di Alfredo Angelici

Qui la prima puntata

Giorno indefinito. Camerino. Interno notte. 

Mi impegno a prendere sonno. Ma sono oppresso. Ansimo, mi volto, grugnisco e mi rivolto tra lenzuola esauste in un letto troppo piccolo. Strano vero? Vivo in 7 metri quadri e mi ci sento stretto. Eppure dovrei essere contento, secondo le direttive comunitarie un maiale ne ha solo 6 di metri quadrati a disposizione. 

– “Io sono più fortunato” – mi scappa sarcastico a voce alta.

– “Ho un metro in più per grufolare”. Erompo in una risata ebete quanto solitaria la cui eco subito muore contro la troppo vicina parete. Subito davanti mi appare giudicante la mia coscienza travestita da maiale di Trilussa, si avvicina calma, mi guarda e mi da uno schiaffone, poi mi dice: 

“bisogna esse filosofo bisogna 

non fa lo scemo 

che ci ritroveremo  

in qualche mortadella de Bologna”. 

Non c’è tempo da perdere. Approfitto dello stordimento che mi deriva dallo sganassone ricevuto dal maiale coscenzioso, lo rinforzo con della “melatonina retard”, dose consigliata 1 pastiglia all’occorrenza, ne butto giù tre. Occorreva. 

Spengo la luce e mi volto sul mio fianco preferito. Ora dormo. Ora dormo. Ora dormo. Ora mi addormento. Ecco, ci sono quasi. Sto per…. un corto circuito mi elettrosciocca il pensiero, le sinapsi diventano indipendenti, la riflessione riflette da sola. Espello l’incubo: da qui non ne usciremo mai più! Uff…

Pausa. 

Silenzio. 

Respiro profondamente forte dei miei anni di pratica Kundalini. Chiamo a me il prana. 

-ad guray nameh, jugad guray namo, mi inchino alla saggezza originaria, mi inchino alla saggezza invisibile –  io mi inchino dove vuoi tu ma tu però fammi dormire.

Ecco, funziona….ora dormo. Sto per abbandonarmi tra le braccia di Orf…- no! Ancora un corto circuito, cavolo, questa volta c’è anche del fumo che mi esce dalle orecchie, eccolo di nuovo, il pensiero nero: 

si sono dimenticati di noi. Uff…

Eddai però!

I rumori notturni che sento in questa reclusione volontaria non appartengono a questo mondo. E’ un’orchestra stonata di condizionatori, bocchettoni a norma, caldaie non a norma, scarichi gocciolanti, ventole dimenticate accese, lampadine di là da esplodere per sovravoltaggio, legni che strillano dilaniati dai tarli e tarli che urlano dilaniati dall’antitarlo. 

Il teatro produce un fracasso tale che passeggiare a Guanzhou nel Guandong, nell’ora di punta, con l’assolo di batteria di Whiplash sparato a cannone nelle orecchie, a confronto è un’oasi di pace.

Sono circa le 5 si “sente già in lontananza l’allodola, messaggera del mattino”. Non faccio a tempo a soffocare la retorica Giulietta con il cuscino in faccia, che da fuori la porta sento le urla indistinte di qualcuno che non conosco. Questo qualcuno si precipita rumorosamente giù per scale. I mie compagni stanno dormendo, ne sono sicuro. Non possono essere loro. 

Shhht, zitto! Ascolta. 

Pausa.

Ancora urla e slavine di passi pesanti su e giù per le scale. 

Il mio cuore di leone mi suggerisce di chiudere a chiave la porta ma l’avevo già fatto. Apro e richiudo, per sicurezza. Non c’è il minimo dubbio, è un fantasma. Guardo sotto al letto per sincerarmi che non ci sia il coccodrillo che voleva mangiarmi quando ero piccolo, c’è, è lì e mi guarda. No Alfredo torna in te, i coccodrilli non esistono deve essere per forza un fantasma, il famoso fantasma del teatro Bellini. 

Calma.

Pausa.

Silenzio.

