di Francisco Soriano

Qui la prima parte.

L’anarchica firmava i suoi scritti con lo pseudonimo Ireos che era stato probabilmente il nome di sua figlia, morta prematuramente, da come si evince dal testo di una lettera inviata a Oberdan Gigli nel 1903. Nella propugnò l’idea di un’Italia rigenerata dal punto di vista etico, forte della sua tradizione storica e culturale con il ritorno a un umanesimo che avrebbe dovuto contrastare l’effimera deriva populista del patriottismo e dello sciovinismo, cause e valori propugnati da chi indirizzava il Paese verso avventure belliche con mero e biasimevole spirito di conquista. Studiosa e attenta alle trasformazioni socio-politiche, entrò a pieno titolo nelle diatribe politiche e si dedicò al difficile rapporto fra anarchismo e socialismo, sottolineando la vocazione governista di quest’ultimo partito. Gli accadimenti degli anni successivi circa le scelte strategiche dei socialisti italiani le diedero ragione: tanti furono gli errori che avrebbero tradito lo spirito di opposizione intransigente dei primi anni soprattutto nelle difficili congiunture storiche di quei tempi in continua mutazione: il nome di socialista è come bandiera di un codazzo di parolai politicanti. La sua attenzione verso le questioni sociali, le relazioni fra uomo e donna e il libero amore, furono affrontate nella consapevolezza di un accerchiamento politico e, soprattutto, culturale e antropologico. Come farà più tardi Anna Kulishoff nelle sue numerose attività e azioni che si concentravano sulle questioni di genere, pose l’accento sul ruolo delle istituzioni politiche e religiose dedite al mantenimento dello status quo sociale, come la Chiesa e le autorità di governo che intravedevano nella famiglia borghese lo schema di continuità del proprio potere e la garanzia della stabilità delle istituzioni autoritarie. Le denunce dell’anarchica non risparmiavano neppure i movimenti libertari in cui, in molti casi, si dava seguito alla concezione di una donna al servizio dell’uomo in condizioni di assoluta subalternità. Questa dinamica era la prova che le questioni di genere avevano una validità e una necessità di rivendicazione in modo trasversale. In alcuni studi su Nella Giacomelli vengono riportati stralci delle sue lettere e scritti sulla questione di genere: La donna è una creatura tutta da fare. Oggi la donna non esiste che come femmina dell’uomo, o cuoca, o lavapiatti, gingillo, ma non come individualità dignitosa, distinta. Non solo dunque il pregiudizio religioso che si traduceva nel rafforzamento delle forme di potere e supremazia maschile, ma la perniciosa condizione delle donne. Queste ultime dovevano assolutamente prendere in mano le redini della protesta per la rilettura dei ruoli di genere in seno alla società per decidere, finalmente, un proprio ruolo nella società civile e politica: Qui il pregiudizio è indagato come veleno che ‘attossica il pensiero’ tanto degli uomini quanto delle donne, e che fa quindi della avversione all’emancipazione femminile una questione non maschile ma maschilista. Sempre sul ruolo fondamentale dell’educazione nella società, Giacomelli sottolineava in modo interessante e originale quanto potesse essere importante una solerte autoeducazione fra le donne: Questo è pur noto ai signori uomini, i quali pur dilettandosi di femminismo, ci tengono a quella ragione che permette loro di ritenersi il sesso forte e di guardare con disprezzo a quel mondo in sottana che turbina loro all’ingiro. Questo farsi della donna [non può che partire dalla constatazione] della propria miseria, della propria indegnità [presupposto per l’inizio di una vera] autoeducazione. Dunque il compito del movimento anarchico, fra i tanti, era di smascherare e sconfiggere lo schema dell’istituzione famiglia chiaramente concepita e plasmata sulle forme gerarchiche e autoritarie di potere. L’intento era di destrutturare, con l’amore libero e il rapporto materialmente realizzato di parità fra uomo e donna, quel collaudato spazio-strumento al servizio dell’uomo che rappresenta la famiglia, mentre la donna rimaneva funzionale alla procreazione e mantenimento del focolare domestico “la poesia di Dio” è un dogma che lo Stato e le sue istituzioni utilizzano per ridurre gli spazi di libertà dell’individuo […]. Infatti“l’inviolabile santuario della famiglia” viene ben fortificato dal matrimonio che, nella sua forma contrattuale “ipoteca un’esistenza di anni e anni sulla base di sentimenti nati in un solo giorno”. Chi meglio di lei poteva percepire il pregiudizio e la delazione, che aveva sopportato le delazioni e le volgarità dei censori benpensanti di una società grigia e senza afflati di libertà, sacrificando slanci e creatività sull’altare del normale, del giusto, del religioso. Il pregiudizio morale è per Nella serpe velenoso in agguato [che] non risparmia nessuno.

