di Dziga Cacace

Chi vive sperando, muore cagando. Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941. Sono anche un autore. Buonanotte.

981 – La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, Francia 2011
Mi son reso conto che non c’è verso: alla fin fine, per quanto mi sforzi, vedo pochi film che non siano firmati da maschietti. Non mi pongo particolarmente il problema quando devo scegliere ma la realtà che mi si propone è sconsolante: i film firmati da donne sono pochissimi e io, con le mie visioni, non faccio altro che fotografare le percentuali figlie di un sistema maschilista, dove i registi sono maschi e i produttori sono maschi. Tendenzialmente, eh, perché ci sono sempre ovvie e virtuosissime eccezioni, ma se guardiamo i grandi numeri questo accade. Il pippello è ovviamente dovuto ai sensi di colpa, sensi di colpa che aumentano quando vedo un bel film come questo, firmato da Valérie Donzelli. Non so neanche come ci sono arrivato ma è stata una bella sorpresa. Juliette e Romeo sono giovani e innamorati appassionatamente: un figlio sembra la logica conseguenza. Vediamo l’ansia genitoriale, la difficoltà di imparare giorno per giorno a fare da papà e mamma e i primi dubbi, le ansie, il pensare di non capire qualcosa per concludere che si è troppo apprensivi. Però il bimbo, Adam, cresce male, non parla, vomita all’improvviso, non riesce a stare in piedi. E allora comincia un rosario pietoso di visite, di sguardi imbarazzati, di responsi detti a bassa voce, fino a quello finale, il peggiore che un genitore possa sentirsi dire: vostro figlio ha un tumore al cervello. Un tumore di quelli brutti. La narrazione è pulita, essenziale senza essere brutale, ma invece con momenti di vita straordinari, liberatori, perché il bimbo soffre e i genitori sono annichiliti da questo calvario e una serata con degli amici, un bacio rubato, una fuga dal dovere, diventano momenti di serenità esistenziale impagabile, fino al prossimo esame. Combattono una guerra assieme al loro figliolo, una guerra logorante, senza tregua dove non c’è alcuna certezza né eroismo. Io nulla sapevo del film prima di vederlo e al termine scopro che i protagonisti hanno vissuto sulla loro pelle tutto questo dolore e hanno saputo restituirlo con umanità e asciuttezza, senza compiacimenti familiari e ricatti emotivi. Un film bello e intenso: cercàtelo! (10/10/12)

982 – Quasi amici – Intouchables di Olivier Nakache e Éric Toledano, Francia 2011
Torniamo al cinema, quello vero, dopo tempo immemorabile e l’occasione ce la fornisce un parrocchiale vicino a casa, gestito da fratacchioni francescani molto attivi. Il giovedì poi è giornata ideale: c’è la pulizia delle strade e fino a mezzanotte si trova parcheggio. Vi assicuro: è cosa non da poco in questa fetente città che è Milano. La sala è ampia e confortevole e Barbara mi fa sedere in mezzo a un sacco di gente, nel centro geometrico perfetto della platea. Sa benissimo che sono un eccentrico (perlomeno in termini spaziali), ma si impone. Sono tutti over 60 e non so se sentirmi giovanissimo o vecchissimo anch’io. Pavento catarri grassi, tossi asinine, borborigmi digestivi, dentiere che ballano tra le gengive, sordità gravi, cellulari dimenticati accesi e “eh?” a ripetizione. E invece saranno tutti bravissimi. Quando Quasi amici finisce, al primo titolo le luci vengono subito accese, con l’effetto di un flash al fosforo sulla retina. Tutto non si può avere, del resto. E il film? Beh, è indubbiamente piacevole per quanto con una trama abbastanza telefonata e che rischia pericolosamente di essere edificante. Dunque: Philippe è un ricco vero, sfondato, ma tetraplegico e condannato alla sedia a rotelle. Per scommessa assume come badante Driss, un giovane nero della banlieue dalla lingua scioltissima. Funzionerà a meraviglia. Recitazione inappuntabile di Omar Sy e François Cluzet, diversi momenti piacioni che effettivamente piacciono molto, sceneggiatura con qualche esitazione nel finale un po’ allungato. La scelta del terreno di confronto tra i due attori è notevole e la banalità del plot (tipico scontro che produce crescita reciproca tra due situazioni diametralmente opposte – ricco/povero, bianco/nero, vecchio/giovane, colto/ignorante, paralitico/ballerino, chiacchierone/laconico etc.) è attualizzata e resa vivace da una marea di idee: ogni episodio va a segno e si sorride anche per le situazioni e le facce, senza dare troppa enfasi alle battute. E poi devo dire che la regia non è pigra anche in termini fotografici, cosa rara in queste pellicole medie, per il grande pubblico. Film accattivante, gestito con delicatezza e altrettanta capacità di ridere grasso senza mai scadere nella volgarità, politicamente scorretto in maniera naturale, accettabile, senza che si voglia fare la faccia cattiva apposta. Poi, certo, è un film consolatorio, ma ogni tanto un po’ di consolazione, in questa vita, che c’è di male? Perché no? E detto tra noi, con l’emancipazione dello spettatore, quale film ormai non è consolatorio, che sia prevedibile o prevedibilmente imprevedibile, eh? (Questa non ve l’aspettavate, ma pensateci). (Cinema Rosetum, Milano; 11/10/12)

