di Neil Novello

Ernst Jünger, La pace. Una parola ai giovani d’Europa e ai giovani del mondo, Mimesis, 2022, pp.95, euro 10,00

Quando Ernst Jünger scrive La pace. Una parola ai giovani d’Europa e ai giovani del mondo, la guerra, la Seconda guerra mondiale, non è ancora terminata né all’orizzonte storico europeo è sorta una luce di tregua. È il 1941 l’anno in cui lo scrittore tedesco abbozza la prima versione del testo. Tuttavia solo qualche anno più tardi, nel 1944, quando a Berlino si attenta alla vita di Hitler e Jünger è a Parigi come ufficiale delle forze di occupazione, il testo, nel frattempo adottato e letto proprio dagli attentatori del Führer, inizia ad adempiere la sua funzione pubblica. Ma il 1944 è anche l’anno in cui Ernst Jünger junior, diciottenne, muore a Carrara in combattimento. La pace allora è anche il grido di un uomo, un grido politico contro la Germania nazista e un paterno grido di dolore. È in più il manifesto di un altro lutto epocale che lo scrittore di Heidelberg elabora ormai da decenni, almeno da Nelle tempeste d’acciaio, opera testimoniale sulla Prima guerra mondiale da cui decorre il lungo cammino di maturazione di un pensiero per così dire pacifista.

Già nelle prime pagine del libro, Jünger parla di una «formula sacra», una cognizione, una visione. La guerra è veramente guerra, nel suo breve o lungo sviluppo storico, se determina una coscienza di pace, altrimenti essa è stata una guerra tra altre guerre. Per quanto appaia un’assurdità, nella guerra c’è dunque una ratio ovvero il «freddo pensiero» del conflitto come necessità storica. Così si conquista la pace. Essa non viene mai sola, viene cioè come dolorosa intelligenza della pace (nel travaglio della guerra). Si spiega così la suddivisione dell’opera jungeriana in due ante, la prima è La semina del male, la seconda Il frutto del bene. Non si può donare un frutto di pace senza una semina di guerra ovvero non c’è uno stato di pace, c’è soltanto una dialettica guerra-pace, una guerra che si trasforma, per il solo fatto di essere stata una una realtà, in una (necessaria, desiderata, storica) pace. Parlare allora di «segreto amore che si instaura tra vincitore e vinto» significa cogliere nell’immanenza della guerra la latenza della pace, o meglio il «grano» macinato della guerra come premessa al buon «pane» della pace. Ecco quindi la coscienza della pace fiorire dal seme bellico, nascere nelle anime di uomini e donne di una parte e uomini e donne di un’altra.

C’è qualcosa di «più nobile dei confini della patria». Ciò non riguarda l’idea di stato-nazione né di paese. Il grande scarto del pensiero jungeriano si coglie, si dovrà cogliere nell’idea di un «nuovo senso della terra», non più chiuso a una cognizione di terra conquistata ma da individuare nel valore della stessa come habitat dell’umanità intera.

Nel petto del libro di Jünger pulsa un cuore nero: la Germania nazista. E con essa, la vittima ebraica, perseguitata, terrorizzata, assassinata per il «delitto di esistere, lo stigma della nascita». Eppure il discorso di Jünger, in filigrana appare anche come un colossale pretesto, pure dentro un regime di ragionevole e innegabile verità, di idee più alte e profonde, di pensieri più umani. In altre parole, se le idee paiono consapevoli dell’umanità assassina e dell’umanità vittima, al contempo individuano anche l’esistenza di un problema riguardante non questo o quel paese ma un’idea di responsabilità che investe il «genere umano» e la sua «colpa».

La Seconda guerra è mondiale perché riguarda l’umanità e perché non si dà un «nuovo senso della terra» se la cosiddetta «colpa» non è riconosciuta all’umanità di tutta la terra. Affinché tale riconoscimento abbia una sua realtà effettuale, è necessario camminare fino in fondo alla guerra, esaurirla in tutto il suo potenziale di violenza e dolore. Il paradosso jungeriano è solo apparente: non c’è dapprima la guerra e poi la pace. C’è insieme tutta la guerra, anzi la guerra dovrà consumarsi per sua stessa estenuazione prima di pensare alla pace: «La guerra è la grande fucina dei popoli, così come lo è dei cuori». E la guerra dovrà essere la guerra di «tutti», la vittoria (o la sconfitta) di tutti e così la pace potrà essere di tutti. È attorno a una simile teleologia secolare che Jünger parla per la prima volta di Europa, perché l’Europa di Jünger sorgerà dalla vittoria di tutti alla fine della guerra. Per lo scrittore tedesco è questa l’eredità della guerra, il più supremo «atto spirituale», l’occasione di collettive decisioni sul tema territoriale, sul diritto e sul nuovo ordine, cioè su temi e questioni ripensati come «unione dei popoli» uguali dinanzi a una «costituzione» mondiale. Il richiamo finale alle «Chiese» per contrastare gli empiti nichilistici dell’Europa o della Germania in guerra, cioè alle chiese come ‘collante’ spirituale, in Jünger costituisce più un richiamo all’identità spirituale cristiana europea che non l’effetto politico di un’immaginario clericale. Jünger cioè pensa a un’educazione dei «cuori»: essa è però possibile soltanto dopo aver esaurito fino in fondo il grande avvelenamento ideologico del nazismo.

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