di Paolo Lago

Daniele Petruccioli, La casa delle madri, Terrarossa, Bari, 2020, pp. 292, € 16,00.

Daniele Petruccioli, studioso e traduttore, col suo romanzo d’esordio La casa delle madri, ci regala con grande maestria il delicato affresco di una saga familiare caratterizzato da una scrittura sinuosa e avvolgente. Una scrittura che – per mezzo delle sue volute, del suo navigare attraverso le onde della memoria, dei suoi incisi fra parentesi che assumono la stessa erranza nomadica del pensiero – sembra mimare lo scorrere del tempo attraverso un vero e proprio viaggio testuale, una erranza nel tempo che si colloca in un preciso spazio. O, meglio, in due spazi, in due case. Una è la casa al mare, chiamata “la casa delle onde”, l’altra è la “casa delle madri”, l’enorme appartamento cittadino appartenente da generazioni alla famiglia del “notaio”. Le case sono le vere protagoniste di un racconto che apre varchi nello spazio della memoria, momenti quasi incantati nei quali la realtà, per mezzo di recondite magie, diviene probabilmente più comprensibile. E allora, col Montale della Casa dei doganieri possiamo chiederci: “Il varco è qui?”. Forse sì, il varco è qui, nelle stanze delle nostre case avite: e, se da esse ci separiamo, ci priviamo, per certi aspetti, anche di noi stessi, della nostra più segreta essenza.

Il romanzo si apre con la “casa delle madri” sventrata, senza mobili, senza pavimento, piena di buchi e aperture effettuate dai muratori che stanno lavorando per la “nuova proprietà”. All’inizio la casa appare come un vero e proprio corpo pulsante: un corpo martoriato e ferito ma pronto per essere ricomposto per una nuova vita, per essere riconsegnato a un nuovo tempo, quello del futuro, che poi si ritrasformerà inesorabilmente in passato. La scrittura di Petruccioli attua un vero e proprio “gioco col tempo”, come ha notato Gérard Genette a proposito dello stile della Recherche proustiana. Si tratta – scrive Genette – di “interpolazioni, distorsioni e condensazioni temporali” che aprono la scrittura a numerose anacronie. Perché, in definitiva, in Proust, la descrizione diventa narrazione e si svolge nell’arco di un tempo caratterizzato da costanti anacronie ma anche da ritorni. Si tratta, infatti, di una temporalità iterativa. Nella narrazione messa sapientemente in atto da Petruccioli le descrizioni si trasformano in narrazione, all’interno di uno stile in cui sono praticamente assenti la forma mimetica e i dialoghi. La narrazione – e la narratività primaria del suo romanzo – è tutta nella forza sinuosa e avvolgente delle descrizioni delle case-corpi, spazi fisici, profondamente corporei, ma anche spazi mentali, esistenti quasi in funzione della mente dei personaggi che abitano quegli stessi spazi. Ed ecco che dall’ambiente generatore di personaggi profondamente corporei emerge una vera e propria saga familiare venata di magia che ci può far pensare sia a Menzogna e sortilegio di Elsa Morante che a Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcìa Marquez. I personaggi di Speedy e Sarabanda ricordano, appunto, quelli di Garcìa Marquez: quasi ‘magici’, dotati di una bellezza e di una essenza per certi aspetti soprannaturali. Sarabanda che, uscendo dalla terrazza, corre sui tetti della città per rincorrere Armanda, il gatto maschio con un nome da femmina, appare come rivestita di una grazia surreale e incantata, conferendo un senso di levità e di leggerezza (in senso positivo, quella stessa leggerezza di cui Calvino tesseva le lodi nelle sue Lezioni americane) all’intera narrazione. Sarabanda è un personaggio lieve, leggero, incantato, rivestito di una magica grazia, come il nome che porta, il quale indica, non a caso, una danza lenta e solenne che ha la sua probabile origine in una sfrenata danza spagnola d’amore. Anche Speedy, il marito della ragazza, evoca nel suo nome la velocità e la leggerezza, caratteristica che emerge non da ultimo nel loro libertario stile di vita, la cui giovinezza si colloca tra fine anni Sessanta e inizio Settanta, essendo loro figli del Sessantotto e della contestazione.

Ad una coppia eterea e quasi ‘incantata’, magicamente separata dalla realtà come Speedy e Sarabanda, innamorati ma ben presto separati, ne corrisponde una prepotentemente fisica e ‘corporea’ come Ernesto ed Elia, i loro due figli gemelli. Ernesto, segnato fin dalla nascita da una malattia congenita che gli ha paralizzato la mano destra e compromesso l’uso di una gamba, porterà sempre con sé le stigmate di un corpo malato e sofferente che, quasi a confermarne la prorompente fisicità, obnubilerà con l’uso di alcool e droghe. Elia, connotato da un ambiguo e sfuggente eros, si caratterizzerà invece come il custode in ombra del fratello, in un rapporto di amore-odio dai tratti sado-masochistici fino a sfiorare le più oscure ossessioni del doppio e della polarità gemellare. Le due coppie sono immerse nel ventre buio e meraviglioso delle due case (anch’esse costituenti una sorta di coppia), in lunghissimi corridoi notturni ma anche in stanze quasi sospese sui tetti della grande città (che rimanda sottilmente a Roma, città dell’autore), le cui finestre riverberano della luce del sole e della luce che si riflette nelle acque del fiume che scorre molto più in basso, ma sono immerse anche nelle camere della casa al mare che, invece, si affacciano sull’azzurra distesa marina e sul vento.

