di Emilio Quadrelli

L’asimmetria della guerra

Abbiamo detto, all’inizio del testo, che quanto accaduto in Val Susa non è altro che il rimpatrio di un modello ampiamente sperimentato in una serie di territori, ai quali è stata sottratta la dignità della dimensione statuale, e posti sotto sicurezza attraverso una serie di operazioni di polizia. Ma tutto ciò cosa ci racconta? Cosa significa la compenetrazione di militare e poliziesco? Perché affidare al militare compiti polizieschi e alla polizia ruoli propri dell’esercito? Evidentemente nella messa in forma della guerra deve essere accaduto qualcosa. Ma se qualcosa è accaduto nella messa in forma della guerra significa che dentro il “politico” qualcosa di non secondario si è modificato. Significa che la relazione simmetrica che faceva da sfondo all’agire della politica ha conosciuto una sostanziale modifica. In altre parole si è passati da un modello simmetrico a uno asimmetrico. Ma tutto ciò rappresenta una novità assoluta oppure, a conti fatti, non si tratta d’altro che di una nuova attualizzazione di un modello, quello coloniale, che ha a lungo accompagnato la nostra storia? La relazione politica asimmetrica e il conseguente modello che si porta appresso non è esattamente la rimessa in circolo di quanto ampiamente sperimentato nei confronti delle colonie? Questo, a conti fatti, sembra essere il cuore della questione. Per molti versi, infatti, sembra di essere precipitati, subito dopo la fine della “Guerra fredda”, all’interno di uno scenario internazionale che ha forzatamente accantonato uno degli aspetti centrali della storia novecentesca: la decolonizzazione. Ora, indipendentemente da qualunque giudizio si possa dare sulla decolonizzazione, una cosa appare comunemente accertabile: la decolonizzazione ha fatto sì che, i popoli senza storia, entrassero prepotentemente nello scenario politico internazionale.

A partire dalla Prima guerra mondiale, attraverso un processo che si prolunga sino agli anni Settanta del secolo scorso, le popolazioni non occidentali si conquistano, armi in pugno, il diritto a esistere in quanto entità politiche. Il “Movimento dei Paesi non allineati”, con ogni probabilità, ne ha rappresentato la sintesi politica per eccellenza. Si tratta di un moto storico senza precedenti poiché rompe drasticamente tutti gli equilibri politici e culturali che, pur in condizioni storiche profondamente diverse e modificate, parevano darsi come storicamente immodificabili. Più che significativa la regolarizzazione politica a cui, proprio in tale contesto, perviene la figura del partigiano. Si tratta di un passaggio importante e che, per molti versi, mostra tutta la forza politica che l’Ottobre è stato in grado, prima di porre in campo, quindi di scatenare. È con l’Ottobre infatti che i “popoli senza” storia acquistano dignità di linguaggio e, con questa, accedono a pieno titolo al mondo della politica. Ciò che con la Grande rivoluzione era stato posto come semplice principio astratto nell’Ottobre trova la sua piena concretezza. Le conseguenze pratiche della legittimità delle guerre anticoloniali comportano ricadute non secondarie sulla concettualizzazione della guerra e la sua conduzione. Le guerre anticoloniali sono, in prevalenza, guerre di tipo partigiano. Anche quando, come nel caso del conflitto vietnamita, è presente un esercito regolare la lotta nei territori occupati dal fronte imperialista è condotta da forze partigiane politicamente organizzate nel fronte di liberazione nazionale. Il fatto che, queste forze, abbiano ottenuto, non solo di fatto ma formalmente, un riconoscimento politico non è qualcosa di poco rilevante. Basti pensare a come nel corso della Seconda guerra mondiale, dove pur la guerra partigiana assunse ruoli e dimensioni considerevoli, non si pervenne mai a un suo riconoscimento giuridico formale e il partigiano continuò a essere ascritto all’ambito del fuorilegge.

