di Francesca Fiorentin

Giorgia Meriggi, La logica dei sommersi, Marco Saya, Milano, 2021, pp. 54, € 10,00.

Che ne sarà della nostra poesia, rimasta così vergognosamente indietro rispetto alla scienza?
O. Mandel’stam

in una conchiglia echeggia il grido di un pesce. È questo il suono dell’uomo che ama quando qualcuno se lo porta all’orecchio.
S. Dagerman

Il volume di poesia La Logica dei sommersi, edito da Marco Saya nel 2021, possiede la bellezza di una danza della luce sugli specchi, creata da molteplici effetti di rifrazione di diverse identità che appartengono all’invenzione poetica. Scontato è dire che la parola di Giorgia Meriggi è parola poetica nella pienezza del canone estetico bachtiniano, perché subito si presenta nitida la sua caratteristica di essere “staccata da ogni interazione con la parola altrui, da ogni sguardo sulla parola altrui” (M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi 2001, p. 93), generando in modo compiuto una propria lingua: la “lingua del poeta è la sua lingua, egli è interamente e indivisibilmente, usando ogni forma, ogni parola, ogni espressione secondo la loro destinazione diretta […], cioè come pura e immediata espressione del suo proposito” (ibid, p. 93). Monologicamente isolate, le parole sono tutte sottomesse alle intenzioni, servono il proposito della poeta e generano la sua lingua. La divisone dell’opera in tre parti è un cerchio nel quale si conclude una profonda riflessione sul mondo, a partire dal mondo dei sommersi.

Il titolo della prima parte, “Meditazioni sul mondo sommerso”, introduce subito un ordine assiologico partendo dall’origine più remota: i pesci, l’animale più lontano dalla specie umana, il più antico nella catena evolutiva che, come tale, contiene il luogo della diversità più radicale; contiene la prima spaccatura originatasi nel primordiale processo di evoluzione. È da questa traccia che bisogna partire per guardare l’umanità e il mondo: “L’animale che io sono mi guarda dalla stessa origine”. Come nel riaffiorare di un ricordo ancestrale, la poeta scrive: “Quando ero un altro animale, la luna era più vicina”. La luna era parte della terra, partecipe delle sue attività, animale anch’essa. Non erano nati né umani né dei, né litigi tra dei, né epopee di nascita di un dio e di un popolo, e quindi nemmeno guerre. L’unità indivisa dell’essere era lo zero primordiale:

Io credo nello zero
bianco e tondo come un uovo
ma vuoto
non mi fido dell’uno
magro e nero
col profilo severo
di chi vuol primeggiare.

Per questo di notte guardo il fiume
all’alba sono una biglia d’oro
che rotola dal parapetto
e cade nella bocca
di una carpa.

Tutto ha sempre origine
da un diluvio
e il salvataggio
a opera di un pesce.
Quindi torno nella mia forma
seduta su una panchina
con le foglie sotto i piedi,
non lo considero un prodigio.

Io
è un matrimonio
combinato
fra un breve tratto verticale
e il nulla circondato
da un capello.

Lo zero è l’origine indistinta da cui non sorge una dimensione verticale e orizzontale; è il ventre del pesce che accolse il profeta Giona, prima che egli diventasse il profeta di una religione. L’Uno parmenideo conosceva già la divisione tra mondo vero (l’Essere) e illusione (cambiamento, Non-Essere). Le riflessioni sulla “logica” dei sommersi sono molte e, intrecciate nella parola poetica, acquistano una notevole suggestione intellettuale. Abbiamo di fronte a noi una filosofia che conosce bene l’attuale sapere scientifico (biologia e altre scienze). Riportiamo alcune di queste riflessioni. Non ci deve stupire che manchi l’associazione di idee classica dei pesci con la forma figurata del Cristo, perché è evidentemente data per scontata.

