di Emilio Quadrelli

La grande trasformazione

Il comunismo, ovvero la teoria politica della nuova classe in grado di incarnare, e in maniera definitiva, l’universale poggia per intero sul punto d’approdo della filosofia classica borghese. Il ciclo storico progressivo della borghesia, sotto il profilo concettuale, si consuma in Hegel e Feuerbach lasciando irrisolta la questione della nuova classe che questo mondo ha partorito: il proletariato1. Engels e Marx, facendo leva sui titani della borghesia, porranno a regime la teoria della parte “cattiva” della storia, della negazione del modo di produzione capitalista. In virtù di ciò la guerra tra proletariato e borghesia è un conflitto riconosciuto da entrambi i contendenti come legittimo. Palesemente, dentro tale cornice, non vi è spazio per l’esclusione. Non per caso, come avviene in ogni conflitto legittimo, la possibilità della mediazione, del ricorso all’arte della diplomazia e via dicendo è sempre possibile. Gli operai sanno che la borghesia è una forza storica che governa in virtù di una legittimità storica e politica così come, al contempo, la borghesia intravede nella classe operaia la forza storica in grado di seppellirla. Ridotta all’osso, e non è certo cosa da poco, tutta la storia del movimento operaio passato si riduce a ciò. Uno scenario che, nei nostri mondi, si è obiettivamente eclissato.

Oggi noi riscontriamo come la condizione di socialmente escluso sia ben distante dall’indicare le classiche e in gran parte endemiche sacche di marginalità, ma come tale condizione invece si sia estesa a corpose quote di forza lavoro salariata. Ma tutto ciò da che cosa trae origine? Attraverso quali passaggi ciò si è reso possibile? Che cosa ha reso così familiare la condizione dell’esclusione? La questione non è liquidabile in poche battute poiché la repentina caduta dentro l’ambito dell’esclusione sociale è il frutto di più fattori che, nel corso dell’analisi, vanno tenuti costantemente a mente. Non si tratta, infatti, del semplice e meccanico riflesso di una condizione oggettiva (le trasformazioni intervenute dentro il ciclo produttivo) ma, piuttosto, il risultato di un insieme di interventi oggettivi (economici), soggettivi (politici) e teorici che hanno contribuito alla messa in forma dello scenario attuale. Una nuova definizione del concetto di esclusione sociale deve, pertanto, tenere costantemente a mente l’intreccio di queste tre dimensioni.

L’irrompere dell’esclusione sociale come fenomeno interno alla condizione lavorativa di corpose quote di forza lavoro ha iniziato a delinearsi con l’era del cosiddetto capitalismo globale il quale ha coinciso, a grandi linee, con il crollo dell’URSS e la fine del bipolarismo2. Da quel momento in poi, limitando lo sguardo alla condizione della forza lavoro salariata occidentale, si è assistito a una sorta di globalizzazione in basso della condizione operaia e proletaria.

Tutto questo all’interno di un doppio movimento. Per un verso, attraverso i processi di delocalizzazione ed esternalizzazione dei processi produttivi3, il ciclo della merce ha iniziato a essere dislocato nelle più svariate aree del mondo mentre, al contempo, le condizioni di vita e di lavoro presenti nei Paesi non occidentali ha iniziato a plasmare le relazioni lavorative anche dell’ex Primo mondo.

Ricerca di sempre maggiore produttività e riduzione del costo del lavoro sono stati, accompagnati da cospicui provvedimenti di detassazione dei profitti, la linea di condotta del comando capitalistico internazionale. Nonostante le tensioni e gli squilibri che hanno attraversato e attraversano sempre più i diversi gruppi imperialisti4, smentendo con ciò i vari teorici di Empire5 che si sono ritrovati ben presto tra le mai un Impero persino più breve del III Reich, nei confronti della forza lavoro salariata questi blocchi si sono mossi in maniera assolutamente unitaria e compatta6. L’attacco alle condizioni di vita delle masse ha conosciuto picchi che, solo pochi anni addietro, neppure i più reazionari e destrorsi capitalisti avrebbero neppure ipotizzato. Un attacco che ha comportato non solo la “semplice” riduzione di salario, di garanzie, di diritti interni al luogo di lavoro e produzione, ma che si è dipanato su tutti gli ambiti sociali.