Infilo prudente l’occhio nel buco della serratura, sbircio la sagoma di un bambino, oppure un uomo molto basso di statura, insomma una persona piccola che ha una specie di saio con delle fibbie argentate sulle scarpe:

“O’Munaciello!”

E’ vero! Ci aveva avvertito il direttore artistico, Daniele, sornione.

-“L’avete già conosciuto” – ci disse quel giorno tra le righe e tra le quinte.

-“Conosciuto chi?”

-“O’Munaciello”

-“O’ che?” 

-“Il fantasma del teatro, vive qui. Alla fine di una replica, durante lo smontaggio, anni ed anni fa, un tecnico macchinista cadde dalla graticcia e morì sul palco, da quel giorno il suo spirito vive qui e  molte persone lo hanno incontrato”.

-“ arghszhjui!!*?#^ghthdff” –  rispondo deciso prima di strozzarmi.

-“si, ma se ancora non si è fatto vivo vuol dire che gli state simpatici”.

Eh no eh ! Così non va, ma che me lo dici adesso? A saperlo non avrei mai accettato di dormire qui, aspetta no…aspetta, intendevo dire che sapendolo avrei chiesto molti più soldi….

Mentre dico queste parole comincio a sentirmi come offuscato, drogato, la vista deforma il veduto, il tatto il toccato, l’udito l’udito e mi ritrovo in un luogo che non conosco. 

Un calendario sul muro con l’immagine del partenone di Agrigento segna 23 dicembre 1967. Sono in una villa, le pareti di un intonaco rossastro scolorito, colonne a sostegno delle cupole. Passo attraverso una  porta vecchia che un tempo deve essere stata verde. Come ci sono finito qui?

L’impertinente “Munaciello” ora è davanti a me, un nano grasso vestito da bambino, di pelo rosso e con un faccione di terracotta che ride largo, d’un riso scemo nella bocca ma negli occhi malizioso.

Corre avanti ed indietro da muro a muro, sembra rimasto intrappolato, fa sentire la sua presenza.

Io prendo coraggio, avanzo a passi incerti.

Coscienza –  “hai paura? Non Tremare”.

Pulcinella  – “Gnornò, je nun tremmo, me spasso a facere ‘no minuetto cu’ la paura”.

La mia voce tenta di uscire ferma ed avvolgente, invece suona ingolata come quando mi metto i calzini in bocca.

-Tu chi sei, cosa fai qui?- dico

Lui si fa rosso rosso in faccia come se avesse uno spillo in gola. Parla con estrema accortezza, con cautela.

 – “Facciamo i fantasmi. Tutti quelli che ci passano per la mente… son tutti di nostra fantasia. Con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giuochi, la maraviglia ch’è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo, e ce ne lasciamo incantare. Non è più un gioco, ma una realtà maravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza”.

Avverto la barba crescermi all’improvviso, velocemente divento più alto, mi appare Kafka e mi fa l’occhiolino, io proseguo la metamorfosi, sono ora corpulento, un omone. Un omone barbuto dalla bella faccia aperta. Anche gli occhi si spalancano e da piccoli ed impauriti si fanno occhioni ridenti, splendenti e sereni. Io, orgogliosamente bruno dalla nascita, sorrido di denti sani nel pizzicarmi il biondo caldo dei baffi della barba non curata. Intanto di spalle Pirandello prende appunti.

Faccio un giro su me stesso col mio nero giacchettone a larghe falde e larghi calzoni chiari e, un po’ aperta sul petto, una camicia azzurrina. Mi scappello un vecchio fez da turco. Saluto educatamente:

-voi inventate le persone che non esistono…incredibile?

Il nano si siede accanto a me, ma io sono all’impiedi. Non può funzionare. Pirandello corregge all’istante e compare un divano, mi siedo ed ascolto:

– “Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi. Non è possibile che non ci creda anche lei, come noi. Voi attori date corpo ai fantasmi perché vivano – e vivono! Noi facciamo al contrario: dei nostri corpi, fantasmi: e li facciamo ugualmente vivere. I fantasmi… non c’è mica bisogno d’andarli a cercare lontano: basta farli uscire da noi stessi”.

