di Franco Pezzini

Paco Ramirez, Amore e Morte, pp. 260, € 14,90, Morellini, Milano 2020.

“Non tentare mai di staccarti da terra quando parli di volare, / non ti girare né chiudere gli occhi se stai parlando della morte”: questo, di Leonard Cohen, l’incipit del romanzo.

D’accordo, non è scontato che in tempo di covid, mentre contiamo gli scomparsi – a volte persone care – si abbia voglia di parlare di morte in certi termini. Cioè in chiave gotica, o piuttosto neogotica, perché il romanzo di Paco Ramirez, Amore e Morte, si dipana tra tanatoprassi, esequie e anche più tardive avventure del cadavere da un lato, gestione interiore dell’evento morte dall’altro. Va pur detto che una certa poetica nera è stata ampiamente sdoganata anche a livello di commedia per famiglie, si pensi solo a Tim Burton, e anzi al canonizzarsi delle sue fantasie in chiave sempre gradevole ma un tantino ripetitiva. Eppure la narrativa – ma vorrei dire la letteratura, perché la stoffa di Ramirez è quella – in fondo va a provocarci proprio sui nervi scoperti, mostrando che c’è altro modo di riflettere sulle cose: e non certo in chiave di provocazione sterile, visto che con un simile tema non smetteremo mai di fare i conti. Parole intelligenti e un abbraccio – possiamo sintetizzare il contenuto del romanzo anche così – sono un buon modo.

Il testo è compatto, efficace, elegante: si potrebbe definirlo una commedia nera, ma l’etichetta è accettabile solo a patto di considerare che la storia è a tratti molto drammatica, animata da una genuina poesia, e l’amore per la vita celebrato è sincero e contagioso. Malaga, i giorni nostri: le voci che si alternano sono quelle di Raúl, giovane erede di un’avviata ditta di pompe funebri, e dell’adolescente Mariem, “Una mestiza, una meticcia [figlia di un islamico marocchino e di un’atea di stirpe kazaka]. Figlia del cielo e delle tenebre. Malinconica, possibilista, suggestionabile”. La madre di Mariem è morta improvvisamente, e la piccola è rimasta da sola con il corpo di lei per un’intera giornata: la mamma le manca terribilmente e non è strano che, amando disegnare, lei cerchi di richiamarne la presenza disegnandola sui muri di casa o più avanti, sulla stessa tomba, in una rivisitazione illustrata della storia di Orfeo. Per lei la morte è una dimensione divinizzata di incontro con la Madre: per lui oggetto di infinite riflessioni nel segno della razionalità, nonché motore di benessere. Certo, i due restano outsider: marginalizzata Mariem, considerato strano Raúl, circonfuso di un fascino tenebroso che pure preoccupa le ragazze attorno.

Peccato che Momi, amico dell’affettuoso padre di Mariem, e che a differenza di lui è un bruto maschilista esponente della più odiosa incultura patriarcale, spinga per il matrimonio della ragazza, artista ribelle e tenerissima, con il proprio imbarazzato figlio Assad. Mariem viene così regolarmente costretta a estenuanti uscite a quattro; e un brutto giorno (questo si può raccontare senza rovinare la trama con indebiti spoiler) Momi fa irruzione in casa mentre il padre di Mariem non c’è, e la violenta in chiave di atto dimostrativo e lezione pratica per l’inorridito figlio e per la ribelle. Diciamo solo che l’amore tra Mariem e Raúl, sbocciato sulla tomba della madre di lei (come quello tra Mary e Percy Bysshe Shelley) riuscirà a ricomporre ciò che l’espressione più becera e maligna del patriarcato aveva piagato in modo tanto grave.

Mariem è una figura meravigliosa, difficile non innamorarsi di lei, e la costruzione del profilo di Raúl lo rende una figura simpatica e umanissima, che nonostante la maturata disinvoltura verso il proprio terreno professionale troviamo a piangere commosso la morte improvvisa del mentore e compagno di lavoro Zacarias, ucciso in auto da un tir:

 

[…] appoggio la mano sopra a quella di Zacarias e comincio a piangere sommessamente. Mi sforzo di richiamare alla mente le elucubrazioni logiche e pseudofilosofiche con cui, in questi anni, ho costruito il mio bellissimo regno dell’Oltretomba. La Morte come necessità, come conseguenza della vita. La Morte come forma indispensabile di sopravvivenza al tutto.

Le so, queste cose, le so benissimo.

Ma perché, ora, soffro come un cane?

Non riesco a dare una spiegazione scientifica. L’unica consapevolezza, cocente e palpabile, è che, in barba a ogni materialismo e ragionamento ineccepibile, la Morte dei nostri cari ci devasta.

Non ci è consentito sfuggire alla nostra umanità.

