di Gianfranco Marelli

Diego Giachetti, Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills, DeriveApprodi, 2021, pp. 208, 17,00 euro

Un tempo, al posto di spoilerare, si sarebbe utilizzato il termine “svelare il finale” per indicare l’intento di riassumere il significato di un’opera con l’obiettivo di rovinarne la sorpresa, rendendo fin da subito noto il “colpevole”. Orbene, nel recensire il libro di Diego Giachetti, Il sapere della libertà. Vita e opere di Charles Wright Mills, si è deciso di spoilerare il testo non per render noto il finale, bensì per rimarcare, con l’autore, l’importanza della riflessione politico-sociologica di Mills, nella speranza di riprendere dall’inizio – questo sì – la critica radicale alla struttura organizzativa della società al fine di cogliere le radici del cambiamento in corso nella struttura del carattere dell’individuo. Cambiamento che – già sul finire degli anni ’50, sottolinea Giachetti – « segnava il passaggio dall’età moderna a quella contemporanea, da Mills definita la “Quarta epoca”, in cui le grandi organizzazioni economiche, finanziarie, amministrative e militari mettevano in discussione i valori di democrazia e libertà, mentre gli uomini comuni, i docili robot, non erano più capaci di comprendere la potenza e il potere di quelle strutture alle quali erano sempre più subordinati e modellati negli stili di vita, nel lavoro, nel divertimento.» [pp. 171-172].

Ebbene, mai come in questo periodo storico abbiamo la percezione di vivere concretamente la “Quarta epoca” descritta, analizzata, criticata dal sociologo americano a partire dai suoi libri sui nuovi leader – The new men of the power. Americas’s Labor Leaders (1948) – e sulla classe media – White Collars: The American Middle Classes (1951) – fino alla sua monumentale opera del 1959, The Sociological Imagination, in cui si impegnò a fornire agli studiosi di scienze sociali una “cassetta degli attrezzi” al fine « di trasformare le difficoltà e le preoccupazioni personali in problemi sociali, per aiutare il singolo a diventare un uomo auto-educantesi, ragionevole e libero». Proprio in questi dieci anni, il sociologo americano si attivò in una strenua lotta per riformare la spiccata concezione pragmatista degli studi sociali che, soprattutto negli Stati Uniti della Grande Crisi del ’29, aveva tralasciato la vocazione di sentinella critica dello sviluppo socio-economico per assumere il compito di oracolo del New Deal – senza specificare né la natura né il ruolo che lo Stato assumerebbe nel nuovo ordine mondiale – quasi che la politica del controllo statale dell’economia risultasse l’unica prospettiva praticabile dell’indagine sociologica, così da assegnare «all’intellettuale una funzione riformatrice, pratica e operativa, più che ideologica e riflessiva, per cui esso tendeva a porsi come critico delle disfunzioni del sistema sociale e voleva usare la sua conoscenza per contribuire alla risoluzione dei problemi individuati». Pertanto, «anche chi criticava il capitalismo, abbandonata l’idea della rivoluzione socialista, condivideva la scelta politica governativa di esercitare il controllo sulla libera concorrenza economica, causa principale della crisi del 1929, e indirizzare il sistema produttivo verso il conseguimento di un maggior benessere per tutti» [p.31].

Ovviamente, la sua polemica in piena Guerra fredda nei confronti di una visione rinunciataria degli studi sociali, sospesi fra «la scuola dei grandi teorici che pensavano e non osservavano e quella degli empirici che osservavano e non pensavano», pose Mills ai margini dell’indagine accademica, anche perché lui stesso «cercava una terza via partendo da domande circa il significato che assume l’oggetto della ricerca per la società nel suo insieme e come il tutto si inserisca in un processo storico di cui gli eventi studiati fanno parte» [p. 91]. Diego Giachetti, nel raccontare per l’appunto il suo ruolo di outsider della sociologia americana, non si limita soltanto ad evidenziare quanto Mills fosse un dissenter – o per dirla con Dahrendorf un maverick (letteralmente capo di bestiame non marchiato, senza padrone) – ma ne sottolinea il suo essere visceralmente anticonformista, al punto che vita e ricerca sociologica si fondevano nella sua personalità di hipster degli anni ’40 (con giubbotto di pelle e moto rombante), da anticipare le successive proteste e contestazioni contro la “società dell’abbondanza”, e divenire tra i gruppi della giovane sinistra degli anni ‘60 uno degli intellettuali americani più letti assieme a Paul Goodman, Noam Chomsky, Murray Bookchin e gli oriundi Herbert Marcuse, Erich Fromm, Theodor W. Adorno . Tutto ciò fece sì che Mills fin da allora fu «considerato un liberale tradito dalla retorica liberale del pensiero conservatore americano, curioso del marxismo, ma non arrendevolmente marxista, democratico e socialista ma non per questo aderente a una ortodossia di partito, a favore di una società di uomini liberi ed eguali, ma anche cosciente che non tutti erano liberi ed eguali allo stesso modo, qualcuno lo era di più, altri di meno, in proporzioni diverse. Mills – chiosa Giachetti – non rifiutava nessuna di queste influenze, se mai voleva trarre da esse spunti per costruire una teoria sociologica dell’azione sociale e del comportamento umano all’interno di una società fondata sul potere di pochi e sulla diseguaglianza per molti» [p. 55].

