di Sandro Moiso

Franco La Cecla, Mente locale, con la prefazione di Paul K. Feyarebend, Eléuthera editrice, 2021, pp. 208, 16,00 euro

Chiunque si sia interessato alle vicende e alla storia dei movimenti di classe e delle loro resistenze al dominio capitalistico sulla società e sulla specie, prima o poi avrà sbattuto il naso nella figura di Georges Eugène Haussmann meglio noto come barone Haussmann, prefetto del dipartimento della Senna dal 23 giugno 1853 al 5 gennaio 1870 o, per semplificare, prefetto di Parigi al tempo del secondo impero.

E’ noto che in tale veste egli svolse anche la funzione di urbanista, imprimendo definitivamente la sua visione della città e delle sue funzioni nella struttura urbana della ville lumière così come tutti la conosciamo ormai da più di centocinquanta anni: i grand boulevard che la caratterizzano ancora oggi nella sua parte centrale sono infatti la conseguenza dello sventramento dei vecchi quartieri che Haussmann attuò all’interno di un più vasto piano di ristrutturazione urbana.

Già nel XVII secolo Parigi era stata oggetto di un vasto piano di riassetto urbanistico voluto da Jean-Baptiste Colbert, consigliere del Re Sole, che demolì le fortificazioni poste sulla riva destra della Senna per sostituirle con un ampio viale alberato «per un maggior decoro della città e per servire da passeggiata agli abitanti». Nell’Ottocento, però, quando la città iniziò ad essere interessata da un maggior afflusso di contadini, allettati dalla prospettiva di un salario sicuro nelle fabbriche e negli opifici della città, Parigi non era affatto pronta a fare i conti con una simile trasformazione, che comportò la costruzione di agglomerati edilizi, officine, ferrovie in modo congestionato, febbrile, quasi parossistico, che lasciò una traccia profonda nella vita materiale e morale del proletariato parigino.

In tale contesto il barone Haussmann operò un immenso e radicale ammodernamento urbanistico della capitale francese, portando alle estreme conseguenze l’esperienza precedente. Il Barone, infatti, sventrò il fitto tessuto dell’antica città medievale, perenne focolaio di epidemie e di insurrezioni, mediante la costruzione di nuove arterie stradali, rettilinee, ampie e alberate, che si snodano per 165 chilometri in tutta la capitale.

Attraverso tale trasformazione di Parigi Haussmann intendeva infatti impiegare e ingigantire gli enormi profitti dell’epoca e riorganizzare la rendita immobiliare parigina, spesso al limite della speculazione edilizia. Importante era anche la valenza politica e sociale dell’intero progetto, che mirava a conferire alla capitale un aspetto moderno e grandioso. Più significativo, dal punto di vista di classe, era il terzo scopo, legato a ragioni di pubblica sicurezza e di ordine pubblico. Haussmann vide nei boulevard un ottimo strumento per consentire il rapido ed efficace spostamento di truppe militari a Parigi in caso di insurrezione e, contestualmente, per impedire la costruzione di barricate, cosa che avveniva assai di frequente nello stretto labirinto di strade medievali.

Per più di un secolo si è interpretata quest’ultima scelta soltanto dal punto di vista militare e repressivo, mentre in realtà ben più importante si rivela oggi, soprattutto dopo la lettura della seconda edizione, ampliata e aggiornata del libro di Franco La Cecla, ri/pubblicata da Elèuthera, dal punto di vista del necessario sradicamento sociale e culturale richiesto dallo sviluppo industriale e capitalistico nei confronti dell’organizzazione territoriale delle classi lavoratrici e meno abbienti.

Più volte chi scrive, proprio sulle pagine di Carmilla, ha sottolineato l’importanza che una sorta di psico-geografia (intesa ben al di là della sua formulazione debordiana e situazionista) può rivestire nell’analisi del ruolo che i territori, grandi o piccoli non è qui importante, possono rivestire nella conservazione della memoria delle lotte e delle organizzazioni che queste si sono date dal basso nel tempo ai fini della permanenza di una conflittualità diffusa, residua o ampia non importa che sia, all’interno e intorno agli stessi. Lo si è detto per la Val di Susa oppure per la tradizione della resistenza occitana, solo per fare rapidamente due esempi facili da comprendere.