 Fu nel 1905 che Nella decise di partire da Milano e affrontare un esperimento esistenziale e politico in una comunità comunista denominata L’Essai, ad Aiglemont in Francia. Nelle Ardenne la speranza della Giacomelli era di sperimentare uno spazio condiviso con donne e uomini animati dagli stessi intenti ideologici con finalità sociali e umane comuni. Questi progetti di vita comunitaria erano stati teorizzati da Giovanni Rossi detto “Cardias” e si fondavano su forme di comunitarismo: si autogestivano nelle attività del quotidiano isolandosi dal mondo esterno, cercando di far fronte alle difficoltà con assoluta autonomia. Questa comunità in particolare fu fondata da Fortuné Henry, fratello dell’anarchico dinamitardo Émile condannato alla pena capitale nel 1894. L’esperienza però non soddisfaceva Giacomelli che, con una seria requisitoria, ne metteva a nudo i difetti più macroscopici, come già aveva compiuto Malatesta richiamando gli anarchici a restare al loro posto di lotta. Nella si convinse che non è verosimile creare una società sospesa all’interno di un’altra società che si trova all’esterno, perché non è possibile nessuna forma di astrazione dall’ambiente circostante. Fortuné veniva accusato di instillare nella comunità germi di autoritarismo e di non risolvere il problema che risiedeva nell’assenza di un vero beneficio sia materiale che spirituale per le persone: un esperimento grottesco che finiva per essere una mera imitazione di una parallela società borghese. Attacchi negativi e credibili in un’analisi che non lasciava scampo a malintesi: era necessario compiere un percorso di emancipazione e non di isolamento che aveva invece il sapore di una credibile fuga dalla realtà e dalla soluzione dei problemi quotidiani. Una maturità in Giacomelli che lascia immaginare quanto fosse strutturata e consapevole delle sue idee e delle azioni conseguenti da intraprendere. Questa esperienza le aveva fatto capire che sopravvivere significava miseria e disagio, condizioni che compromettono la reale qualità della vita quotidiana e pregiudicano la tanto aspirata libertà da raggiungere. Nella insisteva sul tema della “rigenerazione mentale” degli individui al fine di cancellare nel nostro processo ideativo le influenze borghesi, che tanto danneggiano e compromettono il pacifico e comune vivere degli uomini. Delusione e disagio da questa esperienza maturarono in Giacomelli la consapevolezza della strada da seguire: Secondo me l’Umanità deve passare attraverso tutte le esperienze, deve commettere e sventare tutti gli errori e le colpe per imparare a dominarsi [..] per apprendere il valore e la portata della morale. Dev’essere a prezzo del suo sangue e del suo dolore che deve redimersi ed innalzarsi verso le idealità che gli spiriti eletti precorrendo i tempi le hanno vaticinato attraverso i secoli. Dopo appena un mese si concluse l’esperienza comunitaria transalpina. L’anarchica rientrava a Milano mentre nella sede del giornale si respirava un clima incandescente. La linea anti-organizzatrice della coppia Giacomelli-Molinari contrastava con coloro i quali intravedevano, in un esasperato individualismo, la manifestazione macroscopica del culto dell’Io: di questa corrente critica  facevano parte Libero Tancredi, Attilio e Ludovico Corbella che propugnavano una società in cui l’unico ha diritto alla vita per quanto glielo permette ed acquista la sua potenza […]; legge eterna e inesorabile della natura. Idee che non solo minavano la sopravvivenza del giornale per questioni teoriche interne al movimento ma apparivano come una vera deriva di una parte degli anarchici verso il culto della forza e sopraffazione. Con l’abbandono anche di Gigli della redazione del giornale si entrava in un momento di grosso disagio. L’esperienza importantissima del giornale aveva fine, già dal 1905, nonostante i diversi tentativi compiuti per assicurarne la sopravvivenza.