La decolonizzazione interrompe quell’ordine del discorso fondato sulla “civiltà bianca ed europea” che aveva consentito di considerare gran parte dell’umanità come qualcosa di antropologicamente diverso e inferiore. Un dato “obiettivo” che nessuna frattura storica interna al mondo europeo era stata in grado di porre radicalmente in discussione. Su ciò la stessa Grande rivoluzione si era vista costretta a fare marcia indietro. Neppure l’ala più estrema e progressista della borghesia era riuscita a estendere l’uguaglianza oltre la “linea del colore”. Questa linea si mostrava invalicabile e l’universalismo dei diritti rimaneva pur sempre confinato tra quei popoli e quelle nazioni che potevano vantare “storia, linguaggio e cultura” mentre, tutti gli altri, rimanevano ascritti, senza soluzione di continuità, all’ambito dell’indistinto. A fronte di popoli e nazioni certe si stagliavano le miriadi di etnie senza nome e senza volto. I diritti dell’Uomo erano sì universali ma non tutti gli esseri umani erano, in quanto tali, immediatamente Uomo e quindi portatori di diritti universali. Un’aporia che, in realtà, la Grande rivoluzione eredita dall’Umanesimo il quale, fin dalla sua nascita, coltiva tale ambiguità come le guerre di conquista extra europee, pre – moderne, sono lì a ricordare.

In poche parole l’eguaglianza è cosa che va riconosciuta ed elargita con parsimonia. La borghesia rivoluzionaria non è in grado di spingersi oltre tanto che, quando le suggestioni dell’89 approderanno tra i popoli di colore, per i giacobini neri non vi sarà altra soluzione che la forca. A imporsi è un ordine discorsivo il quale finisce con il diventare banale retorica di senso comune all’interno di tutti gli ambiti sociali. La differenza obiettiva e “naturalista” esistente tra noi e loro si sedimenta in profondità tanto da diventare “ciò che tutti sanno”. Un razzismo che, a differenza di quanto accade tra i teorici della razza tout court, non ha bisogno di essere teorizzato e continuamente rafforzato. La vera forza di questo ordine discorsivo sta, piuttosto, nella sua debolezza. È questo razzismo debole, e proprio per questo difficilmente estirpabile, ad attraversare per intero le formazioni economiche e sociali prima europee, poi occidentali. Di ciò, anche se è storia di oggi, ne si avrà una facile conferma quando, con l’irrompere prepotente dei nuovi flussi migratori, le retoriche xenofobe e razziste non troveranno troppi ostacoli a conquistarsi un certo protagonismo politico nelle nostre società così come, in maniera del tutto speculare e complementare, gran parte di questo razzismo, nuovo e arcaico al contempo, troverà la sua migliore sistematizzazione nelle retoriche multiculturaliste.
Ma non anticipiamo e riprendiamo il filo del nostro discorso.

Abbiamo detto dei limiti che la stessa Grande rivoluzione si porta appresso. Su questa scia l’aveva seguita, almeno tacitamente, lo stesso movimento operaio organizzato nella Seconda internazionale. Sino a Lenin e ai bolscevichi, sino alla costruzione dell’Internazionale comunista, i popoli di colore, rimangono popoli senza storia e senza linguaggio. Un retaggio che, in Occidente, continuerà a essere a lungo il non detto di parte del movimento operaio. Di fronte alle lotte di liberazione dei Paesi sottoposti al giogo coloniale le titubanze degli stessi partiti comunisti occidentali non saranno proprio impasse da nulla basti pensare al comportamento del PCF nei confronti della guerra di liberazione algerina o alle dichiarazioni del PCI, attraverso il suo leader Palmiro Togliatti, rispetto alla legittimità dei possedimenti coloniali italiani per non parlare dei Partiti socialisti i quali, in non pochi casi, hanno condotto in prima persona la guerra contro i moti emancipatori dei popoli coloniali. In poche parole, la guerra fuori dai confini del “mondo civile”, è sempre stata qualcosa la cui messa in forma rimandava a uno scenario non commensurabile a quello abitualmente vigente tra entità politiche che si riconoscevano appartenenti al medesimo campo. Anche in guerra, come su tutti gli altri piani della vita, il principio di eguaglianza valeva solo all’interno di un ambito ristretto di popoli e nazioni.

