di Paolo Lago

Era già quasi una settimana che con i miei amici Gordiano e Betta stavo girando da una spiaggia all’altra della Pallazia quando, dopo l’ennesimo colpo di sole che mi aggredì, nonostante la crema di protezione tedesca con cui quotidianamente mi spalmavo, ci dirigemmo verso il paesino di Palle, in collina, abbastanza lontano dalla affollatissima costa. Eravamo stremati e ci sedemmo al tavolino di un bar all’ingresso del paese. Qui conoscemmo un tipo alquanto singolare: dalla pelle rossa, quasi fluorescente – dal sole che aveva preso, poiché era di carnagione molto chiara – era forse alto un metro e novanta e gigantesco di stazza. Si avvicinò, incuriosito dal colore della mia pelle, quasi simile alla sua, e facemmo conoscenza. Si trattava dell’esimio studioso e scrittore irlandese Bram Poker, così chiamato dal suo gioco di carte preferito. Egli era altresì un appassionato di occultismo e magia e da anni, ormai, batteva con la sua R4 ogni centimetro quadrato dell’Europa centrale alla ricerca di quello che – diceva – sarebbe stata una vera rivelazione per la scienza dell’occulto.

Dopo due o tre aperitivi Poker era già sbronzo e, praticamente, dal bar ci recammo subito in un ristorante locale la cui specialità erano i famigerati totani fritti della Pallazia. Ci sedemmo all’aperto, sotto una gradevolissima pergola dalla quale pendevano grandi mazzi di aglio; dal nostro tavolo, potevamo vedere il paesino di Palle, arroccato sulla cima di una collina: il colore delle case antiche era di un grigio tetro e, dal suo centro, svettava un campanile acuminato verso lo spazio del cielo. Ma ciò che più colpiva in Palle era la merlatura di un castello che si ergeva, al lato sud del paese, come un quieto signore che offriva protezione ed anche inquietudine. Dopo aver ordinato un doppio whisky come ennesimo aperitivo e acceso la sua lunga pipa di radica scura, Poker si rivolse a noi dicendo: “guardate, luk, tuto qesto allio apeso a pergola de restaurant non du iu tink is strenger?” Noi ci guardammo stupiti e rispondemmo che no, davvero non ci sembrava strano. Anzi, Betta disse che doveva essere un efficace rimedio locale contro le zanzare che infestavano la Pallazia. “No, non per zansare” – disse sottovoce Poker – “ma per vampair, vampirone, come dire voi?” “Lo zampirone!” disse Gordiano, pensando che Bram si riferisse ad uno dei più infestanti rimedi contro le zanzare. “No zampirone!” – disse Poker – “vampirone, vampiro, così voi dite in italiano!” “Vampiro???” dicemmo all’unisono, stupiti, tutti e tre. “Certo, vampiro! Io da ani e ani sto girando centro Iurop per luk for vampiro! E mai pensai di trovare qui in Palazia, vicino a mare! Ho setaciato Transilvenia, Stiria, Cecoslovakia, e i Balkani, i Carpazzi, i monti Tatra, perfino vostre Alpi, Black Forest, zone più selvage di vostro continente! Ma qui, questo allio, garlic, is la prova che cercavo!”. “Perché proprio l’aglio?” dissi allora stupito. “Perché secondo mii stadis, allio è mellio antidoto contro vampiro! In questo paese essere castelo, quindi in castelo può essere vampiro!”.

Io, Gordiano e Betta ci guardammo come per dire che il povero Bram aveva ormai lasciato a sciogliere il proprio cervello al sole della Pallazia, e ordinammo tutti una tripla porzione di totani fritti e abbondante vino bianco. Dopo cena, la locandiera ci offrì una grappa a novanta gradi, ottima per digerire i succulenti totani anche se avevamo sempre con noi, per i casi più disperati, una abbondante scorta di bicarbonato. Bram, sorseggiando la sua grappa, chiese alla locandiera: “perche essere qui allio?” La locandiera, a questa domanda, non rispose, anzi, farfugliò qualcosa dicendo che non dovevamo avvicinarci al castello allo scoccare della mezzanotte.

Uscimmo quindi dal ristorante e ci dirigemmo verso il paese. Non appena varcammo le mura una sensazione piacevole di antichità ci avvolse e ci accompagnò per tutto il tempo che rimanemmo nel centro storico: vicoli antichi e stretti, in salita, fra muri di pietra dietro ai quali si aprivano bellissimi giardini, palazzi vetusti ma non cadenti, abbastanza curati, abitanti silenziosi e piacevoli. Intanto, però, il tempo stava cambiando: dai Balcani stava arrivando un forte temporale, con tuoni e fulmini che si intravedevano in lontananza e che lentamente giunsero esattamente sopra il paese di Palle. Il castello era veramente stupendo: una architettura veneziana forse costruita a suon di eterei violini e una sinuosa struttura con finestre bifore e trifore che sovrastavano il valico delle mura e una svettante torre fregiata di un antico orologio. Esso era nato dal sogno di un folle signore lagunare che, forse intristito per le solitudini acquoree dei sui palagi inorgogliti e incancreniti dai canali assassini di pietra, si era costruito una dimora in Pallazia, all’epoca dominio della Repubblica di Venezia. Inorgoglito e intristito, lì pure era passato il Casanova, gran seduttore e uomo di mondo e di grande ingegno, che sedusse la figlia di quel veneto signore e con sé la condusse nelle corti teutoniche. E vissero insieme in una dolce follia di naufragio d’amore, egli, sempre costretto dalla sua arte amatoria a ricercare il dolce veleno di altri amori, di altre dolcezze inusitate e perdute, nuche di fanciulle dallo sguardo di viola, dagli occhi di ametista e dalla pelle color della luna; ella, bella come la luna, ormai innamorata del Casanova, orgogliosa e mai pentita del suo amore, sedeva superba nella teutonica corte fra damigelle d’onore e giullari giocosi.