Il costo del lavoro, infatti, non si limita alla semplice questione salariale ma investe, o almeno ha investito specialmente nei Paesi dell’Europa occidentale, tutto quell’insieme di “diritti sociali” non direttamente collegati agli ambiti aziendali7. In questo senso il costo del lavoro associa alla voce salario propriamente detta una serie di aspetti complementari quali pensioni, sanità, scuola ecc. che costituiscono, o almeno hanno costituito, un insieme di capitoli di spesa legati a doppio filo al salario e alla forza operaia che questo incarnava. La lotta incessante, e tuttora in corso, contro la spesa sociale da parte di tutti i governi borghesi dell’ultimo trentennio raccontano esattamente il graduale e costante assedio a cui la forza–lavoro salariata dei Paesi occidentali è stata sottoposta e la sua sempre maggiore vicinanza a quella condizione lavorativa che, da tempo, l’imperialismo delle multinazionali aveva ampiamente sperimentato fuori dai confini del Primo mondo. È diventato persino banale tracciare le condizioni di vita oltre il paradossale e il grottesco a cui sono deputate quote di forza – lavoro non secondarie, con condizioni contrattuali che, in alcuni casi, si limitano alla singola giornata lavorativa, per non parlare di quella massa permanente di “occupati in nero” che solo dentro una condizione fuori legge trovano una qualche possibilità di sostentamento.

Infine, e non si tratta di un passaggio privo di ricadute, aumenta in maniera esponenziale il numero di coloro che vivono attraversando continuamente la soglia della legalità. Il dilatarsi dell’area penale, una costante che accomuna tutti i Paesi occidentali8, testimonia quanto, per corpose quote di popolazione subordinata il ricorso all’illegalità funziona esattamente come stato d’eccezione permanente. Il tutto, sia ben chiaro, senza alcun romanticismo o ribellismo di sorta. La massa di subalterni che attraversano le soglie della legalità hanno veramente ben poco del bandito e/o del masnadiero così come, nel loro agire, non vi è nulla di, almeno sotto il profilo “oggettivo”, antagonista o di poco convenzionale9, ma, ben più prosaicamente, vi è l’assunzione drammatica e realista al contempo di una condizione esistenziale che non lascia molte vie di fuga10.

Per cospicue quote di forza–lavoro subordinata, il ricorso all’illegalità, non è altro che la “ banale” articolazione di una complessa giornata lavorativa nella quale, volta per volta e in base alle richieste del mercato, si svolgono diverse funzioni11. Del resto, e non è un caso, la stragrande maggioranza delle attività illegali sono legate a quell’insieme di servizi “illeciti” ampiamente richiesti dalla società legittima. All’interno di questa sorta di “terziario illegale”12 si consumano quote di giornate lavorative di quel “lavoro (e lavoratore) senza fissa dimora”13 di cui le nostre società sembrano essere sempre più voraci. Uno scenario talmente diffuso da non fare neppure più notizia.

Questi dati strutturali e oggettivi hanno avuto bisogno di un involucro soggettivo, ossia politico, in grado di gestire al meglio tale passaggio. Questa forma è riconducibile a quel movimento cosiddetto neoliberista e/o ordoliberale che ha caratterizzato un intero ciclo storico della borghesia. Un ciclo politicamente organizzato a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso la cui gestazione affonda le radici sin dentro il dibattito degli economisti e dei politologi tra le due guerre14.

A caratterizzare questa fase, in maniera apparentemente sorprendente, è la “rivolta” della borghesia, e soprattutto delle sue frazioni imperialiste, nei confronti dello stato. A partire dai primi anni Settanta abbiamo così assistito a una continua battaglia anti-statuale da parte di corpose quote di borghesia. Ma di quale battaglia si è trattato? A ben vedere a venire intaccate non sono state certo le funzioni propriamente politiche dello stato piuttosto a essere costantemente sotto tiro sono stati gli interventi statuali dentro la società e la funzione di mediatore dei conflitti assolta dallo stato per gran parte del Novecento a partire da quella grande cesura storica che è stata la Prima guerra mondiale15.

In poche parole ciò che è diventato oggetto di critica costante da parte della borghesia è stato il carattere anche sociale dello stato. L’obiettivo strategico di questo discorso ha mirato a separare lo stato, ossia la sua funzione squisitamente politica, da quella sociale. Quali sono le ricadute al contempo oggettive e soggettive di questo passaggio? Si tratta semplicemente, anche se questa è la ricaduta empirica più immediata ed evidente, di un impoverimento più o meno generalizzato delle masse subalterne? Si tratta di un semplice ridimensionamento di quell’insieme di “consumi”, dove per consumi non si intende semplicemente la quota di merci acquisibili tramite il salario bensì di quel “consumo sociale” che passa attraverso il diritto alla salute, allo studio, alla gestione di ampie quote di tempo libero e così via? In poche parole si tratta di una partita che si gioca per intero dentro la dimensione economica oppure, tutto ciò, si porta appresso una mutazione radicale e complessiva della relazione tra capitale e lavoro salariato rispetto a ciò che, pur con tutte le modifiche e le rotture storicamente intervenute, abbiamo sino ad ora conosciuto?

