di Piero Cipriano

C’è questo saggio di un antropologo francese, Psicotropici di Jean-Loup Amselle, che maltratta, irride perfino, gli antropologi che sono “passati dall’altra parte”, “al nemico”. E chi è il nemico? E’ lo sciamano! Lo sciamano, a quanto pare, è il nemico dell’antropologo. O meglio, non lo sciamano tunguso che percuote i tamburi, voglio dire quello che la modificazione di coscienza la produce con metodi non medicinali, diciamo, quello non inquieta molto l’antropologo francese, ma lo sciamano amazzonico che un tempo era chiamato più propriamente vegetalista, o ayahuasquero, o curandero e solo da una ventina d’anni pure lui ha cominciato a definirsi sciamano (per una sorta di mondializzazione del termine) il medicine man (o medicin woman) che ti dà la bevanda drogastica detta ayahuasca che ti fotte il cervello, e non ti fa essere più quello di prima, ciao ciao al tuo lucido cervello che ti aveva permesso di fare le ricerche scientifiche e guadagnare la cattedra universitaria e la rispettabilità, accademica e del mondo reale, questo sciamano qui, si deduce dalla lettura del saggio, è il nemico numero uno dell’antropologo universitario francese. Questo è il rischio che Amselle ha scampato, per un pelo, il rischio che ha corso e sventato è che l’antropologo vada ai tropici con le migliori intenzioni, ma se appena allenta il controllo e si arrischia pure una sola volta a partecipare alle bevute cerimoniali che il mestatore propone, ecco che è fottuto, e fa la fine di Jaques Mabit.

Jaques Mabit d’accordo, non è un antropologo, ma non importa, perché è la prova che gli antropologi seri, scientifici, è meglio non bevano gli intrugli dei curanderi esotici, Mabit va in Perù nel 1992 per Medici senza frontiere e sai come succede, ti trovi lì, sei a due passi dalla giungla, ne senti dire tante, di questi vegetalisti che preparano bevande visionarie, e la provi, che ti potrà mai succedere?, una bevuta sola, una toma soltanto, e che sarà mai?, invece la pianta maestra, e lo sciamano che l’ha cucinata, ti fottono. E non torni più in Francia a fare il medico ma resti in Perù, e fondi la casa che canta, Takiwasi in lingua quechua, con cui affronti la grande sfida che la medicina occidentale sta perdendo: divezzare, somministrando la droga ayahuasca, persone dipendenti dalle droghe cocaina oppiacei alcol, e a un certo punto sei ancora un po’ il medico che eri prima, che conosce la medicina occidentale, ma questa è stata surclassata, inglobata, messa al servizio della medicina amazzonica, che è più antica è più potente, è una medicina che attinge non ai testi scientifici ma a quel “grande libro” e qual è questo grande libro ma è il grande libro mai scritto della medicina amazzonica che non è stato scritto proprio perché la sua conoscenza non passa per l’apprendimento scritto e neppure per quello orale bensì per una trasmissione diretta (mentale potremmo dire) da parte dello spirito delle piante, quelle piante che dalla scienza dell’al di là comunicano solo a chi sa aprirsi a questa scienza non scritta e non parlata. Come? Per mezzo dello stato modificato della coscienza che bere la bevanda ayahuasca determina, ecco come, a quel punto tu, Jaques Mabit, sei ormai un medico dei due mondi e delle due medicine: la medicina scientifica del mondo reale ma, soprattutto, la medicina non scientifica del mondo degli spiriti.

Questa cosa, che un medico lasci la medicina moderna e si metta a fare lo sciamano, o che schiere di antropologi (sfigati, sottintende l’antropologo autore di questo saggio, gente fuori corso che non trovava un posto all’università) lascino l’antropologia scientifica (non si capisce poi cosa connoti l’antropologia scientifica) e passino dalla parte del nemico, a Amselle, che rappresenta il prototipo del professore universitario di mezza età che ci tiene a mantenere integro il suo stato di coscienza ordinario, tutto questo proprio non va giù. Non se ne fa una ragione.