La rottura epocale dell’Ottobre consiste proprio nell’aver universalizzato non tanto i Diritti dell’Uomo ma la dimensione politica dei popoli. Con l’Ottobre la “civiltà bianca” è costretta a riconoscere che tutti gli abitanti del globo hanno il diritto di organizzarsi politicamente e, pertanto, di essere posti su un piano di pari grado e dignità. Alla fine, pur se a denti stretti, USA e Francia (tanto per citare casi ampiamente noti) devono trattare con il FLN del Vietnam e con il FLN algerino considerandoli entità politiche a tutti gli effetti. Non per caso l’ONU è stato un terreno di battaglia, simbolico ma non secondario, di questo esercizio di diritto. Il riconoscimento legittimo presso l’ONU ratificava esattamente la dimensione politico – statuale alla quale una popolazione era pervenuta. Una parentesi, alla scala della storia, che si è protratta, all’incirca, per una sessantina d’anni e che da più di trenta anni è stata nuovamente posta al bando e che, non per caso, ha, di fatto, delegittimato l’ONU stesso diventato sempre più, da istituzione internazionale deputata a equilibrare i conflitti internazionali, a strumento delle politiche imperialiste. Basti pensare a come l’ONU ascrivi ormai abitualmente le lotte partigiane delle popolazioni sotto occupazioni, nell’ambito del terrorismo. Un modo neppure troppo raffinato per ascrivere all’ambito della criminalità ogni forma di resistenza e sottrarla così alla dimensione propria del “politico” e ricondurla nella più malleabile categoria del nemico privato. Con ciò il senso delle operazioni di polizia internazionale comincia a farsi più chiaro. A essersi ormai decisamente incrinato è tutto il quadro politico affermatosi con la fine della Seconda guerra mondiale.

Dal 1989 in poi, nei confronti delle popolazioni non appartenenti al Primo mondo, a riemergere è esattamente una linea di condotta che rimanda appieno alla situazione vigente prima dell’Ottobre. Tutto ciò è stato messo in atto attraverso una serie di operazioni anche culturali delle quali è opportuno occuparsi. Uno degli effetti immediati del post ’89 è stata la messa in mora di tale universalizzazione mentre, di pari passo, prendevano forma tutte quell’insieme di retoriche incentrate sul culturalismo così come, al posto delle entità statuali e nazionali, a emergere erano le singolarità etniche e l’insieme di conflittualità che, inevitabilmente, queste si portano appresso.

Subito dopo l’89 il mondo è stato oggetto di un nuovo bipolarismo solo che, questa volta, la divisione non nasceva sulla adesione alla forza militare della NATO o a quella del Patto di Varsavia ma su basi del tutto diverse. Da una parte, la sfera Occidentale e i cosiddetti Paesi emergenti, raggruppavano Stati politicamente organizzati mentre, il resto del mondo, sommava in maniera abbastanza confusa e caotica etnie e culture le quali non potevano far altro che essere nuovamente oggetto di un “processo di civilizzazione”. Le differenze non sono secondarie. Mentre nel primo caso, per forza di cose, a emergere non poteva essere altro che un conflitto tra eguali nel secondo, a emergere, era un non luogo privo di qualunque ordinamento politico a fronte di realtà statuali politicamente certe e organizzate. La distanza tra i due mondi diventava pertanto incommensurabile. Una nuova epopea coloniale si faceva non solo possibile ma necessaria. A emergere, in tale contesto, diventa l’esistenza di un nuovo forte noi contrapposto a un altrettanto forte loro. Di tale formazione è opportuno trarne la genealogia.

