di Paolo Lago

La prima volta che vidi Lemuel fu davanti alla sua distilleria di birra artigianale del Monte Aminta. Era un gigante, la sua stazza riempiva quasi completamente il piccolo spazio con i pochi tavolini collocati davanti all’ingresso dell’azienda produttrice della “Birraminta”, sulla strada provinciale di Casteldelforte. Gigante lo era davvero ed era anche un gran bevitore di quel nettare che egli stesso, insieme ad altri audaci monteamintini, produceva. Era una serata particolarmente scura, d’inizio autunno: gli abitanti di Casteldelforte e di Arcicunetta se ne stavano tutti rintanati nelle loro case segaligne e petrose, la strada era semideserta. Il suo eremo, Lemuel lo aveva però quasi a metà monte; all’azienda ci veniva solo per lavoro. Il gigante del bosco, come lo chiamavano i monteamintini, era un gran lavoratore. Tutti i giorni alle cinque, fumando un sigaro toscanaccio, prendeva il suo fuoristrada per recarsi alla distilleria. Ora eravamo lì, in silenzio, lui si fumava il suo sigaro e io assaporavo un tabacco old canin blue, della Jefferson of Ireland, in una pipa oblunga e allungata, che un tempo i secessionisti lucchesi fumavano. A quel punto non avevamo dubbi: la Tinabro dal piglio scuro e potente, wine beer del Nord, era forse la sua migliore produzione. Sorseggiavamo in silenzio schioccando la lingua. Sennonché, verso le ventidue, Lemuel mi disse che doveva partire. E per dove, gli chiesi? Per il tuo eremo meraviglioso e meravigliato della solitudine di quegli uomini segaligni e forzuti? Grandi tagliatori di legna e di scorribande con paste alla carbonara, nel bosco, al calar del sole. No – egli disse austero, dall’alto dei suoi due metri e venti – no, disse – ora debbo recarmi a Citorno.

Che cos’era questa Citorno? Una città – mi spiegò – alquanto lontana, sulla costa ovest, dove possedeva una rivendita del suo nettare monteamintino, la Artigianal Fake. La Artigianal Fake? – dissi – mai sentita nominare. “Come” – scattarono all’unisono i lavoratori della distilleria, che a un tavolo vicino stavano godendosi una birra al faggio – “non la conosci”? Uno di loro, Ginio detto Geronimo (dall’urlo indianesco col quale iniziava la giornata), con l’occhio rapace e la mente pervicace, mi disse che dovevo assolutamente vedere la Artigianal Fake. Ginio si alzò, venne verso di me (debbo dire che un po’ mi inquietai, non era un tipo tranquillo e i vari coltelli neri di cuoio ammantato che portava al cinturone non mi incutevano buona speranza) e alzando un dito contro di me disse che dovevo assolutamente recarmi a Citorno. “Io veramente” – dissi – “carissimo Ginio, domattina debbo alzarmi presto perché alle otto ho lezione nella scuolina di Casteldelforte, ove quest’anno mi hanno sbattuto a insegnare grammatica e insalate di matematica, nonché la storia dell’omo primitivo” – ma niente, niente di niente, non ci fu verso, e allora quasi quasi mi decisi a partire anch’io per Citorno, e mi risolsi ad accompagnare Lemuel.

Lui fu proprio contento di avermi con sé per il viaggio di quella notte: mi terrai compagnia lungo la strada, disse. E così partimmo sul suo camion Macchi del 1970. Un bestione mugolante. Dovevamo portare fusti di birra e sacchi di noccioline all’Artigianal Fake. Ma che sorpresa fu la mia, quando entrammo in cabina: il posto di guida del camion era un vero salotto; non si può dire che Lemuel non avesse pensato a tutto. Era grandissimo e spazioso; il sedile era largo, adatto a un uomo della sua stazza, e tutt’intorno vi erano distributori a rubinetto di almeno sei tipi di birre e contenitori di noccioline e messicani nachos, che Lemuel insaporiva con salsa piccante di pimientos mentre guidava il suo bestione. Anche il posto del passeggero era comodissimo, sembrava di stare in un salotto inglese del Settecento. In questo Lemuel era illuminista.

