di Piero Cipriano

L’orlo del bosco. La cura delle dipendenze tra catene e libertà (DeriveApprodi 2022) è la storia di un’impresa comunitaria radicale.

Iniziando a scrivere la prefazione, mi sono chiesto che c’è di affine tra Cecco Bellosi e me. Che c’è in comune tra un marxista rivoluzionario che ha trascorso diversi anni in carcere e un anarchico (ormai possiamo dirlo) pacifista tolstojano che ha trascorso molti anni dentro i succedanei dei manicomi. Di sicuro entrambi ci siamo ritrovati, rispecchiati, nelle parole di Franco Basaglia, in particolare queste: «Noi vogliamo essere psichiatri, ma vogliamo essere soprattutto persone impegnate, dei militanti. O meglio, vogliamo trasformare, cambiare il mondo attraverso la miseria dei nostri pazienti che sono parte della miseria del mondo. Quando diciamo no al manicomio diciamo no alla miseria del mondo». Ecco, diciamo che ci siamo fatti carico, in modi diversi, di una parte della miseria del mondo. Questo ci accomuna. Scorro i capitoli del libro una seconda volta dopo averlo letto una prima volta. Secondo capitolo. Non legare nessuno, mai. Terzo capitolo. Catene da spezzare. Cecco mi cita spesso. Dice Cipriano sostiene che se qualcuno con il camice bianco lo legasse a un letto di contenzione, si scolpirebbe in testa la sua faccia e, una volta tornato in libertà, lo andrebbe a cercare. Rileggendo questa cosa che ho scritto una decina di anni fa in “La fabbrica della cura mentale”, e che avevo dimenticato di aver scritto, ho ripensato all’odioso libro di Milone, questo psichiatra genovese ormai in pensione che ha pubblicato un libro miserabile sull’arte di legare le persone, pensavo a questo psichiatra, che rappresenta nel mondo della psichiatria forse l’archetipo opposto al mio, e ho iniziato a canticchiare la canzone di Franco Battiato: «E ti vengo a cercare, con la scusa di vederti o parlare…». E sì, se fossi stato legato al letto da uno come Milone sarei di sicuro andato a cercarlo.

È così: non sopporto chi lega le persone, anche se non sono mai stato legato. Cecco pure non sopporta chi lega, però lui l’ha provata sulla sua persona, la cosiddetta contenzione meccanica. Era il 1984, i detenuti politici erano soffocati dalle restrizioni delle carceri speciali, l’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario rendeva la loro prigionia ancora più dura. Il primo marzo del 1984 alcuni detenuti dei bracci di massima sicurezza di alcune carceri italiane iniziano uno sciopero della fame. In pochi giorni diventano un migliaio i prigionieri scioperanti. Dopo un mese, Cecco ha trenta chili di meno. Viene ricoverato al San Camillo di Roma, ammanettato al letto, con la minaccia di essere alimentato forzatamente. La contenzione, sia meccanica (come si dice quando sei immobilizzato al letto), sia ambientale (come si dice quando sei in un posto da cui non puoi uscire), la conosce. Dunque, lo sa di cosa si parla.

Quando esce dal carcere, evidentemente gli viene naturale occuparsi di tutti quei miserabili che finiscono in prigione o in manicomio. Michel Foucault, d’altra parte, insegna che prigione e manicomio sono quasi la stessa cosa, stessa matrice, che prima dell’invenzione del manicomio (in Francia) c’era il Gran Hospital General di Parigi che accoglieva tutti i devianti. Ecco, se andiamo a leggere l’editto francese del 1676, l’elenco dei devianti che bisognava ammassare nel gran contenitore indifferenziato della devianza, i non produttivi, quelli che per la nascente borghesia erano inutili (“Alcolizzati, libertini, donne facili di costumi, senza dimora, mentecatti, vagabondi, nullatenenti, disoccupati, sfaccendati, delinquenti, individui politicamente sospetti, eretici, ovviamente i pazzi, gli idioti, gli stravaganti, e le mogli odiate e le figlie disonorate e gli sperperatori dei patrimoni…”), troviamo la rassegna degli esseri umani di cui il Gabbiano si è preso cura e fatto carico, negli ultimi trent’anni.