I pesci riconoscono la luna come una di loro; la luna è una macchia bianca di luce che “depone le uova nelle ninfee”. Il mare è un grande pesce per i pesci e le stelle sono esplosioni (ciò non è più assurdo di ciò che noi umani diciamo della luce, noi che non conosciamo nemmeno le leggi fisiche per cui essa ci dona la vista). Nel mare la luce corre più lenta, i fotoni non incontrano elettroni e atomi dell’aria, ma una resistenza forte come nell’attraversamento di uno spazio di elettroni negativi: dunque il mare è uno spazio di Dirac, e i pesci vivono forse in un’altra dimensione. Il mare è un uovo, una grande cellula vivente; una sfera indivisa non conosce amore, vento, turbamenti dell’anima. Di notte, osserva, sei come i pesci: non puoi distinguere quello che respiri, aria o acqua, non lo puoi sapere perché non puoi vederlo. Non ci sono domande per i pesci, non c’è incrinatura nella natura o nello spirito; nemmeno la capacità degli organi di distinguere il pericolo che è nell’amo, perché non possono pensare a un oltre esattamente come noi non possiamo pensare a un aldilà. Eppure, ci riconosciamo essere stati scimmie, per la loro somiglianza con noi, ma non essere stati pesci. La luna, massa che si staccò dalla terra, a lei cedette la maggior parte di acqua, permettendo la nascita della vita. Come una figlia che dà vita, diventò la vera madre, ma non pensò e non previde che era necessario anche lasciare un medicamento per i problemi umani, per quando gli umani sarebbero stati gli abitanti della terra. L’acqua entra nelle branchie dei pesci come messaggio dei pensieri di Dio, e dunque i pesci sono un chiasmo dei pensieri dell’acqua.

Ma diventare il primo anello dell’origine della specie significa poter cominciare tutto da capo in altre direzioni, migliori. Infatti, perché evolvere da pesce a uomo, se l’Apocalisse punirà l’uomo, colpendo innanzitutto la sua origine, le acque, attraverso la stella Assenzio?

Nella seconda parte del libro i pesci si trovano nella ipotetica situazione di una vita nel mondo umano. Questa parte si intitola “Quattro parentesi sull’Accettazione” e prefigura il difficile rapporto tra il sommerso e il mondo esterno; vi troviamo anche la narrazione della fine dello stato di quiete del loro essere, segnato dall’inizio dell’evoluzione. Stilisticamente troviamo delle spezzature del verso, come l’articolo o l’avverbio posto alla fine della riga e seguito da un a capo. Il tutto dà la sensazione di un evento innaturale, di una rottura di armonia sintattica. I pesci si trovano in un acquario, così da poter guardare da vicino il mondo e interagire con esso, ma non si accorgono della discontinuità spaziale e temporale col mondo esterno. “Accettati” in un acquario, si trovano nella difficile situazione dell’Accettazione: l’essere accettati in casa nel mondo, abitanti un elemento diverso dalle acque del mare. Ma la parola Accettazione si configura anche come l’iter più burocratico della vita: viene in mente l’Accettazione di un ospedale, la noia e il dover sottomettersi a un iter di sopravvivenza e guarigione, entrando in un luogo in cui si uscirà diversi. L’Accettazione è dunque un grande acquario dove i pesci devono stare zitti e aspettare il loro numero. Escono i numeri, con le lettere. La fantasia di Giorgia è certo memore di Dante. A tutti i pesci viene data la P, P come pesce senza nome individuale, certamente, e P di Peccatore come sulla fronte di Dante quando sale lungo il Purgatorio. Dunque i pesci devono liberarsi dei loro peccati, richiesta inaccettabile per la luna (anch’essa pesce, secondo i pesci, anch’essa dentro l’acquario). Ecco che allora la luna esce, scappando dall’acquario: tutti i pesci sono naturalmente distratti dal suo andare via e la guardano. A questo punto l’unità dei pesci con l’universo è rotta: ognuno ha pensieri diversi, sono ora individui che non comunicano più tra di loro come una volta, quando l’acqua era unità indivisa dal mondo esterno, e il mondo non esisteva autonomamente. Perché la luna, pesce luminoso, è balzata fuori. Persa l’idea di unità con la luna, è persa l’identità della specie e nasce la coscienza individuale. È guerra a questo punto, e con la guerra la speranza di essere sputati sulla Terra. Il salto evolutivo avviene e i pesci si trasformarono in rane.