986 – Les amants réguliers di Philippe Garrel, Francia 2005
Sono 4 anni che mi aspetta lì, sulla mensola, messo tra le visioni urgenti. E poi ce n’è sempre una e si rimanda, sinché una sera – questa – frego Barbara e la inchiodo. Prima le propongo un Mizoguchi (giappo immoto in b/n), poi un Kalatozov del ’65 in russo e sottotitoli in inglese e infine Les amants réguliers. Che almeno è dell’ultimo decennio. La cosa le pare liberatoria, ma non le dico della durata: 3 ore secche. E non sapevo neanche io che saremmo stati chiamati a una tenzone di altri tempi: di Garrel ho giusto visto 14 anni fa J’entends plus la guitare, di cui ho ricordi vaghissimi e non precisamente entusiastici. Qui abbiamo dei giovanissimi reduci dal maggio ’68 appena trascorso, ancora tramortiti dall’esperienza. Artisti, studenti, fancazzisti che si ritrovano in una casa dove nascono amori, fughe, tradimenti. La prima ora del film è veramente una sfida ai nostri sensi anestetizzati da editing spedito, sintesi narrative estreme e ricchezza scenografica. Qui si parte lentissimi, con scene che durano eternità, senza che la semplice idea del montaggio abbia mai sfiorato la regia. È come se funzionasse da gradimento all’entrata: il regista seleziona il suo pubblico. Non siamo noi a sceglierci il film, e il film che procede alla decimazione e poi accoglie i sopravvissuti. Stringiamo i denti, non con qualche moto d’irritazione: se la sintesi è intelligenza, ti vien da pensare che Garrel sia stupido del tutto. Barbara è scocciatissima e non riesce a entrare nella vicenda, sbuffa e mi maledice: “Ma se io non l’ho mai sentito, ‘sto Garrel, ci sarà ben un motivo, no?”. Poi, però vieni trascinato dalla narrazione indolente e anche da un certo affetto per il protagonista François, poeta renitente alla leva e ribelle placido e innamorato. Perlomeno accade a me, conquistato nonostante un finale improvviso come una coltellata nella schiena. Non so bene come spiegarlo, ma questi ritmi, queste immagini antiche, questa inattuale messa in scena, riportano alla mia mente tanto cinema visto nei cineclub una decina di anni fa, La maman et la putain, Godard, Bertolucci ovviamente (e c’è un omaggio spudorato, con strizzata d’occhi in camera). È autoerotismo, lo so, ma chi dice che non abbia le sue qualità, eh? Il film è il racconto di una sconfitta in fondo produttiva (di esperienze, di conoscenza) dei giovani sessantottini di Parigi, ma senza la lagna del “quanto avevamo ragione”. Il regista ci fa vedere come fossero belli e puri i protagonisti di quell’epoca con semplicità, senza retorica, senza nostalgie reazionarie. C’è il rifiuto delle armi, la lotta con la (propria) paura, il volto duro della Legge e dei militari, la poesia come fuga e l’oppio che funziona sia come anestetico che da propellente della creazione e in ultima lettura anche come portatore di morte (intellettuale). Tanti temi, affrontati con un linguaggio autoriale sincero, quasi ingenuo, totalmente fuori tempo ma anche accordato a quell’estetica sessantottina: formato in 4/3, bianco e nero contrastatissimo, belle facce, pochi dialoghi emblematici che paiono ogni volta tranches di discorsi colti per caso, sussurrati, perché non c’è bisogno di declamarli. Musiche pianistiche suadenti (un incrocio innaturale tra Satie e i Beatles (!)) e l’improvvisa dissonanza di Nico (che era stata compagna del regista) con un brano straniante del 1981. L’attore principale è il figlio del regista, quel Louis Garrel già protagonista proprio di The Dreamers che fa andare in deliquio orgasmico qualunque femmina conosca; lei è l’intensa Clotilde Hesme. Bel film, carico di significati e memorie. Ah, questo film che parla d’amicizia e condivisione e chiacchiere e sorrisi e tradimenti, mi porta a segnarmi – come futuro ammonimento, se diventerò un vecchio bilioso e misantropo – che veramente avevano ragione Vinicius, Endrigo e pure Ungaretti: La vita, amico, è l’arte dell’incontro! (Dvd; 30/10/12)