Affinità e divergenze tra il compagno Cecco e me, mi viene da dire, a questo punto, parafrasando una canzone dei CCCP. Vorrei procedere, in questa prefazione, un po’ così, un po’ come lui ha scritto questo libro, in modo non metodico. Il nostro stile di scrittura, d’altra parte, è simile, entrambi adoperiamo la forma del saggio (molto) narrativo, con continui inserti diaristici, o di autofiction, come si dice.

Vari tipi di naufraghi approdano alle comunità del Gabbiano. Vari naufragi esistenziali trovano porto in queste isole del Gabbiano. Persone senza dimora, escluse, per lo più fuoriuscite dalle prigioni, che non trovano una casa o una famiglia ad attenderle. Sofferenti mentali e tossicomani, soprattutto eroinomani o alcolisti. Ma anche i cocainomani che, d’altra parte, nemmeno si considerano tossici, persone dall’io ipertrofico. E i malati di AIDS. E gli internati degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari oggi diventati REMS. Al Gabbiano nessuna delle figurine della devianza manca. Vuoi un rom c’è, un transgender c’è, un fascistello c’è, un domatore di leoni c’è, un comico fallito pure, sembra quasi il tendone del circo di Freaks Out, il film visionario di Gabriele Mainetti.

Perché – mi domando adesso – Cecco si dedica, tra i vari devianti, in particolare ai tossicomani? Lo dice, a un certo punto del libro, che le droghe lui non le ha mai frequentate, perché era persuaso che fossero «un’arma di distruzione di massa del movimento di rivolta che scuoteva il mondo», negli anni Settanta. Movimento di cui lui è stato parte molto attiva. L’idea che l’inondazione di eroina fosse stata programmata – scrive – «non era solo paranoia». L’introduzione nelle piazze dell’eroina, la grande distruttrice di cervelli e di corpi e di vite umane, è stata un’arma per distruggere il movimento. «Il grande anestetico contro una generazione insopportabilmente sovversiva», la sua. L’operazione, ripercorrendo rapidamente la storia delle droghe degli anni Settanta, è chiarissima. Si chiude il rubinetto per le molecole psichedeliche, considerate le droghe che bruciano il cervello (sono droghe che espandono la coscienza, se mai, tant’è che in questi anni, con quaranta di ritardo, sono ricominciate le ricerche e le terapie psichedeliche) e si apre il rubinetto per le droghe, l’eroina e la cocaina, esse sì dello spegnimento psichico e dell’euforia senza scopo. Anche la cannabis – scrive Cecco – vissuta come «non ostile al movimento», lui non la digeriva, e “faceva di ogni erba un fascio” e perciò caccia via i compagni dalla sede di Potere Operaio comasca solo perché “si facevano le canne”.

Invece ora al Gabbiano – che contrappasso! – gli ospiti lavorano la cannabis legale, quella contenente il solo cannabidiolo, senza Thc. Rilassante, non euforizzante. Alcuni mesi fa ero lì a supervisionare la variegata umanità che trova approdo in quelle comunità, il mandato, ricevuto dal Gabbiano, coerentemente con la nostra guerra al manicomio chimico, era di alleggerire il carico di psicofarmaci a ognuno di loro. Sentivo un odore di cannabis salire dal piano di sotto. Mi portano giù a vedere. Il laboratorio dove gli ospiti lavorano le infiorescenze delle piante. Evidentemente Cecco non fa più di ogni erba un fascio.
Sono contento.

Ma torniamo ai naufraghi del Gabbiano. Perché Cecco ha questo rispetto, questa gentilezza verso i matti e i carcerati? Mentre scrivo è l’11 marzo 2022. Basaglia fa 98 anni. Scrivo “fa”, non “avrebbe fatto”, perché in realtà è morto ma è ancora molto vivo, sono 98 anni, i suoi, portati benissimo, le sue idee, la sua prassi da cui nascono le sue idee (non il contrario), non sono invecchiate per niente, anzi. Riflettendoci, rispetto ai due poli concentrazionari foucaultiani carcere-manicomio, sembra che Cecco Bellosi abbia compiuto un percorso inverso rispetto a quello di Franco Basaglia. Basaglia a vent’anni, nel 1944, si fa alcuni mesi di carcere per attività partigiana, lì conosce l’odore di urina e merda dei buglioli, lo stesso odore lo incontra qualche anno dopo, il 16 novembre 1961, quando entra, a trentasette anni, per la prima volta in un manicomio, quello di Gorizia, come direttore. Lo stesso odore. Seguiamo l’odore. Follow the smell. Nello stesso anno, stesso giorno probabilmente (dobbiamo forzare le sincronicità immaginifiche, se no che gusto c’è) Cecco va a trovare suo zio internato al San Martino di Como. Ha tredici anni, mettiamo, e sente la stessa puzza di urina e merda che, quattrocento chilometri a est, al confine con la Jugoslavia, nello stesso momento, assale l’olfatto dello psichiatra bombarolo. Che in nemmeno venti anni avrebbe deflagrato i manicomi. Basaglia prova prima il carcere e dopo il manicomio, sente prima la puzza di urina e merda che proviene dal carcere e si rende conto che è la stessa del manicomio, Cecco Bellosi la prova prima in manicomio e dopo in carcere.