Questo noi ha preso forma all’interno di due contenitori più che diversi complementari. Da un lato il razzismo tout court delle formazioni di destra. Un razzismo un po’ sempre uguale a se stesso sul quale vi è ben poco da dire. In questo caso, il noi, ha funzionato come collante identitario attraverso il quale si ribadisce la “naturalità” della supremazia dell’occidentale nei confronti del resto del mondo. In questo caso, infatti, la “linea del colore” attraversa anche tutte quelle popolazioni che, pur bianche, risultano estranee alle retoriche politiche e culturali del mondo occidentale. Si tratta di un noi che, per molti versi, rimanda a una enfatizzazione e declinazione nazionalista dello Stato/Nazione e dei suoi perimetri e che, in non pochi casi, entra in rotta di collisione con le trasformazioni “post/nazionali” proprie dell’attuale fase imperialista globale. Comunemente questo modello politico/concettuale è ascrivibile al mondo dei populismi i quali si oppongono, o almeno su questo trovano la linfa del loro successo, alla costruzione di un blocco politico su base Continentale governato dalle frazioni transnazionali della borghesia imperialista finanziaria. Il costante richiamo a quell’entità mai chiaramente definibile come “popolo” ne rappresenta, insieme all’inconsistenza e indeterminatezza, tanto l’ambiguità quanto la sua capacità di catturare consensi non secondari tra quote di classe operaia impoverita o piccola borghesia proletarizzata. Questo ordine discorsivo, pur quantitativamente non irrilevante, non è stato però l’ordine discorsivo dominante delle nostre società. Accanto a questo razzismo becero e bifolco ha fatto prepotentemente capolino un altro tipo di discorso, quello che per comodità possiamo definire l’ordine del discorso multiculturale, che ha organizzato e declinato le retoriche razziste su basi completamente diverse.

Andando al sodo l’ordine discorsivo multiculturale aveva un unico e sostanziale progetto strategico: deprivare della dimensione del “politico” tutte quelle popolazioni esterne ed estranee non solo al mondo occidentale, questo è qualcosa che hanno sempre fatto tutte le variabili del discorso colonialista, ma alla “concreta” forma politica assunta dall’Occidente. Questo il vero punto della questione. In apparente contrapposizione alle retoriche della destra il discorso multiculturale spostava le differenze tra noi e loro dal piano della “naturalità” a quello delle culture. L’ordine discorsivo proprio del multiculturalismo spostava la differenza dal colore della pelle, della razza o dell’etnia sul piano delle gerarchie culturali. A fronte di un Cultura, con la c maiuscola e dal portato immediatamente globale, propria delle classi dominanti internazionali si stagliavano le infinite piccole culture particolari e locali proprie di quelle popolazioni non coscientemente globalizzate.

Una gerarchia obiettivamente immodificabile il cui riconoscimento doveva dar vita a un modello sociale all’interno del quale, le piccole culture (sotto l’attenta vigilanza della Cultura), trovavano un proprio spazio sia di legittimazione che di libertà. Mente la destra, un po’ goffamente, chiedeva insistentaltroemente l’omologazione e l’omogeneizzazione culturale, reiterando le retoriche proprie dell’assimilazione, la società “civile e democratica” optava per un modello che, a conti fatti, riportava in auge le retoriche proprie della “riserva indiana”. Non diversamente dalla destra non poneva in discussione il valore indiscusso dello “stile di vita” occidentale ma, mentre ribadiva con forza ciò, riconosceva ai popoli non occidentali o non occidentalizzati il diritto a conservare, negli appositi spazi a questi assegnati, i propri “riti” e le coeve “usanze”. In questo modo, oltre a rendere visibile, soddisfacendo in tal modo quella sete di orientalismo proprio delle società coloniali, l’ agli occhi curiosi e morbosi delle popolazioni locali, confinava le popolazioni non occidentali all’interno di codici culturali dai quali non avrebbero più potuto emanciparsi. Nel riconoscimento della cultura altra si realizzava un sostanziale processo di imprigionamento politico e sociale. Una prassi, a dire il vero, neppure troppo nuova poiché, qualcosa di simile, le nostre società lo avevano già ampiamente sperimentato, pochi anni addietro, nei confronti delle proprie classi subalterne. Un passaggio intorno al quale vale la pena di soffermarsi.

(fine terza parte – continua)