990 – La bocca del lupo di Pietro Marcello, Italia 2010
Questo è un film splendido, un colpo al cuore immediato e un’endorfina a lento rilascio per il cervello. In breve è la storia d’amore tra Enzo e Mary, sottoproletari dell’angiporto genovese che s’incontrano e uniscono le rispettive difficoltà di vivere in una storia intensissima, lontana da ogni cliché romantico. Protagonisti loro – superstiti di un mondo del Centro Storico che sta scomparendo – e la città stessa. Le loro testimonianze – alcune riprese come confessioni esplicite, altre casuali, altre ancora recitate – si mescolano a immagini straordinarie di Genova durante il Novecento, tratte da film documentari e filmini amatoriali, testimoniando l’evoluzione spaziale e sociale di questa città incredibile. Ovviamente questo ha aumentato il mio delirio emozionale e sdraiato sul divano, era tutto un continuo rimbalzare gridandomi – da solo – “La mia facoltà di Architettura!”, “Santa Maria di Castello!”, “Sestri Ponente!” e così via. Inoltre in testa, a metà e in coda al film, tre parti liriche, con nuovi vecchi abitanti precari che vivono nelle grotte sotto il monumento di Quarto dei Mille (se non ho capito male). Il film – breve il giusto – lascia la voglia di saperne ancora: i due protagonisti, vessati da una vita veramente difficile, hanno finalmente trovato requie in una casetta sui monti sopra Genova, da cui si vede, lontano, il teatro delle loro esistenze tribolate. La storia non è immediata: Mary racconta Enzo ed Enzo rievoca solo a tratti, con un italiano incerto e coinvolgente, il suo passato carcerario (27 anni al gabbio, in tre periodi diversi) e le sue gesta criminali. La figura di Mary è più sfumata, fino al finale: un piano sequenza senza interruzioni in cui ancora una volta è Mary a svelare la sua identità di persona trans, la sua fuga da una famiglia borghese ostile, la solidarietà trovata nei carruggi. E poi l’incontro in carcere: Enzo rinchiuso per avere sparato a due poliziotti, lei eroinomane. Un amore fulminante, immediato e senza mediazioni: non si lasceranno più, si difenderanno dal mondo, continueranno a comunicare – dopo averlo fatto a gesti, nel silenzio delle celle separate da due spioncini – con audiocassette, lettere, disegni e brevissimi incontri in licenza. Una storia struggente e magnifica, messa in scena con rigore antico, senza MAI dire il nome De André, grazie a dio (e Fabrizio sarebbe stato contento!), senza inseguire pruriti morbosi del pubblico snobbetto che gode di film così, ma guai a metter piede nel Centro Storico (lo scrivo maiuscolo perché ce ne sono tanti, ma grande e ricco così, solo uno, quello di Genova). Bravi Pietro Marcello e Sara Fgaier (montatrice e tantissimo altro). Come tutti i film editi da Feltrinelli, il dvd si accompagna a un buon libro, curato da Daniela Basso ricco di testimonianze e di documenti accessori. Dario Zonta, uno dei produttori, racconta l’iter che ha portato a vincere diversi premi in tanti festival: un testo esemplare della fatica e della forza richiesta per fare qualcosa in questo paese, che si conclude con un paragrafetto che scolpirei nel marmo: in Italia basta realizzare un’opera – magari coi piedi – per attribuirsi subito una patente da artista: sono tutti pittori, scrittori, autori etc. E anche chi produce un film, magari un corto sgarrupato, diventa subito produttore. Ecco, lui e gli altri che hanno aiutato questo film a venire alla luce, sono i veri produttori che ci mancano. Bravi, veramente. (Dvd; 9/11/12)