Intanto Giacomelli e Molinari continuarono ad essere oggetto di attenzioni non solo della questura ma addirittura nella persona del console generale d’Italia a New York che, con celerità, segnalò al ministero dell’Interno l’intercettazione di una lettera dell’anarchica ai compagni d’oltreoceano. La coppia richiedeva fondi per il finanziamento di un nuovo giornale, La protesta umana, secondo la dicitura della questura al fine di provvedere alla stampa clandestina di opuscoli e fogli sovversivi. Richiesta che fruttò subito l’intervento degli anarchici americani che organizzarono una festa campestre per raccogliere denaro da inviare a Milano. Nel 1906, infatti, grazie ai contributi giunti dagli Stati Uniti il giornale fu in grado di essere pubblicato e prendere parte alla dialettica di quei mesi su fatti che avevano avuto un riscontro emotivo e di dibattito nell’opinione pubblica di tutta l’Italia. La prima vicenda che sollevò una notevole protesta riguardò l’uccisione a Milano dell’anarchico Angelo Galli, nel maggio del 1906, ad opera di una guardia privata. Nel processo l’omicida fu assolto per legittima difesa. La seconda riguardava un uxoricidio: il tenente Vito Modugno oltre ad aver ucciso la moglie era noto per le violenze di cui era stato protagonista in Cina nel 1900: torture e uccisioni sommarie contro la popolazione durante il mandato ricevuto sotto l’egida di una coalizione internazionale al fine di partecipare alla repressione della cosiddetta “rivolta dei Boxer” contro l’oppressione colonialista. Giacomelli con coraggio e ardore accusò Modugno che aveva evitato ogni condanna per le sue azioni criminali e richiamò l’attenzione sull’impunità di cui godevano gli apparati militari quando venivano coinvolti nella repressione delle rivolte. Le repressioni cruente inoltre avvenivano in modo ancor più deprecabile perché, come nel caso dei Boxer, erano scoppiate per difendere la legittima aspirazione  dei popoli alla propria indipendenza: L’assaltare una casa, il passare i cittadini a fil di spada, il mozzar loro il naso e le orecchie, il flagellarli, il seppellirli vivi, è fra le operazioni più brillanti di guerra. Forse che i soldati non sono fatti per queste cose? A che servirebbero dunque le spade, i [fucili] wetterly, i cannoni e le mitragliatrici se non fossero usati per trucidare, fucilare e distruggere? […] Nelle spedizioni militari a scopo di civilizzazione, questi fatti sono comuni e generali. Al Transvaal, al Congo, in India, nel Sudan, in Cina, ovunque i soldati sono andati in missione, hanno portato la civiltà della divisa: violenze, stupri, rapine, assassini, crudeltà. Sono essi i soli colpevoli? Sempre sulla testata giornalistica, nel 1906, Giacomelli alzò la sua voce di protesta contro la condanna di due attivisti del sindacalismo rivoluzionario come Virginio Corradi e Maria Rygier, che erano stati condannati a 5 anni di reclusione per attività antimilitariste e reati contro l’ordine pubblico: influenza benefica esercitano sul nostro sentimento e sul nostro carattere le loro prove di coraggio e di forza. Il giornale finì ancora una volta sotto i riflettori della questura e, addirittura, fu oggetto di un dibattito alla Camera l’undici dicembre del 1907. Il sottosegretario Pozzo tranquillizzò i parlamentari sottolineando la vigilanza che la magistratura opponeva alle attività sovversive della rivista dichiarando che, più di cinquant’otto numeri ne [erano] stati processati: ben ventinove per istigazione a delinquere, per apologia di reato, per incitamento dell’esercito alla disubbidienza delle leggi, per eccitamento al regicidio, costringendo a nove cambiamenti del responsabile. Il giornale cessò definitivamente la sua attività nel novembre del 1909, non solo per motivi legati alla sua sostenibilità economica ma soprattutto per la pressione della polizia e lo scontro controproducente e drammatico con Paolo Schicchi a cui era stata ceduta la direzione del periodico.

