di Alfredo Angelici

(Il 23 febbraio i lavoratori dello spettacolo e della cultura scendono in piazza a un anno esatto dal blocco totale di cinema, teatri ecc. Un composito cartello formato da gruppi di lavoratori autorganizzati e sindacati di base ha indetto una manifestazione per rivendicare misure strutturali e universali di sostegno al reddito e una riforma del settore. Tra le diverse iniziative di lotta intraprese negli ultimi 12 mesi, una sta andando in scena, è proprio il caso di dirlo, dal 20 dicembre scorso a Napoli. #zonarossabellini è il nome di questo progetto che unisce protesta e performance artistica: due attrici, un attore e due drammaturghi/registi sono reclusi all’interno del Teatro Bellini senza poter uscire, senza contatti con l’esterno e sotto l’occhio sempre vigile delle telecamere che riprendono costantemente e mandano in diretta streaming l’intero processo creativo che ha l’obiettivo di dare vita a uno spettacolo teatrale. Questa è la loro storia raccontata da uno dei reclusi. F.C.)

20 dicembre 2020 – Primo giorno di reclusione. Volontaria. C’è il sole a Napoli e il profumo del mare che….

“Sono un carcerato eccezionale e spero di rimanere tale per tutto il tempo che dovrò trascorrere sotto questa rubricazione”.

Subito si impone a schiaffo Gramsci impertinente col suo monito e rovina l’inizio ordinario e rassicurante del mio racconto. Nubi di zizzania coprono di presagi il sole partenopeo.

Entro in teatro con un certo entusiasmo, è quasi un anno che non vedo un palcoscenico. Sorrisi, progetti, buoni propositi, pacche sulle spalle ed abbracci tra i partecipanti. Noi adesso lo possiamo fare, toccarci, siamo tutti tamponati, da oggi siamo “conviventi”, ci tocchiamo molto.

Giornalista all’ingresso – cosa ha pensato quando le è stato proposto di vivere insieme ad altri 5 tra attori drammaturghi e registi dentro il Teatro Bellini di Napoli?
Io (questa la so) – ogni attore amerebbe chiamare casa il teatro.
Giornalista (più provocatorio) – resterete fino a che il governo non si deciderà a riaprire i teatri?
Io – Ah ah ah! (risata di chi ignora ciò che è di là da venire) si.
Giornalista (giudicante) – non crede sia un gesto un pò folle?
Io (pedante) – la follia porta gli eroi dei romanzi al trionfo se viene dalla volontà di chi vuole il mondo come deve essere.
Giornalista (in pressing) – perché lo fate?
Io (preso in contropiede) – perché ho capito che tutti i burli sono zurli, lei vede un burlo, è uno zurlo? Non necessariamente perché non tutti i zurli sono burli (risposta evasiva tipica di chi non ha un solido parere).
Giornalista – (pausa) Ah ah ah (risata di chi cerca il significato laddove potrebbe non esserci)! Grazie.
Io – buonasera.

Clausura, reclusione, isolamento, come devo chiamare questo gesto politico-artistico? Decido di non voler indugiare nel termine coloniale “lockdown”.

Entro, guardo distrattamente il fuori per un’ultima volta e subito sono inghiottito da drappi e velluti, affreschi, decorazioni e ori, costumi d’epoca e…e….luci al neon. Azz… non avevo previsto il fattore luce al neon. Con un guizzo estraggo, non visto, il cellulare.

Io – “ok google” – e poi – “si può sopravvivere senza sole?”

Google – “secondo quanto trovato sul web oltre alla conseguente carenza di vitamina D dovuta alla mancata esposizione solare, vivere nell’oscurità costante indebolisce salute fisica generale e mentale”.