Il testo di La Cecla, senza neppure sfiorare gli esempi sin qui riportati, sviluppa magnificamente l’analisi dell’utilizzo della trasformazione urbanistica e territoriale per contrastare le resistenze, attive o possibili, proprio per il tramite della demolizione di ogni possibile orientamento spaziale o riferimento culturale, visivi o psichici che questi siano. Per intendere meglio il discorso fin qui fatto vale la pena di fare alcuni esempi tratti da Mente locale, a partire da quegli spazi “indigeni” studiati dagli antropologi.

Mary Douglas ha un aneddoto molto efficace a proposito di ciò che uno spazio nasconde:
«La natura dello spazio abitato è tale da non essere deducibile solo dai suoi aspetti fisici. Nel caso di resti archeologici, ad esempio, sono noti i casi di storiche cantonate a partire dalla sola evidenza architettonica. Morgan costruì una teoria su una cultura pueblo degli alti versanti dell’Ohio, i cui cortili spaziosi e le case strategicamente ben disegnate si sono rivelati in seguito a più ampie ricerche tumuli funerari».
La forma dello spazio indigeno è “agita” da chi la abita. René Thom parla di uno “spazio eccitato”,
intendendo uno spazio globale flessibile. In altri termini, i raccordi tra le mappe locali che definiscono lo spazio d’uso non sarebbero fissi, ma potrebbero essere modificati a volontà da certi individui (maghi e stregoni) e ciò in virtù di procedure specifiche (rituali magici, sacrifici). Altrove Thom afferma che la «topologia dello spazio cesserà di essere la stessa per tutti, perché le esperienze percettive di un osservatore possono essere a loro volta affette da un’azione magica». Qui Thom chiama magico ciò che dal punto di vista dell’antropologia psicologica può essere anche l’immaginario quotidiano, un immaginario che sostiene e costituisce la mappa mentale condivisa. E’ il gioco del “punto di vista” spaziale, il cui organo e tutto il corpo in movimento, il corpo individuale e sociale. La mappa mentale di un insediamento e un’esperienza intersoggettiva. Nello spazio vengono “lasciati” indizi che richiamano per analogie e passaggi una mappa più ampia […] Francoise Levy e Marion Segaud hanno cercato di raggruppare, da un grande numero di esempi di culture antiche, tradizionali e indigene, le categorie spaziali che concorrono a formare la mappa mentale di un insediamento […] Insediarsi vuol dire ritagliare un posto tra la genericità dei luoghi, porre un confine tra l’abitato e il non abitato. Questo gesto e un gesto di fondazione, e ogni fondazione implica un orientamento. Questo luogo, adesso abitato, e in relazione con ciò che gli sta intorno secondo alcune direttrici orientate. Ogni insediamento viene cosi incardinato non solo da un circoscrivere, ma anche da un legare al cosmo intero.1.

Un luogo, uno spazio umano è agito, immaginato, abitato, concepito dai suoi abitanti attraverso linee di interpretazione che definiscono comportamenti cresciuti e condivisi all’interno della collettività seguendone i ritmi e le necessità, sia materiali che ideali. Un luogo, uno spazio umano cresce dall’interno della collettività che lo abita e lo condivide. E’ chiaro, pertanto, che qualsiasi modificazione imposta dall’esterno, di carattere urbanistico o politico che sia, finisce con lo stravolgere la stessa comunità che lo abita e che è destinata a disperdersi, anche rimanendo apparentemente vicina allo spazio iniziale, una volta che se ne siano dispersi o distrutti i punti di riferimento architettonici, spaziali o immaginari.

Un’azione come quella di Haussmann andava quindi molto al di là dell’aspetto militare, repressivo, speculativo o di rinnovamento estetico poiché andava a colpire in profondità la comunità che abitava precedentemente gli stessi spazi, da cui veniva brutalmente allontanata oppure violentemente integrata in quelli nuovi e più razionali.
In giorni in cui lo scontro tra lo Stato israeliano e i Palestinesi di Gerusalemme Est e di Gaza è tornato ad occupare le prime pagine dei media internazionali, è difficile non cogliere come l’opera di espulsione anche di poche famiglie, dagli spazi abitati da decenni se non più, significa intervenire sull’indipendenza culturale, politica, sociale della comunità palestinese con un’operazione di rimozione del ricordo, della memoria e delle tradizioni che è altrettanto violenta di quella militare dell’aviazione israeliana sui territori.