Di certo il suo anticonformismo, in piena caccia alle streghe scatenata dal senatore repubblicano del Winsconsin Joseph McCarthy all’inizio degli anni ’50, con l’intento di scovare i presunti comunisti infiltrati nelle istituzioni statunitensi, non solo condizionò la sua carriera universitaria, ma la “caccia alle spie sovietiche”, creò soprattutto nell’ambiente intellettuale un’atmosfera di sospetto e diffidenza che, per i più, si tradusse in una rinuncia a una critica del sistema capitalistico e delle sue forme politiche amministrative, al punto che le poche voci dissonanti – come quella di Charles Wright Mills – dovettero faticare non poco per sostenere che la «tanto decantata democrazia liberale americana perdeva di sostanza, le elezioni erano una rappresentazione formale di un balletto democratico privo di senso, mentre il monopolio esercitato dalle élite del potere sui mezzi di comunicazione, riduceva milioni di lavoratori ad “automi”, con pensieri e desideri prefabbricati e indotti dall’esterno» [p. 106]. Pertanto, se il compito della so ciologia doveva svelare i meccanismi sociali che limitano la libertà, gli intellettuali avevano l’obbligo di svolgere consapevolmente il proprio ruolo di critici dello status quo, utilizzando la ragione «contro l’operare non democratico delle élite di potere che, con le loro azioni, deviano il senso autentico della democrazia stessa» [p. 11].

La mancata assunzione di responsabilità di buona parte degli intellettuali americani nel disvelare la realtà della struttura sociale, condusse Mills ad indagare la causa di una simile rinuncia e ad individuarvi come effetto immediato il formarsi poliedrico di una “nuova élite” che compone l’apparato culturale deputato a creare opinioni attraverso istituti, organizzazioni, fondazioni, in cui si produce il lavoro artistico, intellettuale e scientifico: dalla scuola, ai teatri, ai giornali, ai musei , alle stazioni radiotelevisive, al cinema. Come infatti scriverà in Sociologia e conoscenza, l’apparato culturale assolve a funzioni di vario tipo: «crea modelli di carattere e stili di sentimento, sfumature di umori e vocabolari di motivi. Trasforma il potere in autorità. Riempie il tempo libero con distrazioni e divertimenti. Trasforma la natura della guerra; diverte, persuade e manipola; ordina e proibisce; terrifica e rassicura; fa ridere e piangere gli uomini, li spinge a vagare inebetiti, poi improvvisamente restituisce loro vivacità. Predice ciò che accadrà e spiega ciò che è accaduto. Aiuta a modellare e a percorrere un’epoca e ne fornisce la coscienza».

Sennonché l’aspra disamina nei confronti degli intellettuali che avevano abdicato al compito di essere la coscienza critica della società capitalista per paura di esser tacciati come “comunisti” condusse il sociologo americano a distanziarsi altresì da una interpretazione del pensiero di Marx incapace di leggere la trasformazione in atto nella più sviluppata e progredita democrazia occidentale, in quanto eseguita sia da quei “marxisti volgari” che estrapolano alcune varianti della filosofia politica del Moro di Treviri e poi identificano queste parti col tutto della sua opera, sia i “marxisti sofisticati” «che concentrano il loro interesse e le loro analisi su teorie sviluppate su basi marxiste per spiegare le ragioni dell’esistenza di eccezioni storiche, senza per questo porsi il problema di una revisione generale del modello teorico» [p. 61].

