Di Jack Orlando

Alberto Magnaghi, a cura di, Quaderni del Territorio. Dalla città fabbrica alla città digitale (1976-1981), Derive Approdi, Roma, 2021, pp. 138, 16€.

Nella pratica dei movimenti sociali, come in realtà di quasi ogni fenomeno politico, la dimensione territoriale è una costante fondamentale in cui si dipana la prassi e si possono misurare risultati, obbiettivi e limiti.
Per perimetrarsi sullo scenario italiano ed alla storia recente, le strutture di intervento territoriale dell’autonomia, la stagione dei centri sociali, il più recente fiorire e sfiorire di collettivi politici con prerogativa spiccatamente territoriale, specialmente nelle metropoli, confermano questa centralità del territorio come elemento imprescindibile della politica.
Eppure si è spesso dimostrato anche un limite, invalicabile a volte, nell’incapacità delle strutture di rendere organico e dialettico il rapporto tra programma e territorio. Ciò è probabilmente dovuto, tra le altre cose, alla mancata analisi di questo in relazione alla sua composizione, alla sua funzione all’interno del modo di produzione ed alle tensioni intrinseche che lo attraversano e significano.

Rileggere, sotto la luce di questo limite, l’esperienza dei “Quaderni del Territorio” permette di reimpostare il problema e tracciare nuove linee di azione.
Emersi in seno all’onda lunga dell’operaismo, tra urbanisti, architetti e geografi, attivi dal ‘76 al ‘79 (salvo una ricomparsa nel 1981) e terminati sotto l’opera di repressione statale, con la scure dell’Inchiesta 7 Aprile, mettono al centro dell’indagine il Territorio come risultante della lotta di classe.
Il metodo di lavoro è quello di calare il sapere specifico delle discipline all’interno della conoscenza prodotta dalle lotte, agendo fianco a fianco tra operai e ricercatori, per sviluppare una concezione del territorio che, uscendo dall’accademia, si ponga come strumento operativo nelle mani di chi opera fratture rivoluzionarie nel presente.
È un metodo che non solo rivoluziona il rapporto tra disciplina e oggetto, ma che agendo nella carne viva, conquista capacità di previsione sugli scenari in mutamento e anticipa tendenze che oggi ritroviamo come quotidianità assodata.
Ogni territorio, nello schema del modo di produzione capitalista, ha un suo ruolo assegnatogli, da cui si ricava estrazione di valore e capacità di controllo della popolazione; non è elemento neutro né tantomeno naturale.
D’altro canto è un luogo dove operano e vivono soggetti sociali, che interagiscono con questo secondo le proprie priorità e interessi. Anche qui la neutralità viene espunta, un quartiere dormitorio, nelle mani di una collettività in lotta viene trasformato nel suo uso e nei suoi significati; è il controutilizzo che ne fa la classe a determinare la sua fisionomia; così come è la risposta della classe dominante a rimodularne a sua volta i contorni secondo le esigenze dello scontro, in una sorta di dama cinese del conflitto.

Vale la pena sottolineare qui come nell’indagine dei QdT, ci si trovi davanti alla ristrutturazione capitalista seguita al ciclo delle lotte operaie ed alla crisi petrolifera del ‘73: le esigenze del comando necessitano di un aggiornamento che si concretizza nella polverizzazione della catena produttiva, con conseguente dispersione della figura operaia ed il tramonto della sua capacità offensiva, e con l’integrazione delle produzioni in un meccanismo di scala globale, ovvero l’inizio della globalizzazione e la riconversione di interi territori secondo le necessità di specializzazione produttiva della nuova industria.
È qui che, d’innanzi alla fine della centralità operaia come motore della lotta di classe, il territorio sembra indicare un fattore di ricomposizione grazie a quello spettro di lotte per la casa, per le utenze, i consumi o la socializzazione, in grado di dare corpo alla proposta dell’operaio sociale, figura ambivalente che, da un lato, sembra cogliere l’essenza dei comportamenti e delle pratiche dei giovani proletari fuori dalla fabbrica, con l’emergere della terziarizzazione e della precarietà quale conditio sine qua non del mercato lavoro, dall’altro intuizione teorica la cui genericità finisce per spiegare tutto e quindi comprendere nulla all’interno di maglie troppo larghe.

Quest’aspetto dei QdT è proprio quello che pare essere di maggiore attualità: il suo vivere ed operare all’interno di una crisi profonda che costringe i suoi animatori a dotarsi di strumenti e lenti d’osservazione in grado di elevarsi al di sopra del caos della cronaca e dei mutamenti, per cogliere le tendenze in atto e le trasformazioni di lungo periodo, quelle in nuce, non immediatamente tangibili ma destinate a occupare il centro della scena. Così è stato per le tante anticipazioni colte da questa rivista, così dev’essere oggi per un’intelligenza collettiva alle prese con un passaggio di epoca.
La pandemia, la crisi ambientale, il mondo multipolare, l’impazzimento della globalizzazione, sono tutti volti attuali e temporanei della antica catastrofe che caratterizza da sempre i passaggi da un mondo ad un altro. E non esiste alcun piano preordinato che delinei la strada, il capitale è un rapporto sociale e sotto la sua presunta razionalità si nasconde una bolgia impazzita di interessi divergenti e contrapposti che sgomitano per primeggiare.
Il mutamento lo decidono i rapporti tra le forze in campo nel frangente della battaglia, molto più che le pianificazioni dei generali.

Sotto i nostri occhi i territori mutano di nuovo ed in profondità, secondo gli interessi del dominante, e non riusciamo a vedere dove risieda la classe operaia, l’altro polo del mutamento dialettico.
Quale sia l’impatto dei piani di rinascita, o della conversione verde nella trasformazione sociale e geografica, quali possibili energie di conflitto possano sprigionare non lo sappiamo ancora prevedere, eppure preme con urgenza sulle spalle.
La tensione alla guerra civile, altra faccia del declino della razionalità occidentale democratica, mette in campo forme e soggetti della politica con cui fatichiamo a trovare ponti, e lo Stato appronta misure di contenimento del conflitto sociale in maniera talmente preventiva da apparire ingiustificata, talmente profonda da farci interrogare sui margini residui dell’azione antagonista.
Si fatica a guidare la nave nella tempesta, probabilmente perché guardiamo sempre al fenomeno, ma quasi mai alla sua radice, o alla sua prospettiva. Come per il green pass, dove tutti sembrano impazziti e pare di assistere a una gigantesca discussione tra sordomuti.
Ripescare il lavoro e l’incompiuto dei “Quaderni del Territorio” non è solo una possibilità di ripensare un’azione politica sul territorio, che esuli dalle semplici coordinate topografiche, per essere applicazione pragmatica di un’analisi politica, scientifica e scevra di ideologismi. Ma è soprattutto esercizio alla prospettiva, invito a riprendere dimestichezza con gli strumenti dell’analisi e dell’inchiesta per levarsi sopra il mare ottuso della cronaca ed avvistare le coste della prospettiva.
Altrimenti, in questi venti di burrasca, a furia di navigare a vista, si finisce per crepare tutti di fame sulla nave prima ancora di colare a picco.

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