 

I personaggi del romanzo, sia i principali che i caratteristi, sono felicemente delineati, senza forzature o schematismi caricaturali. Eppure ciò che più colpisce è il rapporto profondo che la coppia protagonista avvia a cavallo tra amore e morte. L’eccitazione con cui si uniscono su bare o in ossari è – paradossalmente – limpida e vitale: nulla di simile alle perversioni dei necrofili che Raúl disprezza, e neppure al frisson superficiale dei compagni di Mariem che, credendo di imitare la coppietta gotica considerata à la page, vanno in truppa a pomiciare al cimitero. La storia d’amore nata tra i morti, tra le parole sui morti e con le relative, straziate profondità, pur nelle sue note un po’ curiose ha la forza della vita che s’impone.

In una fase storica come la nostra, in cui le giovani generazioni faticano a coniugare al futuro, come non esistesse più il relativo tempo verbale, per un’eclissi di speranza di cui politica ed economia hanno pesanti responsabilità, è legittimo domandarsi se la provocazione neogotica tanto bene dipinta in questo romanzo non costituisca un abbozzo di risposta.  Appartiene a un’esperienza non così rara (a me è successo, ma ne ho sentito parlare anche da altri) la scoperta che a seguito di lutti “grossi” ci troviamo diversi, capaci di proiettarci avanti come prima non avremmo immaginato, con lo stupore di forze inattese: forse un meccanismo di specie per garantire il passaggio di testimone generazionale. Non c’è equivoco, “la Morte dei nostri cari ci devasta. Non ci è consentito sfuggire alla nostra umanità”, eppure il futuro nelle sue dimensioni vitali può paradossalmente affermarsi anche attraverso le pieghe dell’Indesiderabile per antonomasia. Dove l’eccitazione dei due amanti che si accoppiano nell’ossario o sulla cassa di un’esumazione, a dispetto del contesto peculiare, non è affatto necrofila, ma al contrario parla il linguaggio dell’esperienza profonda e (anche se non ci è mai passata per la testa) profondamente nostra: una primavera spalancata a esiti insperati appena una stagione addietro, e tanto più forte per la terribile memoria della perdita. Come se, paradossalmente, la serietà di un futuro vitale potesse essere garantita solo da un’interlocutrice tanto spietatamente più seria di tutti i portatori di storytelling istituzionali o economici che si affollano con la merce di vari tipi di alte velocità esistenziali.

Di più: il romanzo in questione non ha certo valenza allegorica, ma i due diversi approcci di Mariem e Raúl, il lavorare creativamente di lei sulla morte e sul lutto, e la gestione della morte quale buon artigianato da parte di lui, offrono qualche spunto ulteriore. Sia perché la morte (come mi insegnava un caro amico) “si può fare”, cioè si può affrontare – al pari della vita – in termini di buon artigianato: una considerazione che da allora ho sempre conservato come rasserenante. Sia perché offrirvi espressioni creative (artistiche, letterarie) la strappa all’afasia e ci immette in modo attivo nell’esperienza di un mistero condiviso. Come scrive Scarlett Thomas, “Abbiamo bisogno della narrativa perché siamo condannati alla morte”: la scrittura e forse tutte le arti sono un modo di affrontarla, di esperire altre vite e di approfondire il senso della nostra identità e degli strappi che viviamo come lutti (a volte solo in modo simbolico), delle varie discese agli inferi che ci toccano nel corso dell’esistenza… E questo riguarda anche tutta la morte che viviamo in vita, sia nelle componenti fisiche che qui Raúl ben evoca – il nostro sbriciolarci progressivo negli anni, capelli che cadono, frammenti di pelle… – sia in quelle interiori di strappi, lutti, depressioni. Mariem e Raúl hanno conosciuto le loro catabasi – lei attraverso una serie di esperienze tremende; lui fin dal loro primo incontro, quando la ragazzina dagli occhi da guerriera kazaka l’ha fatto precipitare nella fossa dello scavo, e il trauma l’ha segnato per anni – e, come sempre nelle discese agli inferi, anche loro vi hanno lasciato parti di sé: ma potranno riemergerne insieme. Al netto di qualunque romanticismo facile, ecco il futuro in un senso concreto.

Se le parole sul futuro offerte dalle agenzie dell’eterno presente si rivelano inevitabilmente farlocche, la provocazione presentata da Ramirez (ma si tratta di pseudonimo di un giovane saggista metà italiano, metà malagueno), in questo bel romanzo che mette a frutto le atmosfere neogotiche, è ben diversamente intensa. Proprio la percezione condivisa e viscerale di certe profondità, come per Mariem e Raúl, ci pone davanti un futuro: una strada aperta che per noi e quest’unica volta che siamo al mondo val la pena percorrere, in avventure da tentare o appunto baci da condividere. Non necessariamente tra le mura di un ossario, ma – perché no? – anche lì.

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