Al contrario, Mills si considerava un “marxista puro”, dal momento che ne accettava l’impostazione metodologica, evitando però le trappole del determinismo economico, così come l’affermazione fideistica che la classe lavoratrice fosse il motore del cambiamento economico-sociale e politico, poiché non vi è alcuna automatica corrispondenza tra collocazione di classe – compiutamente segnata dallo sfruttamento del lavoro – e sviluppo di una conforme coscienza di classe che fa del lavoratore tout-court il soggetto rivoluzionario desideroso di rovesciare il sistema capitalista.

Infatti, sebbene Mills fosse pronto a riconoscere che la combinazione tra la fonte e il tipo di accumulazione del reddito avessero un’importanza decisiva per la formazione psicologica e politica sia delle classi più “basse” che di quelle più “alte”, tuttavia – scrisse nella sua opera, The Marxists, uscita postuma nel 1962 – «se non si usano altri criteri, diversi da quello di proprietà, non si può spiegare la coscienza di classe (o la sua mancanza), ne si può capire il ruolo dell’ideologia nella coscienza politica e di classe».

Come correttamente documenta Diego Giachetti nel suo libro, in cui con voce piana ma appassionata traccia il profilo bio-bliografico di Charles Wright Mills, caratteristica centrale del sociologo americano era di saper ascoltare i marxisti, ritenendo tuttora indispensabile il contributo metodologico messo a disposizione dal filosofo tedesco anche se era necessario – come per tutte le altre teorie politico-sociologiche – non farsi ingabbiare da osservazioni e giudizi che si sono dimostrati ambigue e sbagliati; dopotutto Marx era pur sempre figlio del suo tempo e pertanto, secondo il principio della specificità storica che consiste nel riconoscere che ognuno pensa ed elabora all’interno del proprio tempo, non avrebbe saputo usare «il suo apparato di concetti con la stessa attenzione che possiamo avere noi». Non solo: «alcune parti di questo apparato – precisò proprio in The marxists – devono essere migliorate e in alcuni aspetti rifatte da capo»; del resto, rispetto al liberalismo – divenuto l’ideologia dominante dell’élite al potere – il marxismo, a parere del sociologo americano, conservava elementi analitici utili alla comprensione della realtà sociale che, integrati con le analisi sociologiche di Weber, avrebbero potuto por fine al fraintendimento circa il determinismo storico. Infatti, il motore del cambiamento e della lotta politica nel capitalismo moderno non poteva più esser ricondotto alla sola struttura economica, ma occorreva considerare il peso e l’influenza esercitata dalle istituzioni del potere politico e militare, e soprattutto il “nuovo” potere rappresentato dai mezzi di comunicazione di massa.

Certo, anche Weber era “figlio del suo tempo” e pertanto bisognava correggere la sua concezione avalutativa della sociologia, così come era necessario stemperare il suo giudizio positivo dato dealla struttura tecno-burocratica, ritenuta la forma più razionale dell’agire che gestisce e organizza lo sviluppo economico e il conseguente progresso sociale, mentre Marx considerava la formazione sociale capitalista fondamentalmente irrazionale poiché sorretta dalla volubilità del mercato. Tuttavia, la rilevanza weberiana nel denunciare la condizione dell’uomo-ingranaggio della macchina burocratica, offre un’ulteriore e più specifica analisi sulle cause del consenso al sistema, tale da rettificare – senza peraltro escluderla – la fideistica “coscienza di classe” del proletariato, dal momento che essa non è implicitamente insita nel proletariato, ma è una possibilità, una prospettiva; dopotutto lo stesso Marx aveva sottolineato che mentalità e coscienza di classe, soprattutto negli strati subalterni, non coincidono perché «le idee della classe dominante sono generalmente le idee dominanti e i soggetti che non appartengono alla classe dominante, ma che accettano le sue definizioni di realtà, hanno una falsa coscienza della propria condizione» [p. 66].