All’improvviso – mancava poco alla mezzanotte – un vero e proprio temporale si scatenò su Palle: fulmini come elettriche croci sovrastavano il cielo, lampi di fucine lontane si inorgoglivano sopra il manto di stelle e la luna si coprì, fuggì dal cielo per il dolore del tuono, rimbombo d’Oceano sopra le nostre teste e cupo, evanescente dardo scagliato dalle divinità irate. Tutti gli abitanti e i pochi turisti fuggirono in ogni direzione, dileguandosi in pochi attimi. Rimanemmo sotto un porticato solo noi quattro a guardare cadere la pioggia, desiderosi di refrigerio dopo il caldo asfissiante del mare. Bram Poker era sempre più incuriosito e attratto dal castello. L’orologio batté la mezzanotte e il temporale era al suo culmine: cateratte di acqua si abbattevano ormai sul paese e i fulmini sembravano convergere verso il torrione principale del castello, per celebrare congreghe di demoni atri e di lupi, di streghe dallo sguardo di lancinante malizia e incontenibile astio. Ma quale fu la nostra sorpresa quando vedemmo aprirsi il portone del castello ed uscire, sotto la pioggia, un omuncolo con un lungo mantello nero e un naso appuntito! Egli era forse alto solo un metro e il mantello sembrava lungo almeno due metri, un enorme strascico tetro e funereo sulla pietra bagnata della strada. Si dirigeva triste verso l’uscita del paese, incurante della pioggia. Dopo pochi secondi egli tornò come volando su una scia di fuoco, emettendo un sonoro borborigmo dal suo deretano. Prima di entrare ci vide e, ormai zuppi di pioggia, la quale aveva invaso il portico dove ci eravamo rifugiati, ci invitò a entrare nel suo castello. Non vi era altra scelta, anche Poker disse di accettare l’invito, ed entrammo.

Ci ritrovammo in un salone immenso, dalle lunghe vetrate entrava il bagliore dei lampi e l’omuncolo col mantello accese una torcia al centro della sala. “Entrate liberamente e di vuostra spontanea vuolontà” – disse egli in un sussurro. “Ebbene, sapiate che vi truovate a cospetto di Bembo XXIV, signuore di questa valle, ciò!” Rimanemmo in silenzio ed egli aggiunse: “Ostregheta! Son stato victima di un sortilegio malvagio ordito da Camelia, la strega del paese. Ella mi trasformò in vampiro, condannato in etterno non a cibarsi di sangue ma di totani fricti! Oggni nocte sono condanato a uscire da mio castello per sacheggiare ristoranti di Palle! Essi credono che l’aglio riesca a tenermi lontano, ma non è così, l’aglio non mi fa una cippa! Essi hanno lecto tropi libbri di vampiri!” A queste parole, Poker quasi sveniva per la gioia, finalmente era riuscito a trovare ciò che cercava, anche se alquanto diverso da come se lo immaginava. Bembo XXIV, intanto, proseguì: “io sono il signore fondatore di questo castello: fuggii da Venezia a causa dei reumatismi e costruii qui il castello; mia figlia venne rapita da quel malidetto Casanova e mai più fece ritorno, zio can! E io venni malauguratamente colpito dal crudele sortilegio. Sono trecento anni e più, ormai, che vi son soctoposto”.

Bram, ormai al culmine della gioia, volle fare un patto col vampiro: si impegnava a rifornirlo di totani fritti, così non sarebbe stato più costretto a uscire a mezzanotte per rubarli ai ristoranti; in cambio chiese a Bembo di raccontargli dettagliatamente la sua storia per scrivere un romanzo su di lui. Il povero Bembo accettò di buon grado. Tutti e quattro, quella notte, non rifiutammo certo l’ospitalità al castello e fummo trattati dal signore veneziano con ogni riguardo.

Al mattino, io, Gordiano e Betta salutammo Bembo e Bram e ci rimettemmo in viaggio, decisi, per un po’, a stare lontano dal sole, dalle spiagge affollate e dai totani fritti. Anzi, regalammo a Bembo la nostra preziosa scorta di bicarbonato: egli ne avrebbe avuto sicuramente più bisogno di noi.

 

(nelle immagini, il paese di Valle in Croazia; foto dell’autore)

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