Vedi come si fa!!  E io che invece ho sempre inventato le verità, infatti alla gente è parso sempre che dicessi bugie…

Il nano si alza in piedi ma è alto uguale a quando era seduto, allora, meschino ed offeso lentamente si dissolve dicendo:

– “Ebbene, signori, vi dico come si diceva un tempo ai pellegrini: sciogliete i calzari e deponete il bordone. Siete arrivati alla vostra mèta. Da anni aspettavo qua gente come voi per far vivere altri fantasmi che ho in mente….”

Respiro aria favolosa. 

Intanto il temporale continua. 

Le prove del nostro spettacolo proseguono tra improvvisazioni ed esplorazioni ad ampio raggio, molto ampio, troppo ampio, immenso. Tanto abbiamo tanto tempo. 

Non sappiamo né quando né se usciremo. Ogni tv,  blog, rivista, tg ed affini, nazionali ed internazionali ha saputo ed ha parlato di noi. Anche il tessuto sociale napoletano in questo si è rivelato molto premuroso ed accogliente nei nostri confronti. Le pasticcerie ci offrono dolci di solidarietà, le pizzerie ci regalano pizze di sostegno, i caseifici ci tirano mozzarelle di fratellanza…ma le amministrazioni no. Non ci considerano (e sono stato un signore) di striscio. Non un assessore, un sindaco, un consigliere, un sottosegretario, un portaborse,  un usciere, che si sia affacciato a dirci – “ehi, sappiamo che oramai sono 70 giorni che siete chiusi li dentro, sto andando a fare la spesa, serve qualcosa?” – niente. 

Il nostro spettacolo parla del lavoro che ci vuole per fare uno spettacolo che nessuno ci farà mai fare e che a nessuno interessa che noi facciamo.

Quindi staremo qui, abbiamo tempo, possiamo permetterci il privilegio della ricerca. 

Io per esempio oggi ho fatto una performance, ho fatto della ricerca: 

mi sono vestito da precario e mi sono messo una fetta di brie legata ai fianchi che toccava terra. Camminavo, la strusciavo al suolo, mentre facevo il commento musicale imitando il controfagotto con la bocca. L’ho intitolata il formaggio. Poi ho proseguito per tutto il giorno, anche a pranzo. I colleghi mi chiedevano.

“Scusa che stai facendo?”

“Sto facendo una performance”. 

“Mi sembrava che stessi lavando i piatti”.

“No, ti sembra, ma questa è una performance”. 

“Ed ora? Stai andando a buttare l’immondizia?”.

“No, no,  sempre una performance”.

“Ah scusa”.

Forse per questo la politica non passa a trovarci, e taglia i fondi e le opportunità, non capisce il ruolo innovativo del teatro. Non capisco, eppure la mia improvvisazione è piaciuta molto, soprattutto per l’originalità dell’immagine.

Tutte le storie sono già state scritte, raccontate, tutto è già accaduto, esistono solo sfumature ed interpretazioni. Disney ad esempio per il Re Leone ha preso Amleto e gli ha fatto completare il cerchio della vita. Si limita a far scoprire a Simba il senso della vita che Amleto non ha mai voluto capire, il testone, intrappolato ed indeciso nel suo essere o non essere.

“Credete di vivere, vi arrabbatate, vi abbaruffate, ma ripetete solo le storie dei morti” – Eddai Pirandè, essù, ma non eri andato via? Abbiamo capito, sei stato chiaro. Scusatemelo. 

Luigi è fatto così…compare spesso da queste parti, lancia dei macigni di riflessione e se ne va. Ma non è che a uno gli va sempre di pensare, di scegliere, di vivere. 