Basaglia fa fuori il manicomio quello classico, foucaultiano concentrazionario, per capirci, ma i manicomi, che sono proteiformi, si ricreano in migliaia di caravanserragli più piccoli e in altre entità, talmente piccole che se non sei uno psichiatra critico nemmeno le riconosci: gli psicofarmaci. Gli psicofarmaci, quando assunti copiosamente e per sempre, sono una trappola chimica, quintessenza del manicomio. E Cecco, quel manicomio, chimico, appunto, se l’è ritrovato nelle comunità del Gabbiano: i fuoriusciti dal carcere ormai sono tutti sotto psicofarmaci, il carcere è un micidiale luogo di innesco di dipendenze psicofarmacologiche. Gli OPG/REMS, uguale. Il Gabbiano è, dunque, anche il luogo dove provare a rompere, tra gli altri manicomi, quello più subdolo: il manicomio chimico.

Ci sarebbe anche la parcellizzazione infinita della sofferenza mentale nosografata dall’ossessivissimo DSM-5 di provenienza statunitense (redatto ogni tot anni dall’American Psychiatric Association). Di questo manicomio, pure, racconta Cecco che, in barba alle centinaia di diagnosi del manuale ossessivissimo americano, preferisce dividere il consorzio dei suoi naufraghi in base al – direbbe Eugène Minkowski – gefül, al sentimento: «Ci sono quelli che senti e quelli che non riesci a sentire», «con i primi puoi sempre dialogare, anche nel delirio; con gli altri, quelli in cui non riesci a penetrare la nebbia, è maledettamente difficile».

Ma torniamo ai tossici. Nel senso di eroinomani o cocainomani pesanti, quelli che fumano il crack per capirci. Costoro fanno uno strano percorso di autoesclusione dal consorzio umano, civile. Escono dal mondo comune e come fanno, per altre strade (senza sostanze esogene, intendo), gli schizofrenici, si infilano in un mondo proprio. Dal koinos kosmos all’idios kosmos. Senza ritorno. A Rogoredo c’è un bosco. Il bosco-selva di questi sciamani falliti e senza speranza, i tossici. Ora: i servizi sia di salute mentale che per tossicodipendenti, sia pubblici che privati, possono essere di due tipi: quelli che aspettano al varco e quelli che vanno incontro.

Per esempio: in moltissimi luoghi, a sud Italia, nel centro, nel nord, isole, i Centri di Salute Mentale, o i SerD, aspettano. Non fanno domiciliari quasi mai. Non hanno le risorse, le energie, la voglia. Aspettano. In pochi luoghi, Trieste in testa, il servizio, nella persona dell’operatore di salute mentale, sia esso psichiatra psicologo infermiere riabilitatore educatore eccetera, va verso il naufrago. Non aspetta, al porto, che il naufrago arrivi, alla deriva, vivo o morto. Ma va in mare aperto, a cercarlo.

Quelli del Gabbiano, a un certo punto, sono entrati nel bosco di Rogoredo. Hanno perfino organizzato alcuni eventi del festival letterario Book Pride nel bosco della droga. Controintuitivo, no? Altro che erigere un muro, come proponeva il presidente del Municipio. Meglio un ponte. Hanno cominciato, gli operatori del Gabbiano, insieme ad altri, a entrare nel bosco della droga a portare, tre volte a settimane, il cibo al popolo del bosco della droga. Esserci. Presenza. Siamo qui. Nel 2019 duecento persone hanno chiesto di uscire dal bosco. Alcuni sono rientrati nel bosco altri mai più. Alcuni sono passati dal bosco alla comunità. Se Maometto (il tossico del bosco) non va alla Montagna (il servizio) è la Montagna (il Gabbiano in questo caso) che va nel bosco.