Pertanto più che esser letto come l’anti-Marx, agli occhi di Mills, Weber è la sua necessaria e indispensabile correzione, il punto di partenza – non certo d’arrivo – per integrare il metodo marxiano, inteso come visione d’insieme della realtà storico-sociale. Ciò che invece doveva essere rivisto e integrato erano gli assi portanti dell’analisi marxiana: il rapporto tra struttura e sovrastruttura, tra classe, sfruttamento del lavoro e coscienza di classe, la polarizzazione di classe e l’impoverimento assoluto, il soggetto agente della trasformazione, lo Stato e le sue funzioni, il concetto di classe dominante, il determinismo economico e la concezione della storia. Soprattutto perché, alla luce dello sviluppo delle società altamente industrializzate della meta del XX secolo e delle nuove formazioni economiche sociali emerse dalla Rivoluzione russa, il concetto di struttura sociale andava riformulato, in quanto composta da una serie di ordini istituzionali che, secondo le categorie della sociologia del potere delineate da Weber, «hanno la funzione di addestrare, educare, selezionare, reclutare o espellere le persone sulla base di regole formali e informali che definiscono la funzione del ruolo sociale dell’attore». Fra questi, «tre spiccano per la loro importanza e per la valenza che hanno nella configurazione della struttura sociale: quello politico, quello economico, quello militare». Gli altri ordini istituzionali «erano quello religioso, che organizza forme di culto collettive, quello parentale che regola i rapporti sessuali, la procreazione e l’educazione della prole, la trasmissione ereditaria, quelli inerenti alla sfera educativa che istituiscono organismi appositi per la trasmissione e comprendono, oltre all’istituzione scolastica, la formazione politica mediante i partiti, le varie chiese, le accademie militari» [p. 96].

Come giustamente osserva Diego Giachetti, il rapporto con la teoria marxista fu per Mills improntato sulla necessità di interpretare e comprendere il mondo nuovo, così come si era configurato dopo la Seconda guerra mondiale, per poterlo cambiare. Solo partendo da questa necessità era possibile comprendere che la “coscienza di classe”, la consapevolezza di interessi comuni, non sono la conseguenza logica, determinata e immediata della realtà oggettiva della struttura di classe; «occorre considerare altri fattori, per capire come e perché nasce o non nasce la coscienza di classe, quali l’avere o non avere una vita associata e solidale, la presenza di una leadership capace di sintetizzare e organizzare il malcontento, la possibilità concreta di migliorare la propria posizione, il peso esercitato dai moderni mezzi di comunicazione monopolizzati dalla classe dominante dai quali i lavoratori salariati acquisiscono formule, vocaboli, mentalità che sfociano in comportamenti politici ed elettorali contrari ai propri interessi, definiti dalla loro posizione economica di classe» [p. 100].

In modo particolare, l’attenzione rivolta ai media diede la possibilità a Mills di analizzare quanto fosse determinante la frattura fra tempo di lavoro e tempo libero, in cui la maggior importanza di quest’ultimo nella coscienza delle persone è determinata dal fatto che fra «la rappresentazione del mondo che le persone si danno e la loro vita materiale s’interpongono interpretazioni, ricevute e manipolate, che influenzano e formano la coscienza». Infatti, gran parte di quello che l’individuo crede di sapere sulla società e sul mondo – precisa Giachetti – «non è il frutto di una conoscenza diretta, di prima mano, ma subisce la mediazione interpretativa di chi ha il monopolio delle informazioni e dei commenti. L’accettazione o meno di un’informazione sottintende un già precostituito sentimento, un modo di concepire la società già consolidata sulla base di informazioni precedenti. È a partire da questi schemi che si scelgono o si rifiutano determinate opinioni, non sulla base della loro coerenza logica ma per affinità emotiva» [p. 118]. Ne consegue che la “falsa coscienza” propugnata dall’apparato culturale mediatico, più che basarsi su elaborazioni filosofiche o proclami politici, si afferma su quelle concezioni del mondo che si presentano come dati di fatto che gli uomini-robot reputano scontati e che caratterizzano la nostra epoca di individui prosumer (produttori/consumatori).

Che dire di più a proposito di questo libro sulla vita e le opere di Charles Wright Mills che ascoltava i marxisti ma non si fidava – non a torto – di loro? Di tener presente – ricorda Diego Giachetti sin dalle prime pagine del suo prezioso e convincente studio – che quando l’8 ottobre 1967 Che Guevara fu catturato e ucciso dai militari boliviani «aveva nello zaino agende le quali contenevano appunti per un progetto di studio sul capitalismo, l’imperialismo, la transizione al socialismo. Assieme a un collage di citazioni tratte dalle opere di Marx ed Engels, Lenin, Trotsky, Luxemburg e altri ancora, c’erano anche annotazioni prese dai libri del sociologo americano». Sarà forse il caso di riprendere un serio studio sul capitalismo, magari dando proprio una sbirciatina a quegli appunti annotati non certo a caso, riscoprendo l’interesse per gli autori citati. Non ultimo, l’autore che del marxismo seppe fare uno studio per nulla accademico.