Nello stesso anno Giacomelli e Molinari iniziarono un nuovo periodo di attività politiche gettandosi alle spalle la cocente delusione a causa dei notevoli strascichi polemici, anche di carattere personale con Schicchi, che offendeva la Giacomelli tramite la scrittura di libelli derisori e sessisti. A Milano insieme a Leda Rafanelli e Giuseppe Monanni che contribuivano a dare energie e linfa vitale al movimento anarchico, intrapresero diverse azioni. Giacomelli e Leda Rafanelli rivendicavano l’antimilitarismo e ogni tipo di interventismo nelle guerre mobilitandosi contro il governo Giolitti che intendeva intraprendere una spedizione bellica per la conquista della Libia contro la Turchia. La collaborazione con la coppia Rafanelli-Monanni fu importante perché furono avanzate riflessioni originali nella galassia multiforme del movimento anarchico dei tempi. Gli anarchici milanesi decisero di coinvolgere anche Malatesta nella direzione della Protesta umana, ma ricevettero un secco diniego da parte del maggior esponente dell’anarchismo italiano. Il triste momento vissuto con Schicchi, oltre a essere stata una delusione umana e una deriva politica, fu ancora una volta un tema di riflessione sulla violenza. Giacomelli ebbe modo di delineare un pensiero che era maturato sulle azioni violente fisiche e morali concepite come meri atti impulsivi controproducenti: la società anarchica non sarà soltanto la simultanea di un atto di violenza (la rivoluzione), ma sarà anche il portato d’una lunga e paziente preparazione delle coscienze. Dunque per Nella Giacomelli, sia ne Il Grido della Folla che ne La protesta umana l’idea portante rimaneva il sostanziale rifiuto di ogni violenza e la rivelazione del principio che la stessa potrebbe essere necessaria solo se colpisce chi ci colpisce. Il rifiuto all’atto sanguinoso è assoluto per le azioni dinamitarde che coinvolgono cittadini inermi: determinano semplicemente un’idea controproducente nei confronti degli anarchici e delle loro idee che dovrebbero ispirarsi a un umanitarismo ed egualitarismo che rifugge dalla logica del rischio del massacro indiscriminato degli innocenti. Il discorso sulla violenza dell’anarchica tuttavia non deve lasciar pensare a un suo rifiuto assoluto. Giacomelli rimaneva intransigente sulla necessità di accelerare i mutamenti storici con mirate azioni che non possono essere derubricate sotto la voce di una violenza fine a se stessa. Infatti gli esempi riportati dall’anarchica per una “giustificata” violenza riguardano, ad esempio, il regicidio a Monza per mano dell’anarchico venuto dall’America, Gaetano Bresci che, secondo l’idea della Giacomelli, aveva comunque dato un impulso a una evoluzione democratica del regime. In questa cornice Nella poneva l’accento sulla valenza dell’atto violento che rappresentava, in modo evidente, la risposta di cittadini che si ribellavano alla forza terroristica e brutale di uno Stato che non abiura mai ai brutali mezzi repressivi per soffocare libertà e diritti legittimi.

Con tono polemico Giacomelli si chiedeva, rivolgendosi ai socialisti, quando [la violenza] non è necessaria? […] Come la butterete giù questa baracca di odio e di iniquità che è la società presente? Come cadono le Bastiglie? Il limite alla violenza risiedeva dunque proprio nella sua causalità e nella legittimazione dell’atto: nella rivoluzione l’atto violento doveva avere peculiari caratteristiche presenti nella logica e nell’audacia, non di certo nell’istinto e nel rischio. Infatti i riferimenti nella decisione di adottare questa strategia dovevano essere ricercati nei valori dell’altruismo generato da un forte afflato umanitario che giustifica in pieno la rivolta e lo scoperchiamento contro gli ordinamenti che sotto la scorza del rispetto della legge compiono inusitati gesti terroristici: allo stesso modo che una statua di bronzo ha bisogno di braccia robuste per essere rizzate, così una teoria di ribellione ha bisogno di coscienze salde per essere affermata, esaltata, difesa. Parallelamente alla problematica sulla strategia della violenza come lotta si innestava il ruolo dell’educazione: Giacomelli infatti considerava la pedagogia condizione imprescindibile per la cultura del radicalismo anarchico, in quanto è propedeutica all’evento rivoluzionario. Giacomelli si preoccupava sinceramente della formazione delle coscienze rivoluzionarie, e intravedeva proprio nelle strategie pedagogiche la possibilità di rappresentare una vera barriera alla strutturazione mentale di un popolo educato a Dio, patria, famiglia e proprietà. Il modello era quello del grande libertario e pedagogo Francisco Ferrer y Guardia che fondò la Scuola moderna su principi antitetici a quelli di una società impostata gerarchicamente e autoritariamente sulla formazione di uomini capaci alla guerra e alla produzione.

