di Antonio Gatti

Dario Borso, Ostaggi d’Italia. Tre viaggi obbligati nella storia, Exòrma, Roma, 2021, pp. 227, € 15,50.

Ostaggi d’Italia. Sin dal titolo che evoca la costrizione, il vincolo non voluto, si disvela uno dei punti cardine dell’opera di Dario Borso: l’annichilimento della volontà, la riduzione dell’umanità attraverso la esperienze della sconfitta, della cattura nelle mani di un nemico che sembra avere, nelle testimonianze dei tre soldati veneti qui raccolte, più le caratteristiche di un fato inesorabile che non i contorni di una creatura simile che si trova semplicemente dall’altra parte della barricata.

Il sottotitolo – Tre viaggi obbligati nella storia. – è parimenti rivelatore: i protagonisti si trovano immersi nella storia, le loro testimonianze sono oggi preziosi squarci nella coltre del tempo, ma essi non intraprendono questi viaggi spontaneamente bensì sotto costrizione, prima della loro patria e poi del nemico che li ha presi in ostaggio. Le loro preoccupazioni sono legate alla sopravvivenza; avere salva la ghirba , come dice uno di loro, la fame, la sete, la lontananza da casa.

E’ un viaggio obbligato anche per noi lettori, che ci ricorda quanto i grandi eventi della storia, specie quella militare, siano edifici composti da molti piccoli mattoni: quei mattoni sono le emozioni, gli istinti, le esigenze dei soldati che sono diretti da quei grandi eventi che in qualche modo a loro volta dirigono.

Nell’opera sono raccolte le testimonianze di tre soldati che hanno vissuto tre sconfitte-simbolo della storia militare italiana; tre sconfitte che, per alcuni versi, ancora sono presenti nel sistema nervoso e spirituale più profondo del paese: Adua, Caporetto e l’8 settembre. Ad Adua, un esercito europeo viene travolto e sconfitto da forze armate africane, evento che getterà profonda impressione in tutta Europa, fino alla Russia di Tolstoj; a Caporetto, tre anni di guerra sanguinosa, con avanzamenti minimi pagati a carissimo prezzo vengono annullati dalla offensiva dei Germanico, come li chiama il narratore; l’8 settembre con la vergognosa fuga delle autorità e l’abbandono dell’esercito, è il peccato originale dell’Italia moderna. Questi eventi sono narrati dal punto di vista dei tre protagonisti: soldato semplice Marco Callegari, granatiere Giuseppe Giuriati, marinaio Figallo (soprannome di Luigi Pavanello), tutti e tre veneti.

La paziente trascrizione che Borso fa delle tre autobiografie non è integralmente basata sugli originali e non è la prima: il trevigiano Giovanni Comisso, soldato, legionario dannunziano a Fiume, scrittore e saggista prolifico, anima profondamente novecentesca con le sue contraddizioni e i suoi tormenti, pubblicò per primo le autobiografie dei tre protagonisti, riscrivendo quelle parole, frasi, espressioni contadine in un italiano colto, aggiungendo e tagliando a piacimento, permeando del suo spirito e della sua epoca quei ricordi. Il dialogo tra Borso, Comisso e i tre militari non è il minore interesse del libro: epoche, uomini e culture diverse che si guardano, si scrutano e si interrogano a vicenda; ognuno cerca delle risposte nel testo dell’altro e questo aspetto è sicuramente molto affascinante. La personalità di Comisso è dominante, cerca di piegare a sé i testi dei tre soldati, mentre Borso si impegna in una difficile, preziosa opera di ricostruzione parziale degli originali.

Dal punto di vista letterario, il volume è prezioso come può esserlo un tentativo di abbracciare la Storia senza subirla passivamente, ma entrando in comunicazione dialettica con essa. Il racconto africano di Callegari è fascinoso, a tratti asciutto, la preoccupazione dell’autore è pratica: come mangiare, come tornare a casa. Borso impreziosisce il tutto con la personalità prorompente di Comisso e sui suoi contatti con l’Africa, regalandoci brani di grande suggestione come questo:

miscuglio di razze difficile a trovarsi altrove. Abissini, Dancali, Yemeniti, Berberi, Somali, Ebrei, Arabi di passaggio per andare alla Mecca […]. Fermento di razze, fermento di colori, profumi e puzze: strade delle città africane per le quali ci resta poi per sempre un desiderio di ritorno!

Desiderio di ritorno: come se Comisso volesse in qualche modo correggere e raffinare il contatto di Callegari con il Continente Nero e il suo desiderio opposto, di levare le tende e tornare in Italia!

Il secondo diario, quello di Giuriati a Caporetto, è quello dove più intensamente si vede la meticolosa ricostruzione degli originali da parte di Borso: l’italiano povero e sgrammaticato di Giuriati rende incredibilmente viva l’esperienza infernale di Caporetto, le marce tra le fiamme, sotto l’acqua, affamati, bersagliati da fuoco amico e nemico, gli ordini che vengono contraddetti subito dopo, la cattura, la prigionia e le lacrime all’annuncio dell’armistizio.

Infine Figallo, l’unico dei tre conosciuto personalmente da Comisso, con la sua chitarra e le sue interessate osservazioni sulle generose forme delle tenentesse russe; con lui il confine tra Storia e ricostruzione di Comisso si fa sempre più labile, fino quasi a sparire, facendo di Figallo una sorta di modello ideale di vita avventurosa che sicuramente lavorava sulla fantasia del nostro scrittore trevigiano.

Dal punto di vista storico, l’interesse per l’opera di Borso non è minore. La letteratura militare, specialmente negli ultimi decenni, ha certamente riscoperto una vasta letteratura di racconti bellici “dal basso” riscoprendo piccoli capolavori come Co.Aytch di Sam R. Watkins, o Boschetto 125 di Ernst Jünger. La storiografia della prima guerra mondiale, in particolare, è stata impreziosita da una serie di pubblicazioni di memorie, diari, sulla guerra vista dal basso. L’opera curata da Borso si immette in questo filone, ma allo stesso tempo se ne distingue: racconta la sconfitta, racconta non tanto o non solo gli orrori, ma anche l’eroismo spontaneo delle unghie e dei denti, popolano, che affascina e parimenti repelle lo storico Comisso, la cui quintessenza dell’eroismo era più aristocratica, fiumana. Lo storico può desumere dall’opera due cose, a mio avviso: l’atteggiamento di un popolo preso “in ostaggio” dalle avventure militari del proprio paese, ma drammaticamente staccato da esse, un popolo che può sfoggiare un eroismo primordiale, quasi atavico, fatto di espedienti anche ingegnosi e del coraggio di non accettare la sconfitta come parola definitiva della propria esperienza umana; e anche l’interpretazione che storici successivi possono dare di questi ricordi, personalità forti come Comisso e Borso infatti si misurano a loro volta con i testi che cercano di ricostruire, o di riscrivere.

Considerando i pregi del volume, concluderei che questo viaggio nella storia è davvero obbligato.