Le decine di barricate che avevano chiuso il Faubourg Saint-Antoine, la rue de Charenton, la rue de Charonne e quella de la Roquette nel 1848 costituirono la testimonianza non solo dell’insorgenza proletaria, ma anche della resistenza della comunità che abitava il quartiere contro la violenza di uno Stato con cui la stessa non poteva più o ancora riconoscersi.
Situazione che in maniera simile, ma con motivazioni diverse, così come è diversa ogni comunità da tutte le altre, si ripete in una delle vicende narrate nell’interessantissimo testo di Franco La Cecla: quello dell’insurrezione di Palermo del 1866 e delle sue motivazioni e conseguenze.

La storia qui raccontata è un episodio della guerra furiosa ingaggiata nelle grandi città europee, dalla metà del diciannovesimo secolo in poi, contro la vita di strada. Gli attori sono da una parte le municipalità, ora investite di un ruolo del tutto nuovo di gestione, controllo e amministrazione della vita quotidiana dei cittadini, e dall’altra gli abitanti, la cui vita è naturalmente “indisciplinata” essendo orientata alle ragioni del bastare a se stessi dentro
un tessuto urbano che ancora gli appartiene e a cui appartengono.
L’esemplarità del caso Palermo è sbozzata dentro a una situazione di grande cambiamento generale […] Chi, del popolo minuto o delle settanta corporazioni di mestiere che allignano a Palermo, ha appoggiato l’ingresso del Generale Garibaldi in città difficilmente (per quanto inventivo o abituato alle cose dell’isola sia) può immaginare le proporzioni del cambiamento cui ha dato una mano. Che la libertà possa assumere i caratteri di un governo talmente attento alla vita della gente comune da pretendere netti cambiamenti di costume, che tutto il sistema di vita precedente, nei minimi dettagli, possa essere oggetto di drastiche condanne e ferrei regolamenti, è qualcosa di impensabile. Tra tante dominazioni, mai ce n’è stata una che abbia preteso di entrare nella vita del vicolo, nel cortile, a decidere tra moglie e marito come ci si debba comportare, a che santo sia giusto o meno votarsi, quali mosse siano consentite ai cocchieri per strada. […] E dire che Palermo e la terza città d’Italia per popolazione e la quarta in Europa per incremento di nati (dopo Londra, Vienna, Berlino).
Eppure, qualcosa fa si che il nuovo governo abbia in odio, in smisurato sospetto, i modi e le industrie del popolo siciliano […] Non contento di ciò, ha aggravato i dazi e le tasse impopolari e moltiplicato i servizi della guarnigione di polizia. Una cosa così non può essere a lungo sopportata e, appena sei anni dopo l’ingresso del Generale, la città insorge, per sette giorni, furiosamente.
Ci vuole l’aiuto delle guarnigioni napoletane per riportare la calma, e con essa il “cholera”. Il morbo percuote l’isola e si ferma lungamente a Palermo. Fa dimenticare tra le crudeltà altre crudeltà e rende un buon servigio ai nuovi amministratori, i quali proseguono nell’impresa certo ardua, ma senza dubbio modernizzatrice, di educare le plebi a nuovi costumi.
Come già prima della rivolta, anche dopo, con ancora più forza e arroganza, carabinieri, ufficiali e bandi intimano di stare in casa, di non sedersi per strada, di non pullulare per i cortili, di non svolgere alcuna attività industriosa al di fuori delle persiane della propria dimora. Come se quelle stanze fossero servite da sempre a questo, e non invece semplicemente a dormirvi e solo nella stagione fredda, come se non si sapesse che tutto il resto avveniva (come era stato per padri e nonni) all’aria aperta, dirimpetto ai vicini, sul selciato e sui ballatoi, tra le pergole e i santi. E gli stessi santi e madonne vengono proibiti nella guerra baggiana condotta ai frati e alla religione da un popolo lontano che adesso governa e nutre interesse per le proprietà dei preti.
[…] I lunghi elenchi di ciò che è ora proibito e consentito vanno ben oltre la rivolta, il colera, la sua fine e il suo ritorno. Diventano la costante di un governo che sembra avere più a cuore questo della stessa riscossione di nuove tasse, che peraltro non mancano puntualmente di esacerbare gli animi.
Eppure, il progetto della nuova municipalità e molto chiaro e ambizioso: trattare la città come uno stato di emergenza patologico. Disciplinare le sue moltitudini e il primo compito da svolgere, ricorrendo alle tecniche igieniche e di polizia che in quel momento, in tutta Europa, si vanno affinando.
[…] Nel 1888, un regolamento di igiene che corona vari tentativi precedenti si apre con la proibizione di «andare in giro nudi o seminudi» (in una città di mare dove le abitudini e le attività danno occasione di mostrarsi ben oltre il polpaccio). Ma viene anche vietato di “pettinarsi e pettinare” o di «tosare pecore per la pubblica via»; o ancora di «asciugare panni
per le strade, stendere o sciorinare biade, salami o sostanze di qualunque specie che per fermentazione, putrefazione o altra causa tramandino fetide e nocive esalazioni». Non si può più tagliar legna dinanzi alla porta, ne ferrare o curare un cavallo «in vista del pubblico». E’ proibito lasciar vagare polli, oche e anatre.
Viene colpito, insomma, tutto il regime di sussistenza, reso illegale ogni atto “produttivo” esercitato nel proprio ambito di vita. Ora, «salare i pesci entro la città e altresì prosciugarli innanzi le porte di entrata, nonché le finestre e nei balconi» è vietato per misura igienica e per prevenire miasmi contagiosi.
[…] Più avanti, con altri regolamenti, si colpirà il lavoro di singole corporazioni, troncando il legame tra esso e la sua “residenzialità”: «Viene fatto divieto ai bottai di stare in via dei bottai». Sarà d’ora in avanti il sindaco che provvederà a destinare «un luogo apposito, a tempo debito, fuori città». L’intera economia sociale, strada per strada, insieme ai legami che essa sosteneva e da cui era sostenuta, vengono cosi scardinati. E’ lo stesso effetto ottenuto con l’abolizione dei diritti comuni e degli abusi civici nelle campagne dell’isola. Si capisce perché gli anni della fine del secolo siano gli anni della miseria nera, della mafia che comincia, della spaventosa emigrazione2.