Negli anni successivi la lotta antimilitarista occupava gran parte delle azioni degli anarchici. Il 7 giugno del 1914 ad Ancona si verificò una reazione violentissima della polizia contro anarchici, socialisti, sindacalisti e repubblicani che manifestavano contro la repressione dei militari di leva “rivoluzionari”. In età giolittiana molti furono gli “eccidi proletari”. Le forze dell’ordine spararono sulla folla e uccisero tre persone. In Italia fu decretato lo sciopero generale che durò diversi giorni. Tuttavia, ancora una volta, uno sconcerto profondo sconvolse gli anarchici: non solo tra le fila dei socialisti (nel partito socialista il direttore dell’Avanti era Benito Mussolini) e dei repubblicani, ma anche all’interno del movimento anarchico e tra i sindacalisti rivoluzionari alcuni militanti si schierarono per l’intervento in guerra, come Alceste De Ambris, Filippo Corridoni, Maria Rygier, Mario Gioda, Edoardo Malusardi, Edmondo Mazzuccato, Libero Tancredi e Oberdan Gigli. Quest’ultima defezione fu un colpo durissimo per la Giacomelli che mise in discussione l’amicizia con Gigli fino a quel momento rimasta cristallina negli anni: sono contro la guerra e il microbo patriottico che la innesca. Non ammetto sì predichi la solidarietà e la fratellanza dei popoli, e poi con l’arma alla mano ci si scanni a vicenda per conservare intatti ed immutabili le linee di separazione. Dai documenti storici emerge addirittura un testo di Edoardo Malusardi che scrisse al Popolo d’Italia fondato da Mussolini in seguito alla sua adesione alla guerra: non tutti gli anarchici si sono fossilizzati in formule stantie, ma che hanno – non curandosi delle scomuniche – saputo guardare in faccia alla realtà.

Furono le donne a essere le prime protagoniste della sfida allo Stato contro tutti gli interventismi in guerra. Fra le molte militanti anarchiche la coppia Giacomelli-Rafanelli fu sempre in prima linea: riconosciute da tutti come le intransigenti e rigorosamente internazionaliste. Il Primo maggio del 1915 le anarchiche milanesi furono arrestate per aver protestato contro la guerra dopo essere riuscite a impedire una manifestazione interventista: finirono in prigione Nella Giacomelli, Leda Rafanelli, Palmira Corbetta, le sorelle Clelia, Ines e Ida Premoli. Dopo appena un anno da questi eventi, il Primo maggio del 1916 e, successivamente, la domenica del 30 aprile gli anarchici si diedero nuovamente appuntamento in piazza Duomo per una manifestazione. Questa volta le forze di polizia che erano a conoscenza del progetto arrestarono alcune decine di militanti prima che potessero manifestare. Nella rete delle forze dell’ordine caddero nuovamente Giacomelli e Rafanelli. Purtroppo per Nella scattò un’ordinanza con un foglio di via obbligatorio che le intimava di risiedere a Lodi. Il Commissario civile appositamente nominato per la funzione di vigilare sulle azioni degli antimilitaristi scrisse al ministro dell’Interno riferendo proprio su Nella Giacomelli: Da una lettera intercettata dalla censura postale di Siena firmata col pseudonimo Irèos la Giacomelli risultava tra le più attive propagandiste della progettata manifestazione delle donne contro la guerra in occasione del “Primo maggio”. Intanto il giorno stesso in cui fu emessa l’ordinanza, cioè il 30 aprile, la Giacomelli veniva arrestata per aver preso parte al tentativo di dimostrazione in piazza del duomo. È stata denunciata quindi per contravvenzione all’art. 3 del R. Decreto legge 23 maggio 1915. Contro la Giacomelli sono in corso anche indagini per accertare la sua responsabilità nella stampa e nella diffusione del noto manifesto clandestino per la dimostrazione contro il 1° Maggio [sic]. Anche questi fatti dimostrano come non sia assolutamente prudente l’ulteriore permanenza in questa città della Giacomelli, negli attuali momenti. Dalle perquisizioni successive in casa di Nella non emersero altri elementi di colpa. I verbali della polizia tuttavia denotano una certa ossessiva ricerca delle colpe, tanto che considerarono l’anarchica comunque protagonista di atti contro l’ordine pubblico con la sua attiva e deleteria propaganda antimilitarista e antipatriottica. La sua attività nel manifestare veniva considerata come una forma di rivolta che comprometteva l’ordine pubblico, sancendo di conseguenza l’obbligo per la donna di risiedere a Lodi come un’esiliata politica: una sorta di rimpatrio coattivo nel luogo dove aveva vissuto per ben 25 anni prima di giungere a Milano. Per la sua ineccepibile condotta tenuta a Lodi e con una parola data in merito alla sua astensione ad altre attività di propaganda contro la guerra, il Commissario ritirò l’ordinanza e concesse il rientro a Milano della donna.