È così va a finire che Cecco, il marxista Cecco, si guadagna perfino l’appellativo di Don Cecco. Non poteva – pensavano – che essere un prete, uno così. Un prete singolare, come Don Gallo, certo.
Divertente.

Una ricerca suddivide le comunità terapeutiche in tre categorie. La prima è quella che si basa sul padre carismatico. Il modello di questo tipo è San Patrignano. Muccioli è il guru. Ripenso alla docufiction di Netflix “SanPa”, su San Patrignano. Faccio una digressione, a questo punto, perché l’impressione è che davvero le comunità del Gabbiano siano collocate, in tutti i sensi, al polo opposto del modello San Patrignano. Anche Muccioli e Bellosi sono opposti archetipi. Muccioli è uno che sembra, all’inizio, senza arte né parte, scarso a scuola, si interessa di parapsicologia, si inventa le stimmate. Sente di avere una capacità medianica, l’imponenza, lo sguardo. Prima, su quel colle vicino a Rimini, ingabbia cani e galline. Dopo, passa agli umani. Gli ultimi degli umani. Quelli più prossimi ai cani e alle galline. Quelli che sono già con un piede fuori dal consorzio umano. I maniaci dell’eroina. Comincia in sordina. Va a istinto. Sa che c’è la dipendenza dalla roba e sa che c’è l’astinenza dalla roba che lui, allo stesso modo dei tossici, chiama rota. Sa che i Sert sanno sostituire una dipendenza da oppiaceo per buco (eroina) con una dipendenza da oppiaceo per bocca (metadone), di modo che il danno si riduce ma sempre tossico l’eroinomane rimane. E lui non è per le mezze misure, non è per la riduzione del danno, come si dirà. Lui è per la maniera dura e repentina. Piuttosto che uno scalaggio graduale, che talvolta non vede mai fine, preferisce pochi giorni di astinenza selvaggia. Dopodiché il tossico è fuori. Non si avvale di terapeuti, di cui non si fida e non ha bisogno. Non dico un medico o uno psicologo, ma neppure un infermiere. Un medium, o un guru (cioè lui) è più di un medico, si capisce. La piccionaia è la sua clinica. Uno sgabuzzino dove, legato come un cane, appollaiato come una gallina, il tossico patisce la sua morte e dopo la sua rinascita. Lui non lo sa oppure lo sa, non so se i suoi studi esoterici occultistici parapsicologici lo hanno edotto oppure improvvisa per istinto, ma quella esperienza a cui sottopone il tossico è una specie di iniziazione sciamanica. Lo sciamano se ne va nella grotta o nella selva o nell’igloo, al freddo al buio senza cibo, lì sconfina nei territori della morte, e dopo ritorna, e quando torna è un uomo nuovo, rinato, coi poteri, perfino. Questa è la tecnica di divezzamento che adopera Vincenzo Muccioli. Il quale – scrive Cecco – «è stato il primo a identificarsi nell’antidoto alla dipendenza da eroina, trasferendola su di sé». La sua utopia diventa una sorta di istituzione totale. Questa utopia, forse, poteva avere un senso, seppure nel solco del paternalismo e dell’autoritarismo e del culto del patriarca, finché era piccola, una comunità di vita, perché cento persone le puoi, tu che sei il gran capo, conoscere una per una, ma quando diventano migliaia devi delegare ai fedeli. Che diventano kapo. E la comunità diventa gulag. Molte comunità assumono a modello San Patrignano e Muccioli. Un secondo modello, invece, è quello della comunità-clinica, dove il potere non è del padre ma del tecnico, sia esso medico o psicoterapeuta. Terzo modello, infine, è la comunità come servizio tra servizi. Ovvero: siccome ogni servizio si occupa del suo specifico (i Centri di Salute Mentale dei disturbi psichici, i SerD delle dipendenze, i servizi sociali di fare i documenti eccetera) serve una comunità che sappia mettere in relazione questi servizi che sovente confliggono. Comunità che fanno un po’ di tutto: accoglienza, terapia, reinserimento.

E il Gabbiano cos’è, che tipo di comunità è? Nessuna di queste – scrive Cecco – perché è “una comunità nella comunità”.