Le case sono anche sature di oggetti memoriali e oggetti-feticcio che, al pari dei luoghi e degli spazi, sono importanti veicoli di affettività: “Noi crediamo di legarci a relazioni, sentimenti, persone; ma siamo molto più legati ai luoghi e agli oggetti che hanno accolto noi, e queste persone, coi sentimenti che ci siamo suscitati a vicenda e le relazioni che abbiamo intessuto. Sono i luoghi e gli oggetti (i corpi, i corpi puri e semplici), con la loro malleabilità, la loro possibilità di essere toccati, la capacità di adattarsi, a raccontarci di quelle relazioni, di quelle persone e dei nostri sentimenti verso di loro: a dirci, cioè, di noi”. Come scrive Massimo Fusillo in Feticci, “riattivare la memoria è forse il ruolo che l’oggetto svolge più di frequente in letteratura”, a partire dalla stagione del grande romanzo europeo di Goethe e Dickens. “Sfruttando il meccanismo retorico della sineddoche” – continua lo studioso – “con la sua densità corposa l’oggetto evoca un intero mondo di affetti e di ricordi: è una parte che, tramite la sua potenza visiva, riesce a sostituire con particolare efficacia il tutto”. Gli oggetti che si trovano, come vere e proprie sedimentazioni della memoria, nelle stanze delle due case evocano, appunto, un vero e proprio “mondo di affetti e di ricordi”, un mondo che, nelle ristrutturazioni, vere e proprie distruzioni devastanti, viene spazzato via. E oggetti memoriali sono anche le pareti distrutte, i tramezzi sfondati, i pini abbattuti perché ostacolano la vista del mare, il praticello, un tempo brulicante di piccola vita, inesorabilmente pavimentato e cementificato.

All’interno di questi spazi della memoria, quasi essenza stessa del corpo-casa, ci sono i morti, le ombre, le presenze che ancora animano quei luoghi delineate in un impianto tematico che appare come una variante leggera e allusiva del topos letterario della casa infestata. Eppure, sembra che le presenze della “casa delle onde” e della “casa delle madri” non amino manifestarsi esplicitamente ai vivi, come da tradizione. Secondo quanto scrive Massimo Scotti nella sua Storia degli spettri, infatti, scopo ultimo dello spettro è “quello di manifestarsi al vivente, dissimulando o enfatizzando la qualità arcana del contatto” mentre “ai vivi tocca il compito di diffondere la narrazione, legando così un luogo alla leggenda di un incontro soprannaturale”. Perché, in fin dei conti, come leggiamo nel romanzo, “la casa è divisa in due. I morti si aggirano per camere scomparse, facendo inciampare i vivi in cose che non dovrebbero stare dove stanno”, mentre “famiglie di vivi” condividono i loro spazi con “schiere di morti che non hanno nessuna contezza di compravendite, frazionamenti, divisioni, e continuano ad attraversare gli spazi”. E così, nelle due case sopravviveranno le presenze del notaio e della moglie, di Speedy e di Sarabanda così come, ai tempi in cui essi erano in vita, in quelle stesse case sopravvivevano le presenze di altre persone che precedentemente le avevano abitate. Il gioco col tempo si trasforma in una danza ostinata e leggiadra di presenze, in una vera e propria sarabanda di ombre e di sguardi velati e inconsistenti. Le case sono divise in due, coabitate dai vivi e dai morti, come in Casa tomada di Julio Cortázar (e come nel film The Others, di Alejandro Amenábar), in cui le presenze spettrali emergono dalle spazialità di case che conservano i ricordi del passato. E quelle stesse presenze si possono manifestare in forma più esplicita, forse, agli esseri più sensibili, gli animali, come in questa leggiadra apparizione di Sarabanda-spettro, seduta a guardare il mare: “Da dietro la vetrata, ogni tanto un topolino si alza sulle zampe posteriori e, vuoi per l’effetto controluce del tramonto, vuoi per il rifrangersi dei raggi sulla vetrata (vuoi perché a volte i morti si dimenticano, o non si curano, di lasciarsi vedere da animali e da quegli esseri umani più affini ad altre specie), riesce a fissare i suoi due occhietti sulla figura in trasparenza di una signora accoccolata, con i capelli crespi e le gambe lunghe e magre, la testa voltata verso il mare”.

Ma i veri spettri sono probabilmente i nostri ricordi e continuano a vivere nella memoria, negli spazi che coincidono con essa perché saturi di immagini che appartengono a noi stessi. Quegli spazi, alla fine, siamo proprio noi perché, come scrive Emily Dickinson, “non occorre esser camera né casa / per sentirsi invasati dallo Spettro”. Siamo noi, indissolubilmente legati a oggetti, luoghi, case, muri, pareti, finestre, sguardi che si aprono sui paesaggi del ricordo. La sapiente scrittura di Petruccioli ce lo rammenta in modo elegante e gentile, e ci invita a una leggiadra danza, a una magica sarabanda che, contemporaneamente, è un incantato gioco col Tempo.

 

Riferimenti bibliografici:

M. Fusillo, Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, Il Mulino, Bologna, 2012.

G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, trad. it. di L. Zecchi, Einaudi, Torino, 1976.

M. Scotti, Storia degli spettri. Fantasmi, medium e case infestate fra scienza e letteratura, Feltrinelli, Milano, 2013.