Negli autorevoli studi di Ercole Ongaro ben si delineano i momenti e le motivazioni della fondazione di una nuova creatura editoriale ad opera di Nella Giacomelli ed Ettore Molinari, progetto che resiste fino a oggi: Umanità Nova. Nel 1920 la stessa Giacomelli aveva proposto il nome giustificandone la scelta in un suo scritto: Umanità Nova è il titolo del quotidiano anarchico in progetto, titolo mite, quasi evangelico, non intonato, qualcuno dice, al concitato respiro della società in fermento, al tumultuoso avvicendarsi di eventi, al minaccioso delinearsi di azioni violente e di propositi audaci di quest’ora che viviamo. (…) Umanità Nova! Esso abbraccia nella sua significazione completa il massimo delle nostre aspirazioni, e ci segna il cammino per pervenirvi senza deviamenti. (…) Ci incamminiamo verso l’ineluttabile. La rivoluzione non è più un sogno; il comunismo libertario è una meta raggiungibile; l’ideale anarchico non è più un’utopia. Il grido della folla che esce tumultuoso dalle officine e sale dai campi sterminati e fecondi, rappresenta la più alta delle proteste umane contro la secolare sofferenza; Spartaco si accinge a spezzare le sue catene; le coscienze insorgono per la rinnovazione del mondo. Umanità Nova, meta suprema di tutte le nostre lotte e dei nostri dolori, noi ti adottiamo come simbolo luminoso di una visione vivente, e t’innalziamo al di sopra di tutte le folle, verso tutti i cuori, faro e bandiera di luce e di libertà. Nel febbraio del 1920 Umanità Nova faceva il suo esordio nelle edicole italiane. Le cronache storiche raccontano di un incontro a Firenze, un anno prima, al fine di discutere la nascita del giornale, dopo che la questione era stata affrontata a casa del professor Molinari a Milano. In Italia si viveva un momento di forti contrasti sociali, di lotte sindacali e operaie che infiammavano le piazze. In questo contesto Umanità Nova assolse a una funzione importantissima in termini rivendicativi e rappresentò uno spazio di confronto nuovo e prodigo di soluzioni e proposte. Certamente i momenti di sconvolgimento sociale nei primi anni Venti del ‘900 illusero molti teorici e attivisti della imminenza di una rivoluzione popolare che avrebbe potuto mettere in discussione gli antichi e collaudati apparati di potere.  In realtà non solo non ci furono sconvolgimenti rivoluzionari, ma la congiuntura di instabilità sociale suscitò nelle forze autoritarie la volontà di annichilire ancor più tenacemente movimenti e uomini del dissenso. Nell’ottobre del 1920 Malatesta insieme ai redattori del giornale furono incarcerati con le solite accuse di cospirazione verso gli apparati dello Stato. Nella Giacomelli scrisse addirittura un testo teatrale dove si parlava della paranoia dei giudici nel cercare, senza trovare mai nulla di credibile ai fini delle accuse, elementi e indizi contro gli oppositori al regime soprattutto anarchici. Nello stesso momento però, la stessa Giacomelli inviava una missiva a Umanità Nova in cui esprimeva un certo disagio verso la linea editoriale allegando anche le sue dimissioni dalle funzioni di amministratrice di Umanità Nova: C’è stato un periodo in cui per un diffuso e già esistente stato d’animo, prodotto dalla guerra, le masse sembravano alla vigilia della rivoluzione. Tu te ne sei compiaciuta, come tutti coloro che credono nelle fatalità storiche, ed hai ritenuto con tanti altri che doveva essere imminente ed ineluttabile quel rivolgimento sociale che secondo te deve segnare per l’Umanità una novella istoria. (…) Non ti sei trattenuta dal sognare ad alta voce e dal mostrare come fatto quello che in verità si era ben lontani dal poter fare. (…) Abbi pazienza, cara Umanità Nova, non avertela a male se rifiuto di associarmi al lusinghiero omaggio che ti fanno le Autorità e in opposizione ad esse pesto sotto i piedi la truculenta maschera che esse con malvagia e maliziosa intenzione ti pongono sulla faccia, perché tu non hai proprio nulla di terribile! È possibile che Giacomelli fosse convinta che una rivoluzione futura potesse avvenire soltanto nel caso in cui le coscienze degli uomini fossero pronte e mature, altrimenti l’evento rivoluzionario non sarebbe di sicuro quello auspicato dagli anarchici. Non a caso è importante porre l’accento su un aspetto fondamentale del pensiero dell’anarchica: quello di ritenere inscindibile l’educazione e la conoscenza dalla possibilità di realizzare una rivoluzione. Infatti precisò che la retorica rivoluzionaria finisce sempre per mettere in secondo piano quegli aspetti e condizioni più profondi che risiedono nella mutazione culturale ed etica in senso libertario: si creano dei ribelli, ma non si formano degli anarchici. Un concetto caro e profondo che non si slega dalla dialettica sulla violenza così caro all’anarchica. Tuttavia in quel momento di difficoltà si può ben constatare la buona fede del giornale soprattutto quando l’intera redazione di Umanità Nova, relegata in carcere, diede inizio a uno sciopero della fame per chiedere di essere sottoposti a un giusto processo. Il giudice a pochi giorni da questo evento derubricò l’imputazione di cospirazione contro lo Stato a reato di stampa e di parola in comizi pubblici. Ma una tragedia stava per abbattersi sull’intero movimento e su cittadini inermi grazie alla deriva terroristica di alcuni anarchici che posizionarono una bomba al Teatro Diana di Milano che, nel tentativo di uccidere il questore Giovanni Gasti, provocarono la morte di ventuno innocenti e ottanta feriti. Era lo stesso scenario che la Giacomelli aveva da sempre condannato e osteggiato con i suoi scritti sulla violenza e la sua idea di una “pedagogia rivoluzionaria” che avrebbe consentito la formazione di una coscienza collettiva di lotta e rivendicazione politica finalmente razionale e profonda. Non bastò questo, evidentemente, a risparmiare Nella dagli arresti indiscriminati e dalla massiccia operazione della polizia nei confronti di anarchici: il prefetto scrisse al Ministero dell’Interno: in seguito all’attentato terroristico del Diana fu qui arrestata e denunciata (Nella Giacomelli) con altri anarchici all’Autorità giudiziaria per associazione a delinquere. Nella Giacomelli provata da questa enorme tragedia venne successivamente liberata e potè tornare presso la dimora del professor Molinari. Gli stessi organi di polizia accertarono che, dall’ultimo arresto, pur professando sempre le sue teorie anarchiche la donna rimase sempre defilata dalle manifestazioni pubbliche. L’anarchica continuò la sua collaborazione sulla rivista Pagine libertarie e sottolineò quanto aveva già scritto negli anni precedenti invitando, ancora una volta, a fare un esame di coscienza che concilii un po’ più e un po’ meglio i nostri costumi, diciamo così politici, coi postulati ideali che perseguiamo, cercando di non surrogare le caratteristiche ideali con quelle passionali e transitorie del rivoluzionarismo in considerazione del fatto che se la rivoluzione diventa lo scopo primo ed unico dell’azione e della propaganda, si creano dei ribelli, ma non si formano gli anarchici, non si costruiscono valori e coscienze. Il professor Molinari si spense nel 1926 e Nella continuò a vivere con i figli dell’uomo che seguivano le orme del padre e si dedicavano al podere di famiglia grazie alla loro passione per l’agricoltura.