La condizione dell’esclusione sociale lascia, fatte le tare del caso, immutate le cornici del conflitto oppure, dentro la fase imperialista attuale, gli elementi di rottura rispetto alle epoche precedenti sono di tale portata e ricaduta da investire nel suo insieme la relazione tra comando capitalistico e masse lavoratrici subordinate? I dati obiettivi porterebbero a optare per quest’ultima ipotesi ed è esattamente dentro questo passaggio che la questione dell’esclusione sociale si emancipa dagli angusti e classici ambiti della marginalità per diventare tema centrale delle nostre società.

Ciò a cui assistiamo è al venir meno di quel rapporto di reciprocità tra borghesia e proletariato che aveva caratterizzato un intero ciclo storico. Di fronte a sé, la borghesia, non riconosce alcun hostis ma solo, sul fronte interno, “anormali”16 e canaglie sul piano internazionale17. A caratterizzare la fase attuale è l’assenza del nemico pubblico e della dimensione esistenziale propria del “politico”. Dentro tale scenario, per forza di cose, diventa impensabile ogni ipotesi di mediazione e/o di diplomazia poiché, perché tali pratiche possano venir messe a regime, occorre che il principio di reciprocità giri a pieno regime. In definitiva l’esclusione sociale non è altro che la forma “concreta” di un passaggio ancor più radicale: l’espulsione delle masse dalla scena pubblica, quindi dalla politica. Un’esclusione che investe per intero il sistema–mondo.

(fine seconda parte – continua)


  1. F. Engels, “Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca”, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969  

  2. Una disincantata analisi di questi processi la fornisce, in maniera apparentemente inaspettata, un neoliberista tra i più attivi e convinti, L. C. Thurow, Il futuro del capitalismo, Mondadori, Milano 1997. Di non poco interesse, sempre per un punto di vista interno al capitalismo globale, rimane, G. Soros, La crisi del capitalismo globale, Ponte alle Grazie, Milano 1999.  

  3. Una buona esemplificazione empirica di questo passaggio la fornisce il bel lavoro di D. Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente. Migranti, capitali e azioni umanitarie, Ombre Corte, Verona 2004. Un aspetto non secondario della ricerca di Sacchetto è il mostrare la precisa relazione tra delocalizzazione e azioni di polizia umanitarie. Un modo elegante per giustificare quelli che, a tutti gli effetti, si presentano come atti di vero e proprio colonialismo. Una conferma di questo intreccio la si può trovare attraverso la “storia di vita” di Anna raccolta da E. Quadrelli in Evasioni e rivolte. Migranti. CPT. Resistenze, Agenzia X, Milano 2007. In questa testimonianza diventa pressoché indiscutibile come tra le finalità delle cosiddette azioni umanitarie e/o di polizia internazionale vi sia anche la messa al lavoro integrale del corpo dell’indigeno. Una logica che trova non poche affinità con quanto praticato in Afghanistan dalle filiere dell’imperialismo a matrice fondamentalista nei confronti dei civili afgani. Lo stesso “diritto allo stupro” praticato dai combattenti anticomunisti e ultrà della shari’a mostra come, indipendentemente dalle diverse confessioni, le logiche imperialiste siano, nei confronti delle masse subalterne, improntate dalle medesime affinità. Non stupisce pertanto come proprio il corpo della donna, in piena assonanza con le più scontate logiche coloniali, sia quello maggiormente  

  4. Sotto tale profilo non poco indicativo è la diversità di interessi e intenti emersi nella guerra conto la Libia. Al proposito si veda, «Limes Rivista italiana di geopolitica», Il grande tsunami, Gruppo Editoriale L’Espresso N. 1, Milano 2011. Proprio la “Campagna di Libia”, nonostante la cornice Nato in cui è condotta dovrebbe mostrarne il carattere omogeneo e unitario mostra come la “grande coalizione”, a dominanza statunitense, venutasi a delineare nel corso della “guerra fredda” avesse una natura puramente tattica, fronteggiare il comune nemico, mentre, sul piano strategico, fosse del tutto inconsistente. Con la fine del “Patto di Varsavia” le consorterie imperialiste hanno ripreso, senza troppi pudori, a giocare ognuna per sé. Nel “caso Libia” ciò è quanto mai evidente. Sono stati proprio i Paesi con alle spalle un passato coloniale di primordine, Gran Bretagna e Francia, a spingere verso la guerra con la dichiarata tentazione di ritornare, da padroni, sui territori che le avevano viste a lungo protagoniste. Ovvio che, in tale contesto, una struttura come la Nato diventi oggetto di negoziazioni, e spartizioni, tra partner sempre più indirizzati verso una politica internazionale autonoma dove, per autonoma, si deve intendere autonomia politica, militare, economica e diplomatica dei diversi raggruppamenti imperialisti. Sulla “crisi” che attraversa, non da ieri, la struttura Nato si veda «Limes», Rivista italiana di geopolitica, L’America in panne, Gruppo Editoriale l’Espresso, n. 1, Milano 2007.  

