di Gioacchino Toni

Massimiliano Studer, a cui si deve un’appassionante indagine su Too Much Johnson, il “film perduto” di Orson Welles [su Il Pickwick] che si credeva andato a fuoco, si confronta nuovamente con il grande regista statunitense nel suo nuovo libro da oggi in libreria – Massimiliano Studer, Orson Welles e la New Hollywood. Il caso di The Other Side of the Wind (Mimesis 2021) –, investigando su di una sua opera cinematografica incompiuta che ha inaspettatamente visto la luce nel 2018 grazie all’opera di montaggio portata a termine da Bob Murawski (distribuzione Netflix).

Scrive Studer nell’introduzione che tale film è da considerarsi innanzitutto «una critica caustica alla New Hollywood, al suo stile, ai suoi personaggi tipici, ai suoi contenuti e ai suoi inevitabili cliché. Una critica molto dura, spietata, talvolta anche violenta, che ci viene incontro nella forma della “citazione”, estremizzata fino al parossismo, delle movenze del nuovo cinema dell’epoca: la centralità della sessualità “liberata”, il montaggio destrutturato e ipercinetico, il confronto tra generazioni, il rampantismo dei giovani produttori e registi» (p. 17).

Dunque, Welles contro la New Hollywood. Quali motivazioni portarono il regista a prendersela con quel cinema statunitense che si voleva anticonformista e come tale del resto è stato percepito anche successivamente?

Al fine di rispondere a tale interrogativo, lo studioso ricostruisce puntualmente la storia del progetto The Other Side of the Wind a partire da diversi documenti – lettere, contratti, memoriali, sceneggiature e appunti – in parte di provenienza italiana, verificando la genesi di tale ostilità. Successivamente Studer si preoccupa di analizzare l’opera nell’edizione portata a compimento nel 2018, opera complessa sia per la sua caratteristica metafilmica che, come spesso avviene nei film di Welles, per l’adozione di un tipo di immagine che si presta a diverse interpretazioni.

Orson Welles ha iniziato a pensare al film sin dal lontano 1937, dunque ben da prima dell’avvento della New Hollywood; soltanto strada facendo l’opera ha finito per divenire un atto d’accusa nei confronti di questa cinematografia che, in fin dei conti, ha salvato Hollywood dal baratro.

Il volume si apre ricostruendo il clima e i rapporti da cui nasce in origine il progetto, a partire dai legami intrattenuti dal regista con Ernest Hemingway e con la Spagna in un preciso contesto storico-politico segnato dalla guerra civile e dall’esperienza del Fronte Popolare che coinvolge numerosi artisti e intellettuali statunitensi genericamente progressisti o di simpatie comuniste. Successivamente Studer passa a indagare i motivi dell’abbandono del progetto, dunque a ricostruire l’incubazione e la nascita del fenomeno New Hollywood.

A metà degli anni Sessanta il sistema produttivo hollywoodiano mostra di essere ormai alle corde; i dati provenienti dagli incassi nelle sale cinematografiche si fanno impietosi, il Sistema-Hollywood così come è strutturato a quelle date si rivela incapace di soddisfare le nuove generazioni. Orson Welles, nota Studer, si rende perfettamente conto del cambiamento in atto, tanto da tentare una collaborazione, rivelatasi però fallimentare, con Bert Schneider, il produttore di Easy Rider (1969) diretto da Dennis Hopper.

È a questo punto che il regista decide di riprendere una sua vecchia sceneggiatura – The Sacred Monsters – pensando di poterla adattare al nuovo contesto culturale e produttivo della New Hollywood. Nell’estate del 1970 il regista inizia le riprese di The Other Side of the Wind avvalendosi della collaborazione di giovani leve del nuovo cinema statunitense e pensando di adottare modalità tipiche del prodotto indipendente a basso budget.

Il set di The Other Side of the Wind, sin dal primo giorno di riprese […] si era trasformato in un luogo di lavoro dove le due generazioni, accomunate da un atteggiamento ribelle e antisistema, avevano colto l’occasione per confrontarsi e dialogare tra loro. Welles, infatti, aveva intuito che il suo percorso artistico avesse delle analogie con quello della generazione della cosiddetta Easy Rider era. Sin dai primi contatti con questi giovani registi, però, aveva anche capito che la loro consapevolezza sui rischi di essere inglobati dal sistema per essere poi utilizzati al fine di recuperare il terreno economico perduto negli anni Sessanta era davvero inconsistente. In altre parole, il rischio che i giovani e talentuosi registi con le loro opere, piene di novità e capaci di attrarre un vasto pubblico potessero “rafforzare la validità del sistema” era ben presente nella mente di Welles. Non è un caso, infatti, che tutte le nuove leve della New Hollywood, con alcune eccezioni come quelle di John Cassavetes e Terence Malick, sarebbero diventate, nell’arco di poco tempo, parte integrante del sistema produttivo hollywoodiano, pilastro imprescindibile dell’industria culturale. Una struttura sempre pronta a fagocitare e a sfruttare a proprio vantaggio qualsiasi elemento di novità, soprattutto se capace di incarnare un elemento di discontinuità con i parametri estetici, sociali e culturali precedenti. E probabilmente questa è la vera e corretta chiave di lettura delle motivazioni che spinsero Welles a intraprendere il progetto di The Other Side of the Wind. Mostrare come stava cambiando pelle il mondo del cinema statunitense con l’arrivo di giovani produttori e cineasti, molto determinati e arrivisti, era indubbiamente per Welles uno degli obiettivi più importanti a cui mirava con il suo nuovo progetto cinematografico (pp. 172-173).

Pare che sia stato proprio un incontro nel 1970 con Dennis Hopper, tra i cineasti più rappresentativi della New Hollywood, a compromettere i rapporti di Welles con la nuova ondata hollywoodiana tanto da indurlo a mettere alla berlina nel suo The Other Side of the Wind alcune sue figure di spicco come Robert Evans – il produttore di The Godfather (1972) diretto da Francis Ford Coppola – tratteggiandolo come un giovane produttore in realtà conservatore nei confronti delle proposte più innovative del vecchio regista protagonista del film.

Dopo aver tentato di produrre il film autonomamente, la decisione di avvalersi di attori di fama induce Welles a intraprendere rapporti con finanziatori iraniani, salvo poi andare incontro a infinite controversie legali. Di certo a rendere le cose ancora più complesse concorrono la forte personalità e lo stile di lavoro del regista votato a un’autonomia creativa assoluta che mal si concilia con i tempi di lavoro imposti dalla produzione.

Nella parte finale del volume Studer affronta la versione montata da Bob Murawski di The Other Side Of The Wind comparandola con i 42 minuti montati direttamente da Welles e con le indicazioni presenti nella documentazione rintracciata negli archivi verificando così l’aderenza del lavoro di Murawski con gli obiettivi e con la poetica del regista. Studer ragiona dunque sulla possibilità o meno di vedere in The Other Side of the Wind del 2018 un’opera di Welles, dunque di poterla considerare parte della sua filmografia ufficiale. Per sapere come stanno le cose secondo Studer, non resta che leggersi i suo libro-indagine nel suo dipanarsi con le caratteristiche di un noir capace di svelare un contesto ben più ampio rispetto ai fatti, al film, in sé.