Nel 1927 Giacomelli diede alle stampe un testo, con prefazione di Molinari, dedicato alla riforma Alker sull’allevamento del baco. Era il segno di un allontanamento dalla vita politica attiva: Nella aveva patito arresti e cocenti delusioni soprattutto fra i compagni anarchici. Tuttavia nel 1928 venne nuovamente incarcerata in una nuova e massiccia ondata di arresti, circa cinquecento, perché sospettata di complicità in un attentato compiuto ad opera di antifascisti che vedevano coinvolti anche componenti del movimento “Giustizia e Libertà”. Finirono in prigione insieme a Nella anche i due figli di Molinari, gli ingegneri Henry e Libero di fede anarchica. Nella Giacomelli visse questa detenzione come un atto di gratuita ingiustizia, persecutorio perché maturato senza prove circa le sue attività sovversive: ha l’apparenza di esser stata voluta e calcolata. […]  Sono così stanca di sopportare questa ingiustizia senza colpa, senza aver fatto proprio nulla che la provocasse anche con delle apparenze o delle ombre, che spesso mi sorprendo a lamentare di non aver commesso niente. Preoccupati dalla situazione in cui la donna era stata incolpevolmente coinvolta e per il suo stato di prostrazione la sorella Fede scrisse ad Ada Negri, vicina al regime fascista, affinchè intercedesse presso il Duce per la liberazione della donna. Lo stesso fece Oberdan Gigli in una missiva inviata alla famosa poetessa. Ada Negri intervenne prontamente e Mussolini, con un telegramma, annunciò il suo assenso alla immediata liberazione della Giacomelli.

