennesimo Septimus Warren Smith vittima di quanto ha attraversato.

E proprio sul soldato di professione Isaac Rosenberg, di fede ebraica mai più ritornato dal fronte, si concentra l’attenzione per una storia completamente diversa dalle altre. Nato a Bristol nel 1890, Rosenberg è fra i “War poets” unico per estrazione proletaria. Isaac non trovò mai nell’humus dell’Inghilterra aristocratica l’origine del suo fare poesia. Come sottolinea Paola Tonussi nella sua esaudiente introduzione ai testi, egli è semplicemente un “estraneo” fra i commilitoni in trincea, per “povertà, educazione e origini”. Egli si arruolò per riservare un futuro alla sua famiglia affermando consapevolmente che, alla sua possibile quanto insensata morte in trincea, ci sarebbe stata comunque un’indennità per la madre. Combattè al fronte occidentale e, nell’aprile del 1918, fu colpito da un cecchino in un pattugliamento notturno nella località di Fampoux, a nord-ovest di Arras. In un primo tempo trovò sepoltura in una fossa comune ma, nel 1926, fu riesumato e i suoi resti finalmente traslati nel Bailleul Road East Cemetery, Saint-Laurent-Blangy, al Passo di Calais in Francia. Isaac è tra i sedici poeti della Prima guerra mondiale commemorati nell’Angolo dei Poeti all’Abbazia di Westminster. Rosenberg si distinse come poeta con un background da pittore e artista figurativo: già a quattordici anni fu apprendista in uno studio di incisione nel tentativo di sbarcare il lunario nel dopo lavoro, frequentando la scuola d’arte Birkbeck College. Grazie alla beneficenza di signore ebree facoltose che compresero le qualità di Isaac, potè frequentare la prestigiosa Slade School of Fine Art, presso l’Università College di Londra. Fu l’occasione per incontrare prestigiosi artisti come Mark Gertler e David Bomberg, il poeta John Rodker e, grazie a Edward Marsh e Laurence Binyon, pubblicò la sua prima silloge poetica nel 1912: Notte e giorno. Oltre a esposizioni di quadri in importanti mostre e pubblicazioni di versi, il suo palcoscenico sarà, fino alla morte, la trincea. I suoi testi giungeranno a noi anche su pezzi di carta fortuiti. I dettagli delle sue scritture sono chiaramente pittorici, il dolore permeante si insinua nelle “tane” laddove la poesia si erge come ultimo bastione di salvezza in mezzo a tanto delirio e insensato odio fra uomini. La sua poesia metaforica si mimetizza in versi che spesso appaiono ambigui ma, in realtà, nascondono coscientemente interpretazioni ambivalenti. Il suo espressionismo trova spesso sublimazione in versi originali, come ne La discarica dei morti:

La terra li attende /Dal tempo della loro fanciullezza / Fremendo di desiderio per il loro declino: /Adesso finalmente sono suoi! / Nel pieno della loro forza/ Sospesi – fermati e trattenuti.

Intensità e pathos ci trascinano nella descrizione della tragedia senza eguali di quei corpi dilaniati e offesi, umiliati anche dalla consapevolezza di uccidere un proprio simile. La tragedia ben si manifesta con parole emblematiche e devastanti:

Carri sobbalzano e risalgono nei sentieri sconnessi /Frastornati con il loro rugginoso carico, /Sporgenti come corone di spine, / E i rugginosi pali come antichi scettri / A fermare l’ondata di uomini brutali / sui nostri cari fratelli. /Le ruote sussultarono sui morti scomposti / ma non fecero loro alcun male, sebbene le loro ossa scricchiolarono, /Le loro bocche non emisero gemiti. // E in una desolante consapevolezza della morte che prima o poi li raggiungerà: “E noi che, gettati sulla pira stridente /Camminiamo con i soliti intatti pensieri, /Le membra fortunate come nutrite d’icore, / Simili sempre a immortali? /Forse quando le fiamme crepiteranno per noi, / la paura ci si soffocherà nelle vene / E il sangue nel terrore si fermerà.

Liriche intense e sempre velate da immensa pietà per un destino inspiegabile e doloroso, sono gli scritti di Laurence Binyon, “poeta laureato” e funzionario del British Museum, con un ruolo decisivo nella fondazione del Modernismo a Londra. Egli aveva avviato i giovani imagisti come Pound, Aldington e Doolittle all’arte e alla letteratura orientali. Partito per il fronte, fuori età per combattere, ma volontario come inserviente in un ospedale britannico al fronte nell’Alta Marna, scriverà:

Adesso l’odore stantio di sangue si mescola al vivo / Odore puro di erba e rugiada. Adesso luci di lampade / Cadono su facce brune e si aprono occhi pazienti / E labbra dalle risposte gentili, ognuno disteso / supino nella barella, chi di barba incolta / chi di guance imberbi.

Così, Robert Graves con i suoi testi intrisi di bagliore modernista, alla stregua delle poesie di una primordiale “Spoon River”, sognante un ritorno che in cuor suo, sapeva bene, sarebbe presto arrivato:

Che vita vivere e dove andare / Dopo la guerra, Dopo la guerra? / L’abbiamo detto spesso. / Ma ancora vedo splendere il braciere / In quella notte d’aprile, ancora sento il fumo / e l’acredine soffocante del carbone che brucia. / Pensavo: “Un cottage sulla collina, / Nel Galles del Nord, un cottage pieno di libri,  / Quadri e ottoni e angolini confortevoli / E comodi profondi davanzali, / Fiori i  giardino , muri tutti bianchi.

Uno spazio assoluto e incastonato nel tempo imperituro meriterà Wilfred Owen. Sensibilità raffinata, romantico e abitatore di spazi sconosciuti ai più, questo poeta rappresenta forse l’elemento più profondo della poesia, denominata e conosciuta come quella dei “War poets”. Lancinante, senza possibilità di sfuggire al dolore che ci trafigge, alla pietà e alla consapevolezza della barbarie e dell’autodistruzione, prerogativa umana senza eguali, leggiamo versi di rara grandezza:

Io sono il nemico che hai ucciso, amico mio. /
Ti ho riconosciuto in questo buio: perché così mi guardavi accigliato /
ieri mentre mi attraversavi con il pugnale e mi uccidevi. /
Ti ho schivato, ma avevo mani riluttanti e fredde. /
Dormiamo, adesso …