L’esempio più estremo? Più radicale? La comunità a bassa soglia di Tirano. Che vuol dire bassa soglia? Vuol dire il massimo dell’accessibilità. «Una sperimentazione al limite». Svuotare le piazze e «accogliere tutti quelli che bussano alla porta». «Quelli che nessuno vuole». Una roba – davvero – da matti. Se penso ad alcuni Centri di Salute Mentale, anche a Roma, dove lavoro, che a una persona di origine africana, affetta da una psicosi cronica, che chiede una prima visita a gennaio, viene dato appuntamento a maggio. Questa è una soglia altissima, impossibile da superare. Quella persona non arriverà mai a ricevere quella prima visita. Troverà prima una crisi, un pronto soccorso, un ricovero in SPDC. Da dove vengono, dunque, «quelli che nessuno vuole», come arrivano alla comunità a bassa soglia di Tirano? Dal carcere, metà. Un terzo, dalla strada. Chi sono gli enti invianti? Vicini di casa, associazioni di quartiere, perfino un farmacista di Ponte Lambro che di fronte a un tossico che tenta di rapinarlo lo convince ad andare in comunità. Scrive Cecco: «Con la bassa soglia abbiamo asciugato la piazza di Como». Aggiunge: «Per poterli ospitare tutti siamo andati sopra la cifra consentita, ovviamente ospitando gratis gli overbooking». Ricevendo per questo anche la visita dei NAS, che hanno terminato l’ispezione con un giudizio del tutto positivo.

Metà degli ospiti della bassa soglia provengono dal carcere, dicevamo. Il trattamento penitenziario è classista. I senza casa, gli stranieri, i sofferenti psichici, a fine pena, se fuori non hanno niente, rientrano in galera. Le leggi Bossi-Fini (perfetta per imprigionare immigrati) e Fini-Giovanardi (perfetta per imprigionare chi fa uso personale di qualche droga) sono leggi carcerogene che hanno moltiplicato la popolazione delle carceri. Nel 1990 trentamila persone in carcere (e cinquemila in pena alternativa), nel 2019 sessantamila in carcere (e ottantamila in pena sostitutiva).

È chiaro che la comunità radicale di Cecco Bellosi ci ricorda l’utopia della città che cura di cui scrive Franco Rotelli, quella città/comunità accogliente capace di fare a meno delle tecniche e degli specialismi e degli psicanalismi e degli psicofarmaci, perché sa attingere a quella capacità di koinos kosmos che c’è tra gli uomini. I basagliani di Trieste la realizzarono – scrive Peppe Dell’Acqua – istituendo quel luogo chiamato Centro di Salute Mentale (che sostituisce il Centro di Igiene Mentale, che cosa orribile, l’igiene mentale), luogo che deve stare aperto sempre. Calato dentro la città e non fuori. Nel territorio cosiddetto. Un luogo che non sia un non-luogo e che sia sempre pronto, e sempre aperto. Franco Basaglia e gli eredi della sua impresa sono stati operatori di salute mentale radicali, capaci di mettere in discussione non solo il “sistema manicomio” ma, a partire da questo, “il sistema società”. Capaci di spostare il progetto di cura dai luoghi separati, dai dispositivi della tecnica, al mondo al territorio alla città. «Violentare la società» (frase di Basaglia) fu necessario all’inizio, per convincere la città a riprendersi l’escluso, per includerlo, operazione non di vomito/evacuazione (per dirla con Levi-Strauss) ma di fagocitosi/incorporazione. “Restituire cittadinanza al cittadino escluso”, al tempo stesso restituire l’escluso alla città.

E non ha fatto questo Cecco Bellosi? Il terapeuta Cecco Bellosi, sì, terapeuta – Basaglia, a chi gli chiedeva, durante le sue conferenze in Brasile, «Che cos’è terapia?», rispondeva: «E’ lotta contro la miseria» – perché combattere la miseria è la forma più radicale di terapia, e Cecco Bellosi è un terapeuta radicale perché si è occupato di miseria e di miserabili, a cui ha dato casa lavoro relazioni, e l’ha fatto fuori dalla psichiatria ma a stretto contatto anche con la psichiatria, un’operazione di comunità radicale, quella di tenere aperta la porta. Ed ecco perché Cecco Bellosi il carbonaro (direbbe De André) da qualcuno viene perfino creduto un prete, perché le comunità radicali del Gabbiano sembrano aver adottato la prassi dei primi cristiani di cui dice Ivan Illich: «Era d’abitudine, in una casa cristiana, avere un materasso in più, un pezzo di candela e un po’ di pane secco in caso il Signore Gesù avesse bussato alla porta, vale a dire qualcuno senza il tetto sopra la testa fosse arrivato».