La terza parte si intitola “Monologhi dalla manifattura”, ed è un monologo originale per almeno due fondamentali motivi. Innanzitutto presenta un rovesciamento tra un interlocutore che parla in prima persona e il soggetto in terza persona (Signorina Pesce Rosso). Nascono in questo modo tre voci : l’io in terza persona (la Signorina Pesce Rosso), il quale, proprio perché oggettivato dal mondo (interlocutore) e non esauribile in esso, crea lo spazio fantastico in vive il vero soggetto poetico, seconda voce, silenziosa naturalmente; e, terza voce, il mondo cioè l’interlocutore. L’io oggettivato è interpretato dall’interlocutore in maniera così sbrigativa, ironica e paradossale da creare lo spazio per l’io poetico, che è fantasia e libertà da ogni oggettivazione. Infatti l’io poetico, schiacciato o disintegrato tra la sua oggettivazione del mondo e mondo vero e proprio, brilla nel vuoto del contrasto con quelle due dimensioni. L’interlocutore, ambiguo e ambivalente, parla a volte a favore del mondo e altre volte a favore dell’io oggettivato (Signorina Pesce Rosso). Il monologo fa dunque parlare almeno tre voci. Per questo la poetica di Giorgia si apre a un genere definibile “misto”, dato che la forma del dialogo appartiene al romanzo. In questo troviamo un’interessante innovazione della poeta: aprire un varco tra il genere poetico e il romanzo, assorbendo quest’ultimo nella poesia. Non a caso qui non ci sono versi ma si tratta di prosa poetica.

A proposito della Signorina Pesce, in questa figura compare “l’immagine dello strambo” e “la forma dell’incomprensione” che è “un momento organizzatore quasi sempre quando si tratta di smascherare la cattiva convenzionalità. Questa convenzionalità smascherata – nella vita quotidiana, nella morale, nella politica, nell’arte, ecc. – di solito è raffigurata dal punto di vista di chi non partecipa ad essa e non la capisce” (ibid, p. 310)
Il mondo di oggi, chiamato Manifattura, è il mondo animato da uno spirito materialista e scientista; essenzialmente pratico e utilitarista, fa risalire l’anima alle condizioni fisiche del corpo; segnato da una concezione razionalistica e meccanicista della psiche, concepisce come termine dell’evoluzione la macchina artificiale. L’interlocutore possiede un moralismo che vuole convincere la Signorina Pesce Rosso dell’idea che tutto nasce dalla materia, così che lei possa mettersi l’anima in pace e non avere pensieri nocivi; ne coglie appieno il disagio, la mette in guardia perché, nell’ottica della Manifattura, evoluzione e progresso sono la stessa cosa. A cosa arriveremo dunque? Lo descrive l’interlocutore: l’evoluzione suprema sarà ridurre il corpo a particelle (del corpo bastano poche particelle e il resto è inutile) che si connettono telematicamente attraverso uno schermo. Se pensiamo la macchina del futuro come una relazione tra poche molecole del corpo necessarie a essere collegate con un supporto digitale si potrebbe dire che continueremo a pensare dopo la morte, ma come? si chiede l’interlocutore. In termini di alternanza di byte, 1 e 0…. È allora preferibile il corpo glorioso della resurrezione? “Difficile rinunciare a una qualche sostanza” – è scritto nel finale: e qui, chi dice questo? Le due voci (interlocutore, Signorina Pesce Rosso) parlano ora confondendosi. Difficile, impossibile dunque sostenere il materialismo come visione della vita. Il finto dialogo termina qui. L’interlocutore ha portato alle estreme conseguenze l’ideologia della manifattura e la sua visione intellettuale del mondo si è dimostrata insufficiente; è fallita. In questo fallimento le due voci (dell’interlocutore e della Signorina Pesce Rosso) convergono in una sola voce, d’accordo fra di loro. Invece la poesia dice, nella forma più bella:

La vera alternativa è persa: era la logica dei sommersi: – era – un tempo.