  5. M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002  

  6. Cfr., E Quadrelli, Cogliere l’occasione! Genova 2001 – Genova 2011. Note per una lettura globale della fase imperialista, Associazione marxista Politica e Classe, Roma 2011  

  7. La cesura tra il passato e il presente può essere colta attraverso la rilettura di un testo, T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Editori Laterza, Roma – Bari 2002, che ha a lungo rappresentato la stella polare delle politiche statuali dei Paesi dell’Europa occidentale nei confronti delle masse subalterne. Sin dalle prime battute apparirà chiaro ed evidente come la cornice teorico – politica contemporanea si collochi su coordinate non solo diverse ma opposte.  

  8. La pubblicistica al riguardo è quanto mai vasta. Con ogni probabilità i testi che affrontano con maggiore incisività e chiarezza analitica questo passaggio sono L. Re, Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Editore Laterza, Roma – Bari 2006; L. Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberismo e politica penale, Ombre Corte, Verona 2002  

  9. Si tratta di una condizione ben diversa da quella che ha caratterizzato, negli anni Settanta del secolo scorso, una parte della storia dell’illegalità del nostro Paese . Le batterie di rapinatori che hanno caratterizzato quel periodo rappresentavano a tutti gli effetti una rottura con i cliché tradizionali della malavita. Ciò non è difficilmente spiegabile poiché le batterie erano figlie della fabbrica, prodotti spuri ma diretti di quella trasformazione seguita all’impiantarsi della fabbrica fordista nei principali comparti industriali italiani. Su questi aspetti si veda, E. Quadrelli, Andare ai resti. Banditi, rapinatori e guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, Derive Approdi, Roma 2004. Un’epoca che, nell’arco grosso modo di un decennio, volge drammaticamente al termine e della quale ne è stata praticamente azzerata la memoria. Non è infatti casuale che, oggi, l’icona illegale degli anni Settanta sia comunemente considerata la Banda della Magliana il cui legame a doppio filo con il potere, è arcinoto. Reiterando un aspetto, quello per così dire classico, del rapporto tra crimine e potere alla cui base vi è la relazione et – et. Su questo aspetto, cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976.  

  10. In questo senso per lo meno discutibili appaiono quell’insieme di ipotesi politiche che individuano nell’esodo, cfr. P. Virno, Esercizi di esodo. Analisi linguistica e critica del presente, la possibile strategia antagonista del presente.  

  11. Empiricamente queste pratiche sono state ampiamente descritte in A. Dal Lago, E. Quadrelli, La città e le ombre, Feltrinelli, Milano 2003.  

  12. Sull’aspetto di “servizio” di tali attività, A. dal Lago, E. Quadrelli, La città e le ombre, cit.  

  13. Questa assenza di dimora stabile del lavoro sembra essere una delle peculiarità della condizione lavorativa contemporanea. Tutto ciò, ovviamente, ha ricadute sulla soggettività del lavoratore di non secondaria importanza. La differenza con l’epoca che ci siamo lasciati alle spalle dove, in linea di massima, il medesimo luogo di lavoro diventava una sorta di abitazione per il lavoratore dall’assunzione sino alla pensione è evidentemente abissale. Un aspetto fondamentale del nostro lavoro di inchiesta deve forzatamente cercare di decifrare il tipo di auto rappresentazione che questa tipologia di lavoratore ha di se stesso. Una ricerca sulla “soggettività” dell’attuale forza – lavoro è un passaggio irrinunciabile al fine di mettere in forma i passaggi organizzativi propri di tale condizione.  

  14. Il senso di questo dibattito è molto ben ricostruito in M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005  

  15. Su questo passaggio è particolarmente utile, S. Mezzadra, La costituzione del sociale. Il pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Il Mulino, Bologna 1999.  

  16. Cfr. E. Quadrelli, Gabbie metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza, Derive Approdi, Roma 2005  

  17. Ciò è ben argomentato in, A. Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, Ombre Corte, Verona 2003.