Lo sguardo al “fuori” che da ora in poi chiameremo il “Difuori” diventa meno distratto, più preoccupato, la fantasia scade i pensieri nella nebbia, viaggio nei ricordi e giungo ad un amore impossibile, intorno a me tutto in assolvenza si stinge di bianco e nero, ed io divento Humphrey Bogart e dico addio per sempre al Difuori che ha il volto di Ingrid Bergman. Senza che me ne accorga scappano dalle labbra le parole – “we’ll always have Paris”. Mi allontano lentamente fino a scomparire accompagnato da un gendarme, le trombe squillano. Dissolvenza. Fine

Il camerino dove passerò la mia residenza forzata è il numero 47, faccio la smorfia e mi appare Totò morto accanto a Silvana Pampanini scosciata, che mi da i numeri, 1,75 per 4,80 metri, le misure della mia nuova abitazione. Lo standard stabilito dal Centro Prevenzione Torture del Consiglio d’Europa, stabilisce la misura minima in 6 metri quadri. Ci rientro pelo pelo. C’è il classico specchio con molte lampadine colorate, importante per il trucco scenico. Un po di fondotinta chiaro per me che ho la pelle olivastra, glielo devo a Sasà, il disegnatore luci, che si incazza sempre perché – “non ti illumini! Tu sei buono solo a prendere il buio”. Un letto di Ikea riempie quasi tutto il lato largo del mio loculo, è messo a filoparete e mi guarda onesto. Poi una rella per gli abiti. Bagno senza bidet…non dirò a nessuno che userò il lavandino per un uso promiscuo. La doccia non ha la pressione sufficiente per attivare la caldaia, quindi l’acqua è fredda. Il pensiero va ad una frase  che ho archiviato con un asterisco nel cervello, detta da Rino, l’amministratore di compagnia, l’unica che al momento ricordo tra mille dettagli più utili: “abbiamo tre casse di vino rosso nel camerino numero 9”. Confortante. Ora so dove andare a piangere nei momenti di solitudine.  Sono soddisfatto. 

Evvai! Comincia un’avventura che racconterò ai posteri. Mi dico tra me e me a voce troppo alta. Un tuono risuona spaventoso proveniente dal Difuori scrocchia via il mio pensiero. Comincia a piovere ininterrottamente.

Prima riunione di compagnia, incontro i compagni di squadra:
Personaggi ed interpreti:
Licia, regista drammaturga, di Bari
Lorenzo, drammaturgo regista, di Napoli
Alfredo, io, attore anziano, di Roma
Matilde, attrice lanciata, veneta
Federica, attrice molto richiesta, di Palermo
Pier Giuseppe, performer, che è cancellato perché ha abbandonato il campo di gioco, portandosi via il pallone al trentatreesimo giorno di reclusione. Ma di questo non so se voglio parlare.
Reparto tecnico:
Salvatore, responsabile tecnico, lui ha piazzato mille telecamere in teatro, non puoi scappare al suo sguardo Orwelliano. Lui è The Big Brother.
Noemi le beau, produzione esecutiva, nessuno l’ha mai vista mangiare, si narra che si nutra di scarti di scenografie.
Maurizio e Francesco, gentili, magri e gran lavoratori, macchinisti e all’occorrenza supereroi.

Su tutti Daniele Russo, autore del format, direttore del teatro e uomo estremamente sexy, forse troppo.
Se fossimo nei titoli di coda di un film ora ci sarebbe “e con”, a sottolineare l’importanza dell’attore: Rino, direttore di produzione nonché mamma di tutti noi. Nel tempo libero, addetto ai fornelli. Abbiamo stabilito due regole auree: martedì mozzarella e sabato pizza, per il resto Rino fa miracoli con una piastra elettrica piazzata al bar del teatro. Quando non fa scattare l’allarme antincendio, friggendo i fiorilli ripieni pastellati, spadella lenticchie e vagonate di verdure in genere. Ma per favore, basta con le carote lesse!! Il momento dei pasti è l’unico momento di insieme goliardico in una reclusione di gran lavoro.