Eppure, anche lui c’era andato vicino. In Psicotropici, i suoi tristi e spaventati Psicotropici, a un certo punto, ha questo afflato di sincerità, fa la sua self-disclosure e lo dice, quando.

Lui è del 1942, ora va per gli ottanta. Ha una signora età. Forse non sa che tra poco pure lui, volente o nolente, uno stato di coscienza modificato lo avrà. Non l’ha voluto prima, tra poco arriva. La sua premorte, e la sua morte, saranno uno stato di coscienza modificato. Tutto ciò che ha temuto, e ha tenacemente scansato finora, lo vivrà, comunque suo malgrado, nel momento della morte. Faceva meglio a fare un po’ di tirocinio prima. Come Jaques Mabit. O come Jeremy Narby. Ma si è cagato sotto, il professore.

Confessa che a fine anni Sessanta (era giovane, nemmeno trent’anni) lui pure ebbe una certa attrazione per l’altra parte, il dark side, l’ombra dell’occidente razionale, avrebbe detto Jung. Era attratto da geomanti e marabutti del Mali, era “perfino” stato affascinato ma, precisa, solo “di tanto in tanto”, dalla loro capacità di predizione. Fu “perfino” tentato di passare dall’altra parte, nell’altro campo, nel campo nemico (sottinteso nel campo dell’irrazionale). Il suo collega, Jean-Marie Gibbal, s’era fatto prendere dalla credenza nel culto dei jiné, geni o spiriti che cavalcano i posseduti e li dominano, ma lui riesce giusto in tempo a prenderne le distanze, dai jiné e dal suo collega e, a causa di “episodi dolorosi” della sua esistenza (che non esplicita), si vede costretto a intraprendere una cura: e quale cura sceglie l’antropologo francese? Ma quella psicanalitica, si capisce, da bravo francese ancorché antropologo iper-razionalista si affida a una psicanalisi di verosimile osservanza lacaniana che lo aggiusta. Il super io mette la mordacchia all’es e il suo io si irrobustisce al punto che adesso non si rende proprio più conto che, grazie a questo suo troppo io, è un antropologo fallito.

Che giudizio severo. Ma chi sono io per dire che Jean- Loup Amselle è il prototipo dell’antropologo fallito? Dovrei essere almeno antropologo per dirlo con cognizione di causa invece sono solo uno psichiatra con qualche rudimento di etnopsichiatria e qualche frequentazione di sciamani curanderi e delle loro piante.

Il mio giudizio è severo perché negli ultimi decenni, in cui tutti i mondi da scoprire sono stati scoperti, e l’unico mondo inesplorato è quello che puoi vedere solo se entri in un altro stato di coscienza, un antropologo che (pur occupandosi di sciamani e di ayahuasca) ha l’ossessione della sobrietà, il culto, la venerazione dello stato di coscienza ordinario, e non si affaccia neppure una volta una soltanto dico una nell’altro mondo, nel mondo dove ci sono gli spiriti (direbbero gli sciamani) oppure ci sono i morti oppure i demoni e gli dei, che antropologo può mai essere? Che saggio su sciamani amazzonici e ayahuasca potrà mai scrivere? Un libro scritto da un voyer, uno che sta al di qua, a guardare a studiare da fuori i vari “attori della filiera sciamanica”, come li chiama, per osservare da fuori ciò che ha timore di vedere da dentro. Come uno che, invece di scopare in prima persona, guarda gli altri mentre sono intenti a… bere l’ayahuasca. Cosa potrà mai capirci?

Infatti è comico, Amselle, quando chiede alla “turista mistica” (tutto il saggio gronda di queste definizioni sprezzanti) egiziana Nabila, di descrivergli le visioni molto intense che ha avuto e lei gli risponde che “descrivere le visioni procurate dall’ayahuasca è come provare a descrivere il funzionamento di un reattore nucleare a un gatto!”. E’ comico come un gatto, Amselle: è lui il gatto comico che chiede la descrizione di visioni che ha il terrore di vedere in prima persona. Ah ma le vedrà. Tra poco le vedrà.