991 – 3 giorni per la verità di Sean Penn, USA 1995
Sono a Genova, dai miei, e la città è ferma, immobile, bellissima. A sera, papà tira fuori un vecchio ritaglio di giornale dove un critico definisce il secondo film di Sean Penn “da non perdere” e siccome lui si fida del Sole24Ore e non del Cacace lo vediamo. E non vale niente. Cioè, poco: ho perso due ore della mia vita davanti a una pellicola con una fotografia smorta, attori mal diretti, musica di Jack Nitzsche purtroppo senz’anima (e pure una canzone di Springsteen anonima, francamente) e trama esagerata, poco credibile anche quando qualcosa di emozionale potrebbe emergere. Perché la storia è questa: lui, Freddy, è Jack Nicholson (bisognerebbe dirgli: se il film non è Batman, non devi comunque fare il Joker, eh) e non ha mai superato il trauma della morte della figlioletta di sette anni, investita da un guidatore ubriaco, John, che sta uscendo dal carcere, roso dal rimorso e con la faccia incolore di tale David Morse (massì, se lo vedete capite chi è: caratterista di tanti film con registro interpretativo limitato a tre smorfie: assente, basito, addoloratissimissimo). La madre della vittima, Anjelica Huston, se n’è fatta una ragione e vive tranquilla ma Freddy non ci sta, è ossessionato dal desiderio di vendetta e si brucia tra alcol, sigarette e spogliarelliste e quando John esce dal carcere dopo 5 anni va ad ammazzarlo. Ma non ha messo il proiettile in canna (!) e allora si trova un accordo: tra tre giorni ti faccio secco. Cosa che John quasi vorrebbe, essendo uno zombi che non riesce ad amare la bella Jojo (interpretata da Robin Wright). Dopo un’ora e trenta di scassamento di palle dovuti ad andirivieni narrativi neghittosi e compiaciuti dialoghi sentenziosi, Freddy fugge ai poliziotti che l’han fermato ubriaco (e vai di elicotteri… per un ubriaco, boh) e riesce a raggiungere John che lo aspetta in plastica posa con fucile con cannocchiale. I due si confrontano ed è quasi una gara a chi si fa ammazzare dall’altro per mettere fine al tormento, dello spettatore, però. Dopo un pochissimo credibile inseguimento asmatico (e ci credo: fumano tutti come turchi, con Penn – tabagista convinto – dietro la cinepresa) conclusione sulla lapide della piccina, con Freddy che la vede per la prima volta e nota che si tratti di una pietra color rosa. Poi i due si danno la manina e fine, the end. Bestemmie a non finire, ma solo mentali per riguardo dei vecchi genitori che subiscono la pellicola ammettendo che il Sole24Ore è nemico della classe lavoratrice e degli spettatori. Altre cose notate in questa schifezzina con pretese: Nicholson ha le lunghie laccate, giuro. Robbie Robertson (particina) dovrebbe solo suonare la chitarra. E poi (e parliamo di un direttore della fotografia altrimenti validissimo, Vilmos Szigmond), rallenti agghiaccianti, zoom da interdizione e luci al neon che facevano schifo durante gli Ottanta, figuriamoci se utilizzate a metà Novanta e viste oggi. Inoltre traduzione in italiano tremenda, ma la colpa è mia che preferisco vedere i film in originale e soffro di gran spaesamento quando sento i migliori doppiatori del mondo non andare a tempo col labiale dei doppiati e condire tutto con inflessioni dialettali. Concludendo questa tirata sicuramente scomposta: film dall’idea buona ma dalla drammaturgia bislacca e dalla messa in scena sovraccarica. Per cui: Penn, sei tanto bravo quando reciti però i film falli fare ad altri, eh. (La promessa, da Dürrenmatt, non mi era dispiaciuto ma chissà cosa mi passava per la testa. O forse Sean aveva imparato, nel frattempo. Boh, non importa). (Diretta su Sky Cinema Cult; 16/11/12)