Dicevamo. Riunione di compagnia. La prima. Sguardi sconosciuti conditi di gentilezza ci sfiorano negli approcci sorridenti della prima conoscenza. Nessuno sapeva nulla dell’altro. A leggere i curricula l’unico criterio utilizzato per la scelta sono le opposte provenienze artistiche e geografiche. Sarà divertente penso, nella diversità la ricchezza. Si ode ancora un ulteriore tuono nefasto.

Ad ospitare la nostra permanenza è il Teatro Bellini, un tempio del 1870. A Napoli si dice “ ‘O San Carlop’a grandezza e ‘o Bellini ‘p ‘a bellezza!”. Conosco bene questo teatro ci ho recitato molte volte, mai però avrei pensato che un giorno avrei utilizzato la sala grande, 870 posti a sedere tra platea e 5 ordini di palchetti, come mio salotto personale, dove trascorrere in lettura, con un bicchiere in mano, le serate pensose e solitarie, accendendo non la abajour, ma mille lucine di platea e mille proiettori da palcoscenico ad illuminare con 150 kW il libro che mi accompagnerà al sonno. Alla faccia del risparmio energetico. Ed accendo anche l’impianto audio da millemila watt, alla faccia di chi mi vuol male: “Look for the silver lining”, Chet Beker. Mi sdraio sul letto di scena.

“Sono un uomo malato … Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole. Credo di avere mal di fegato. Del resto, non capisco un accidente del mio male e probabilmente non so di cosa soffro”.

Ora tu dimmi che c’entrano le Memorie dal Sottosuolo in un momento così romantico. Ridacchio del mio pensiero.

“Probabilmente pensate, signori, che voglia farvi ridere?” – di nuovo mi sfuggono le parole del maestro.

“Vi siete sbagliati anche in questo. Non sono affatto l’uomo allegro che forse credete”.

L’ho fatto di nuovo. Mi escono vive le parole di un uomo morto. Perché se tocco qualcosa di sublime mi appare la visione sottosopra del mondo?

Mi alzo in piedi, pronto al confronto con l’altro me, inutile opporre resistenza, conquisto il proscenio, accendo il microfono, distorco dal mixer il suono in uscita e finalmente mi libero stridendo in modo metallico:

“sì, proprio nei medesimi momenti in cui ero più capace di riconoscere ogni sottigliezza di tutto ciò che è sublime ed elevato…mi capitava non già di riconoscere, ma di commettere azioni così indecenti, che … ma sì, insomma, che magari tutti commettono, ma…che non andavano assolutamente commesse. Quanto più ero cosciente del bene e di tutto quel “sublime ed elevato”, tanto più mi sprofondavo nel mio limo e tanto più ero capace di invischiarmene completamente”.

Sento dei rumori dalla platea, guardo avanti e mi aspetto che entri Liza, la prostituta del racconto. Invece è Lorenzo il drammaturgo mio collega, con un pesce rosso in mano. Avrei preferito la prostituta. Provo a chiedere a Lorenzo se vuole interpretare, ora, la puttana, per me  … declina cortesemente.

Ecco, ho parlato di pesce rosso. Un dettaglio del quale devo rendervi edotti. L’esperimento sociale al quale sto partecipando con il mio corpo politico si chiama – “Zona Rossa”-, il simbolo è un pesce rosso in una bolla. Ognuno di noi ha un pesce rosso vivo e vibrante a cui badare. I nomi che abbiamo dato ai nostri animaletti rivelano un pò i caratteri delle persone che siamo:
“Cardone”, che è il nome del fidanzato di Licia, la proprietaria.
“Paura”, che è il sentimento primo provato da Matilde entrando qui.
“Splinter” perchè Federica è una burlona che ama segue le tartarughe ninja.
“Focaptain”, perché Lorenzo a volte è inintellegibile.
“Carmen” che è morta nello scarico del bagno di Giuseppe prima che lui ci abbandonasse perché stufo di noi.