Chi scrive deve, a questo punto, scusarsi con l’autore per la lunghissima citazione ma, d’altro canto, la stessa si è resa necessaria al fine di far comprendere ai lettori il legame strettissimo che intercorre tra l’uso delle leggi e dei regolamenti urbanistici e sanitari e la rimozione delle abitudini e forme di resistenza e sopravvivenza comunitarie. E’ qualcosa che va al di là dei concetti di classe e lotta di classe, i quali, a loro volta, finiscono col rivelarsi più di carattere sociologico e generalizzante che non realmente utili per la piena comprensione delle contraddizioni scatenate dall’uso capitalistico degli spazi, del lavoro umano, dell’ambiente e delle trasformazioni dell’economia e della tecnica. Così come finiscono col rivelarsi riduttive anche le categorie, oggi fin troppo abusate, di popolo e nazione.

Anche se il testo di La Cecla porta ancora alla luce una infinita varietà di esempi, casi e problemi collegati al tema della funzione “modernizzatrice” dell’urbanistica borghese, quanto è stato fin qui detto può benissimo funzionare come sunto di un’opera che della critica della trasformazione dell’intero spazio sociale in “non luogo”, in un’accezione ben più ampia di quella suggerita originariamente da Marc Augé, in cui perdersi, sia soggettivamente che collettivamente, fa il suo obiettivo centrale e importantissimo.

Non soltanto però, poiché è possibile leggere in filigrana nelle pagine di La Cecla un uso della scienza e del progresso in chiave ricattatoria e fobica che richiama l’attenzione, soprattutto in un periodo in cui l’evidente emergenza pandemica è stata utilizzata prima di tutto per ristrutturare il lavoro e ridefinirne le sue condizioni, mentre classi sociali un tempo sicure del proprio tenore di vita hanno visto sgretolarsi sotto i loro occhi e sotto i colpi delle misure anti-Covid le proprie certezze e abitudini.

Alla metà degli anni sessanta, nel pieno della guerra del Vietnam, una grande e misconosciuta folksinger americana, Hedy West, fu la prima ad affermare che in futuro “We’ll be controlled by manipulated fear”, saremo stati controllati attraverso l’uso della paura. Negli ultimi vent’anni, ma forse anche già da molto tempo prima, tale ipotesi è stata pienamente confermata dalle politiche di sicurezza e salute pubblica messe in atto dai governi, soprattutto nei paesi considerati “avanzati”.


  1. F. La Cecla, Mente locale, Elèuthera 2021, pp. 56-58  

  2. F. La Cecla, op. cit., pp. 117-123