Finalmente, verso l’una di notte, giungemmo a Citorno. Il vecchio Macchi si infilò in strade che costeggiavano le banchine portuali dalle quali si alzava una fitta nebbia grigio-cenere e si potevano udire distintamente i suoni delle sirene delle navi. Guardando dalla parte del mare si vedevano le murate dei bastimenti ormeggiati che emergevano dalla nebbia e parevano confondersi con i vecchi palazzi del porto. Le strade erano strette e il vecchio bestione, in alcuni punti, passava a fatica. Nonostante fosse tardi, in giro, vi erano ancora diverse persone che camminavano e si accoccolavano alle porte delle taverne. A passo d’uomo attraversammo Desolation Row e Lemuel riconobbe una sua vecchia conoscenza, il capitano d’Arce, appoggiato alla porta della sua vecchia casa, a fumare la sua pipa di legno. Poco più in là si aggirava in oscuri traffici Marcantonia Zoe, la contrabbandiera di sigarette, la nanerottola che nella notte portuale sempre trotterellava nelle tenebre, insieme ai suoi gatti. Abbandonata la zona del porto, Citorno ci avvolse nelle sue strade di cemento e di luce: di fronte a noi, abituati alla montagna e alla solitudine, si aprì uno spettacolo inconsueto. Macchine luminose si incolonnavano davanti e dietro a noi, mentre veicoli a due ruote sfrecciavano volando in lattiginose scie, emettendo bave giallastre di fumi maleodoranti. Palazzi biancastri si ergevano come muri altissimi da una parte all’altra della strada, ma il bianco delle loro facciate era inesorabilmente ricoperto di una patina oscura, abbarbicata sulle lastre e sulle finestre, intrise di essa, una patina che inquietava il nostro occhio abituato alla pietra delle case montane. Quelle strade del centro sembravano non conoscere requie: la città inondava di luce e di movimento incessante ogni suo minimo spazio in qualunque ora del giorno o della notte. I velocipedi rumorosi emettevano anche musiche rimbombanti e le stesse sonorità emergevano dalle cabine dei mezzi a quattro ruote che incespicavano nella luce e nel caos. Striature di lampade oblunghe ne circondavano le fiancate e parevano sollevarsi su una gigantesca nuvola di smog, una cappa che come un mantello avvolgeva ogni muro e palazzo del centro.

Fra palazzi abbacinati e giganteschi, ci infilammo in una strada laterale più stretta e giungemmo davanti alla Artigianal Fake. Era una rivendita di “Birraminta”, la birra del Monte Aminta (e noi venivamo proprio di là!) con delle panche e un tendone. Lemuel scese e si avviò verso il bancone. Salutò i suoi amici gestori, due simpatici citornesi, e mi invitò a sedermi fuori con lui. Era quasi l’orario di chiusura e rimanevano pochi avventori. Fra questi vi era un marinaio antillano che sorseggiava un whisky con ghiaccio, perduto nei suoi lontani amori strazianti. Non ci degnò nemmeno di uno sguardo. E passarono delle cantrici nottune, dagli occhi d’ebano e dai capelli neri. E nella notte brancolante, un manto di velluto sulle nostre teste stanche, non perdeteci vi prego in questa notte, dolci amanti della selva lontana, lasciateci qui a sorseggiare e sognare, iridescenti medusee fronti di alabarde fanciullesche, inani creature di notti passate, desideri di arcobaleni violacei, basta, non tormentateci. Lemuel, in disparte, stanco del viaggio, pensava al suo Monte Aminta così lontano: pensava alla dolcezza del caminetto acceso, del suo sigarazzo che lo attendeva, e dei fusti di Tinabro che conservava per uso personale. Io pensavo che sarei mancato alla lezione di domani, mentre mangiavo una nocciolina dietro l’altra. Pipponte, il mastodontico gestore della Artigianal, scaricava fusti e noccioline dal camion. Un avventore, di nome Heinrich von Am-Burger, stava ora giungendo in sella a un velocipede nero, quasi volando, e si sedette a un tavolo vicino, parlando a spada tratta con l’altro gestore. La notte incombeva, Lemuel era stanco e io, alla fine, forse contento, guardando gli altissimi muri dei palazzi mi addormentai con la voce martellante di Heinrich nelle orecchie.

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