994 – Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari, Italia 2012
Torno a casa distrutto da una giornata di lavoro spossante e – dopo cena – quando le pupattole accettano di andare a dormire, dopo denti, bidet, scelta dei vestiti, letture varie, implorazioni di ancora un minutino etc. etc. decidiamo di vederci un film. Ne scegliamo uno che ci tenga sulla corda, perché incombe il sonno, e non sbagliamo. Mi fa male ripercorrere la o le storie del G8, perché non c’ero, avrei voluto esserci, ma ho anche ringraziato il caso che mi ha impedito di partecipare. Diaz non ti molla un attimo: è un film importante e necessario (e lo so che sono termini abusatissimi e pericolosi, ma ho deciso che valesse la pena usarli), forse non esaltante in termini drammaturgici, però ben teso, diretto, senza sbrodolate, con pochissime sbavature (qualche dialogo didascalico). È un film che rinuncia al grido di dolore esagitato e militante (ed è un bene inestimabile) così come alla precisione assoluta di nomi, ore, luoghi, evitando un documentarismo che avrebbe reso sterile e non emotiva la narrazione. Certo: violento, sì, ma se avete visto i documentari con le immagini vere, vi assicuro che questa – al confronto – è una passeggiata di salute. Il racconto è corale, scomposto in termini temporali in modo intelligente, mettendo in scena le diverse anime dei manifestanti del G8 e senza dimenticare anche lo sconcerto di alcuni (pochi pochi) rappresentanti delle forze dell’ordine di fronte al cinismo, al sadismo e alla vendetta esercitata così brutalmente. E le scelte non sono per essenza democristiana quanto per trovare un equilibrio narrativo e per raccontare lo spaesamento di tutti. Cast a regime, ricco e ben diretto. Sulla pagina di Wikipedia leggo attonito i commenti di tanta stampa e, sarà perché io sono il Cacace, mi sembrano tutti sfocati, con addirittura un critico del Giornale (…) che lamenta la mancanza di scene con violenze dei dimostranti. E certo, perché così la lezione cilena alle zecche comuniste era più comprensibile, no? Io veramente non so perché devo pagare con le mie tasse lo stipendio a certa gente. (Dvd; 27/11/12)

995 – Millennium – Uomini che odiano le donne di David Fincher, USA 2011
Torno a Genova per il battesimo del terzo nipotino. E la sera, dopo parca cena, film su Sky, come vuole papà, che sceglie questo thriller tratto dal celeberrimo libro che ho letto 3 anni fa con mucho gusto. Millennium parte con Immigrant Song dei Led Zeppelin in versione industrial su titoli di testa stilosissimi e assolutamente inutili, messi giusto per fare sciato, come diciamo qui da noi. Però nella testa di regista e produttori il ragionamento è: se faccio sentire il pezzo vichingo dei Led Zepp ho già fatto capire di cosa parliamo, di gente che vive in quelle zone là, di là dall’oceano, in Scandinavia, Ikea, Volvo, tetrapak, robe così. E anche per quel che riguarda personaggi e contesto, non si perde un secondo, tanto il librone l’han letto tutti e magari qualcuno s’è già visto le riduzioni svedesi. Per cui si parte come se sapessimo ogni cosa (e mi evito anch’io qualunque riassunto): chi è Mikael Blomqvist e di cosa si occupi al giornale Millennium. E Lisbeth Salander, idem. Scene brevi, veloci, secche: un sunto concentrato, un bigino, un dado Liebig della vicenda, con una narrazione spezzettata e velocizzata che mi ha presto rotto le palle. Siccome si crede che l’abilità del montaggio sia fare tutto in fretta e furia, a stacchi frenetici, senza piacere del racconto, hanno pure pensato di dare l’Oscar al film. E vabbeh, cara Academy: ma allora la prossima volta premiamo un trailer, dài! E poi, la cosa più incredibile. Seguitemi! Siamo in Svezia, con personaggi svedesi che parlano – si suppone – svedese. E invece Blomqvist prende appunti… in inglese. E i suoi Post It sulla lavagna sono… in inglese. E Lisbeth Salander, tatua “I am a rapist pig”, sul suo tutore violentatore svedese, che così non potrà più avere vittime anglofone, ma svedesi forse. E poi: libri svedesi stampati in inglese, polizia svedese che redige rapporti in inglese, giornali svedesi con titoli e articoli in inglese… Ma non è straordinario, tutto ciò? Neanche durante l’autarchia fascista! Si vede che Fincher deve aver pensato: in che lingua cantavano gli ABBA? Inglese! Per cui la vera scoperta di questo film, il suo valore occulto e il messaggio rivelatore che ci passa questo regista che se la tira da novello Hitchcock è: VOI NON LO SAPETE MA GLI SVEDESI PENSANO, PARLANO E SCRIVONO IN INGLESE. Aaaah, ecco. Stupido io! Vabbeh: David Fincher è considerato un maestro della cinematografia attuale ma ogni volta che vedo un suo film mi pare che manchi sempre quello che per me conta veramente: le emozioni, il senso di ciò che si dice, la moralità dello sguardo. E sì che nel primo libro della trilogia di Millennium ci sono il nazismo civile, il fanatismo religioso, la grande imprenditoria maledetta e tarata, la giustizia sociale assolutamente ingiusta, il diritto all’informazione contro i poteri forti, i rapporti tra uomini e donne e l’insopportabile prevaricazione maschile. Bene: qui è tutto buttato in un calderone in nome della funzionalità del thrilling. Ed è per questo che Fincher, nel grande schema delle cose della MIA vita, non conta né mai conterà un cazzo. Perderò qualche grande film? Di sicuro, perché questo sa anche (non qui) mettere in scena da Dio, chi dice di no. Ma chi se ne frega: ho tante colpe, una più una meno finirò lo stesso all’inferno. Come voi, del resto. (Diretta su Sky Cinema 1 HD; 1/12/12)