Nella Giacomelli si ritirò a Rivoltella sul Garda passandovi gli ultimi vent’anni di vita dedicandosi ai fiori, alle letture, all’allevamento dei bachi da seta. Non cessarono mai sulla sua persona controlli e appostamenti tanto che, nell’aprile del 1939, il prefetto riportava nei suoi verbali che la Giacomelli risiede tuttora a Rivoltella di Desenzano del Garda, casa Molinaccio [sic]. Pur mantenendo fede alle sue idee anarchiche, non consta svolga propaganda di sorta. È convenientemente vigilata.

In un progressivo quanto inevitabile pessimismo sugli accadimenti futuri e sull’Uomo come essere incapace di innalzarsi dalla brutalità e dalla volontà di dominio sul prossimo, in alcune sue analisi Nella si soffermò sulla conquista del potere da parte di Mussolini, sottolineando l’incapacità soprattutto del Partito socialista di rappresentare un argine alla tirannia nella coscienza nazionale: se nel movimento socialista vi fossero stati degli uomini capaci e non dei burocratici impiciati di riformismo e di legalitarismo fin nel più profondo del loro essere, sicuramente la scalata al potere del Duce sarebbe stata meno facile o addirittura evitata. La crisi interiore dell’anarchica era anche umana, un disagio crescente soprattutto alla stregua delle sue considerazioni teoriche così attuali e profetiche nei suoi tempi. Secondo Nella l’animo umano è in grado di mutare, di progredire, ma non è mai capace di sopprimere quell’istinto viscerale così lontano da quel razionale e legittimo sogno di liberarsi dalle catene dell’oppressore: ed allora c’è sempre la possibilità di veder l’uomo tornare allo stato bruto, allo stato originario, non appena le circostanze lo tenteranno? Una domanda e una tensione che ereditiamo dalla Giacomelli nella speranza sempre attuale di un risveglio contro il dominio dell’oppressore.

Si spense a Desenzano sul Garda nel 1949. Un altro destino.

 

Si ringrazia per la collaborazione nella redazione dell’articolo Gianpiero Landi e la Biblioteca libertaria Armando Borghi di Castel Bolognese.