Il mio si chiama Polluce protettore dei naviganti, vive tra l’Ade e l’Olimpo, praticamente un bipolare. E’ figlio di Leda che fu messa incinta da Zeus travestitosi da cigno. Una violenza sessuale mitologica in piena regola. Sento già i passi dei censori revisionisti che annusano discriminazione, pregiudizio ed insulto gratuito e sono pronti a cancellare Zeus dalla storia dell’uomo per metterci al suo posto Don Matteo.

Federica -“Che stiamo facendo qui?”
Licia – “Che senso ha questa scelta?”
Matilde – “Per chi lo stiamo facendo?”
Lorenzo – “………..” sta in silenzio e riflette, è silente e riflettivo.
Si accende una discussione, si infuoca, i punti di vista divergono si intrecciano e danzano in punta di fioretto.
“E sciabbole stanno appese e ‘e foderi cumbattono”. Questa non me la sento di tradurvela. Ed ancora
Licia – “la cultura è necessaria?”
Federica – “Il teatro è necessario?”
Matilde – “Che vuol dire essere artista oggi?”
Lorenzo – “…………” osserva e prende nota, un osservatore notante.
Eccolo di nuovo, il mio pensiero anarchico ed indipendente vola e va a posarsi altrove, più forte della penna. 

Di colpo si abbassano le luci di sala, un controluce color ghiaccio descrive una sagoma. Sono io, anziano, cieco, stanco. Avanzo piano e trovo seduto tra tagli laterali di luce azzurra un sacerdote cattolico. Sono ateo, ma ho chiesto un sacerdote. Mi siedo vicino a lui e parte un effetto sonoro tipo “battito del cuore” ad accompagnare la confessione del mio testamento. 

Io – “ho commesso il peggiore dei peccati che possa commettere un uomo. Non sono stato felice. Che i ghiacciai della dimenticanza possano travolgermi, disperdermi senza pietà. I miei mi generarono per il gioco arrischiato e stupendo della vita, per la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco. Li defraudai. Non fui felice. Compiuta non fu la loro giovane volontà. La mia mente si applicò alle simmetriche ostinatezze dell’arte, che intesse nullerie. Mi trasmisero valore. Non fui valoroso. Non mi abbandona. Mi sta sempre a fianco l’ombra d’esser stato un disgraziato”.

Si sente in lontananza un brusio a più voci sempre più forte fino a diventare assordante :

“Franceschini, completando un’opera di destrutturazione della tradizione italiana…..il nostro teatro è girovago per vocazione e storia….oltre ad aver precarizzato il lavoro…volano per il Turismo…il concetto di “alzate di sipario” era ugualmente funzionale….quale effettivo interesse e amore ci sia per la Cultura…il primo obiettivo è il business… oltre che la conservazione della memoria collettiva…lo spacchettamento del Ministero…va colto però un aspetto positivo…” . Silenzio.

Il Teatro ha fallito? I greci antichi non avrebbero mai immaginato che duemila anni dopo una pandemia come quella dell’ Edipo re avrebbe soffocato il teatro. Cancellato i lavoratori dello spettacolo nel silenzio. Abbiamo realizzato che non siamo essenziali. Solo ora. Ma la nostra  pandemia è iniziata da molto prima. Il teatro ha abbandonato la piazza ed il dibattito pubblico tempo fa. 

Ehi, dico a te. In che cosa ti posso essere utile io in quanto attore? Te lo chiedo veramente. Se te lo chiedesse un idraulico, immagino che sapresti precisamente cosa rispondere, se te lo chiedesse un avvocato anche e così via. Ma un attore a cosa ti può essere utile? Ad intrattenere e divertire? Scenderesti in piazza per difendere la cultura? 

La mia regista insiste che il nostro vivere in teatro è testimonianza del corpo politico, mi spiega che ciò che stiamo facendo è far diventare il nostro corpo il centro della comunicazione sociale, culturale, psicologica. Non è soltanto immagine esteriore di sé ma si fa veicolo di valore e disvalore. 

Senza essere visto ordino due Ceres su Glovo.

(continua)

La prima foto è di Michele Amoruso, la seconda di Guido Mencari.