997 – Funeral Party di Frank Oz, Gran Bretagna 2007
Zia Luisa è un po’ che me lo dice: guardalo! E io, da bravo nipotino, obbedisco. Funeral Party è una commedia nera, abbastanza teatrale, che bordeggia il grottesco e la farsa facendoti sghignazzare assai. Come da titolo siamo a una veglia funebre e l’occasione impone misura, discrezione, rispetto, in un ambito british già di per sé molto controllato. E ovviamente accade la catastrofe. Le scene divertenti lo sono molto, ma molto proprio, facendo ricorso a comicità bassa, grassa e scatologica. A volte le gag sono un po’ fuori dal tempo (si scopre che il defunto era gay e si accompagnava a un nano) e soprattutto è quasi sgraziato nella sua banalità il motivo perturbatore principale: una boccetta di Valium che contiene invece delle pasticche di droga allucinogena. Chiaramente fanno ricorso al medicinale diversi partecipanti alla cerimonia e da lì il delirio: la realtà trasfigura e diventa tutto verde, come accadeva a Duccio in Boris (forse era una citazione, chissà). Con attori bravissimi, il film è gradevole, lungo il giusto e non posso certo criticarlo se poi rido come un posseduto perché un personaggio mette le mani nelle feci di un paralitico. (Dvd; 10/12/12)