La reclusione in Zona Rossa Bellini è diventata comoda, regolare, ripetitiva, confortante, consolatoria. Il libero arbitrio è solo relegato alla funzione creativa. Ma io ho deciso, non posso essere libero perchè sono  “debole, vizioso, inetto e ribelle.” Giornata tipo:

Ore 8 colazione

Ore 9 training

Ore 11 prove 

Ore 14 pranzo

Ore 15 montaggio spettacolo

Ore 19 fine prove, doccia

Ore 20 cena

Ore 22 fine giornata, netflix e letture

Ripetendo questo programma per 80/100 giorni di seguito (a proposito, siamo nel guinness dei primati come giorni di permanenza senza mai uscire da un teatro), utilizzando sempre gli stessi spazi, e scambiando sempre gli stessi sorrisi con le stesse quattro paia di occhi, si rischia di non poter più fare a meno della reclusione e si diventa “docili, sottomessi e pavidamente ubbidienti”.

Cambio scena

Ad un mio cenno la squadra tecnica: macchinista, aiuto macchinista, datore luci, ingegnere del suono e direttore di scena, capitanati dallo scenografo, ci regalano un cambio scena da pit stop. Siamo ora in Spagna, a Siviglia, al tempo piú pauroso dell’inquisizione quando ogni giorno nel paese ardevano i roghi per la gloria di Dio e con grandiosi autodafé. 

Anche la costumista ha fatto un gran lavoro, e, in tandem con la truccatrice è riuscita a trasformarmi in un vecchio quasi novantenne, “alto e diritto, dal viso scarno, dagli occhi infossati, ma nei quali, come una scintilla di fuoco, splende ancora una luce”. 

Entra il mio collega, il prigioniero, viene trascinato davanti al pubblico ha i capelli rasati, vestito con sacco di juta , calza un berretto da somaro, è Dio.  

Io (con tono di sfida nei confronti di Dio) –  “questi uomini sono più che mai convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi, il merito va a me di avere infine soppresso la libertà e di averlo fatto per rendere felici gli uomini”.

Guardo il mio collega negli occhi. Indico il pubblico che guarda col fiato sospeso. 

Io- “L’uomo fu creato ribelle; possono forse dei ribelli essere felici?”

Dio mi guarda con occhi profondi. Non risponde. Dio è un compagno di scena incredibile. Parla con gli occhi, c’è complicità tra me e lui, ci capiamo con uno sguardo. Lo conosco da molto tempo. L’ho sostituito in scena una volta, mi deve un favore. Dio è un attore intenso ed ha una invidiabile presenza scenica. Mi lancia un’occhiata mite di perdono, io di rimando mi infiammo di rabbia.

Io- “Nessuna scienza darà loro il pane, finché rimarranno liberi,  sono venuti da me implorando: Riduceteci piuttosto in schiavitù ma sfamateci!”

La battuta seguente è la più importante del testo, la dimentico sempre, come se il mio cervello la rifiutasse. Com’è che faceva? “Pane terreno….inconciliab…..ripartire?” Ah si! Ce l’ho e la dico dritta, tutta d’un fiato:

Io- “Lo capisci che libertà e pane terreno e per tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro?”.

Pausa.

Mi aspetto l’applauso.

Silenzio.

“ Stop!!”

Dalla platea  Lorenzo il drammaturgo e Licia la regista urlano, mi dicono di essere meno emotivo, di agire come se tutto fosse già accaduto….si, a volte gli attori la prendono troppo sul serio. 

Che succede? Chi è quell’uomo?  Feodor Dostoyesky si alza dalla poltrona e scuote la testa. Se ne va, abbandona il teatro, disconosce il testo e toglie la firma….cosa è successo? Perché se ne è andato? Leggenda narra che andandosene qualcuno lo abbia sentito dire -“cane!-, quell’attore in scena abbaia!” 

Annuisco e mi sorprendo ad  accennare un piccolo inchino. Si, mi è rimasto un pò del suo Inquisitore appiccicato addosso, non c’è dubbio. E tra me e me sussurro “Non c’è per l’uomo rimasto libero più assidua e più tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi”.

Il mio compagno di scena, Dio, a un tratto mi si avvicina in silenzio e mi bacia piano sulle esangui labbra novantenni mentre mi sto già struccando.

La prima e la quinta foto sono di Michele Amoruso, la seconda di Guido Mencari.

(Continua)