1001 – Breaking BadThe Complete First Season di Vince Gilligan, USA 2008
Alla fine abbiamo ceduto: tutti ci dicono che si tratta di una serie eccezionale e son costretto a smentire. Non è eccezionale, è MONUMENTALE. Il livello di scrittura è francamente pazzesco rispetto ad altri prodotti seriali televisivi e dal punto di vista della messa in scena non vedo niente di meno rispetto a una produzione per il grande schermo. Ma quello che poi ti stupisce di più, ti affascina, ti cattura e ti convince, è trattare – e con naturalezza – assieme argomenti come l’etica, il decorso di un tumore, la produzione e il consumo delle droghe, i rapporti familiari, l’handicap, le aspirazioni frustrate, il sistema sanitario americano… La serialità consente affreschi molto ampi ma qui si rimane ammirati dalla capacità di condensazione di così tanti temi, come il team di scrittura riesca a svilupparli con credibilità, come sappia trattare l’ambiguità umana con questa misura eccezionale. Giusto per capirci: Walter White è un insegnante di liceo che avrebbe potuto diventare milionario con le sue competenze da chimico. Ha una moglie incinta e un figlio handicappato. Una casa (con piscina) ancora da pagare e i conti al limite. E un tumore ai polmoni. L’aspettativa di vita è bassa e allora Walt decide di sfruttare il suo talento per produrre metamfetamina e mettere da parte qualche soldo da lasciare alla famiglia. Metamfetamina purissima, di qualità eccelsa. Ma ovviamente a ogni scelta, a ogni azione, chimicamente segue una reazione, le cui conseguenze però, a differenza che in un processo di laboratorio, non sono mai prevedibili. Da timido studioso si può diventare spietati e avidi, pur di difendere la tribù o gli affari che permettono di tirare avanti. E così proviamo di nuovo l’angoscia persistente dell’ultima serie di The Shield, quella maledetta spada di Damocle sopra la testa, il continuo sentimento di non farcela, che da un momento all’altro sarai fottuto, e ogni tentativo per uscire dai tuoi casini implicherà ripercussioni che peggioreranno le condizioni di partenza, già disperate. Ogni episodio ha un arco drammatico spettacolare, sono belli i dialoghi perché son scelte bene le parole, è curiosa la localizzazione, in uno stato – il New Mexico – che è frontiera, deserto, prossimità al mondo latino, nuove possibilità e vicolo cieco. Ed è notevolissimo il discorso sulle droghe, senza infingimenti o balle: con un realismo disturbante ci viene raccontato tutto su produzione, consumo, cultura, società (permeata dal vizio a tutti i livelli), repressione (la lotta patetica della DEA) e giustizia, con i pesci piccoli vittime e quelli grossi che continuano, perché la droga è un affare anche per chi la combatte e senza non ci sarebbe un nemico per cui chiedere armi e denaro. Bravissimi e credibili, sempre, gli attori (su tutti il protagonista Bryan Cranston), belle le musiche, perfetto il montaggio e le continue sorprese registiche. E poi c’è il cattivo Tuco (rimando a chi ha memorie leonine), beh: uno splendore unico, specie quando sniffa i cristalli. Serie di livello superiore. (Dvd; dicembre 2012)

1002 – Michel Petrucciani – Body and Soul di Michael Radford, Francia 2010
Come fai a raccontare veramente la vita di uno come Michel Petrucciani? Questo bel documentario è una visione succinta e sicuramente parziale della sua vicenda umana e artistica ma se una storia come la sua potrebbe essere raccontata per ore, il regista (quello de Il postino, ma non solo) decide di concentrarsi sul versante emozionale: c’è la musica ma soprattutto c’è la vita e il documentario (abbastanza basic nella rievocazione biografica ma ricchissimo di contributi e testimonianze) è un inno al potere dell’arte che riesce a lenire le ferite di un’esistenza difficile. La storia di questo pianista – un piccolo grande uomo dalle ossa fragili e dalle mani abilissime – ha dell’incredibile: affetto da osteogenesi imperfetta e nanismo, aveva una fame incontenibile di tutto: amore, droghe, musica. Petrucciani voleva vivere la vita fino in fondo, reale o di fantasia che fosse: era un incontenibile contapalle (in una delle testimonianze si specifica: “Bisognava dividere per dieci quello che diceva”), respingeva ogni pietismo, si sentiva e voleva vivere come tutti gli altri. Del resto: “Abbiamo tutti dei problemi, chi non ne ha?”. Sorridente, ironico, cialtrone, esagerato, presuntuoso, bugiardo, egoista e traditore: la sua storia è un continuo accompagnarsi e lasciarsi, segnata dal rapporto col padre (l’assenza dopo il primo successo, come la debordante presenza prima, quando lo ha tirato su con spietatezza e gelosia) e dal desiderio di lasciare qualcosa di sé, come i figli voluti ostinatamente. Radford non esita a raccontarci (o meglio, a farci intravedere) attraverso le sue cinque compagne e i tantissimi amici, il lato oscuro del piccolo pianista: alcune meschinità, l’arroganza e l’incapacità di impegnarsi seriamente. Ma il genio andava di pari passo a questa ansia di vivere tutto fino in fondo, di non lasciare nulla per strada. Poca analisi musicale (tecnica non ortodossa, grande velocità e capacità melodica, criticato spesso proprio per la sua accessibilità o il suo virtuosismo da critici coglioni e totalitari) e un consueto errore di pigrizia registica: nessuna didascalia per dirci chi parla. Però bel film, e che musica, mamma mia. (Dvd; 1/1/13)

(Continua – 85)

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