Un tipo troppo prudente che non è riuscito a fare ciò che altri, non più fessi di lui, hanno avuto l’ardimento di fare: esplorare i mondi interiori. Artaud, Huxley, Osmond, Jünger, Micheaux, Burroughs, Ginsberg, Leary, Grof, McKenna, Narby, Harner. Per citare i più noti. Intellettuali artisti medici antropologi, tutti curiosi di sapere cosa c’è dall’altra parte. Ma soprattutto, tu che sei antropologo, io dico, ora che il pianeta è stato battuto in lungo e in largo, come fai a non comprendere che c’è un altro mondo molto più inesplorato da esplorare e comprendere e cartografare che è quello degli stati modificati di coscienza? E che oggi un antropologo che si occupa di sciamanesimo e piante sacre non può ricusare di inoltrarsi in questi mondi, i mondi che da millenni gli sciamani sono i più attrezzati a conoscere, gli sciamani veri eroi dei due mondi, capaci di stare con un piede in questo mondo e con un piede nell’altro mondo?

Amselle in fin dei conti dedica questo suo libro al nemico, e i suoi nemici sono (oltre agli sciamani) quegli antropologi che hanno tradito la causa e sono passati dall’altra parte (dalla parte degli sciamani), i più noti dei quali Carlos Castaneda, Jeremy Narby e Michael Harner. Non gli perdona questo “percorso ibrido, al crocevia tra università letteratura e mitomania”, percorso che lui non ha saputo o non è riuscito a fare. Ma non risparmia neppure le decine di antropologi meno noti che definisce sprezzante gli “ex studenti scartati che andranno a ingrossare le file degli sciamani occidentali operanti nell’Amazzonia peruviana”. Pare che se non diventi assistente universitario o ricercatore con Amselle sei un fallito, sia che diventi Castaneda sia che diventi un anonimo sciamano che si auto esilia nella selva.

Chi è, invece, l’antropologo che ha fatto il passo che Amselle ha avuto timore di fare? Non mi riferisco al più noto, Carlos Castaneda, che nemmeno a me è simpatico granché. A Fellini sì, era simpatico. Non lo so perché. Forse perché Fellini, da Jung a Rol, tutto ciò che era misterico e irrazionale lo affascinava. La sapeva lunga Fellini. Ah, bisogna informare l’antropologo francese, che probabilmente Fellini era così affascinato dall’altro mondo perché lo aveva esplorato, ai tempi magici (fine anni Sessanta) in cui lui, Gillo Pontecorvo, Franco Solinas e altri, potevano viaggiare in acido con la Lsd somministrata dallo psicanalista Emilio Servadio. Per dire che non sono tutti squinternati gli esploratori dei mondi interiori, caro Amselle.

L’anti-Amselle è Jeremy Narby, uno che si è spinto dove Amselle e gli antropologi legati tenacemente allo stato di coscienza ordinario non potranno immaginare. Ha conosciuto cose che solo i morti e i morenti possono conoscere pur non essendo ancora morto. Nel 1985, a venticinque anni, va a fare la sua ricerca sul campo, presso la comunità di Quirishari, nell’Amazzonia peruviana, dove gli ashaninca hanno una conoscenza sbalorditiva delle proprietà medicinali delle piante.

All’inizio non è particolarmente interessato a questi aspetti della cultura ashaninca, perché ha una visione soprattutto politica. Le immense risorse della foresta amazzonica fanno gola alle agenzie che investono ingenti capitali per favorire lo sviluppo dell’Amazzonia. Espropriano i territori agli indigeni (sostenendo che non sanno che farsene, non li utilizzano, li lasciano incolti) per disboscarli, e trasformarli in verdi pascoli per vacche.

Il suo scopo (politico) era raccogliere quante più varietà di piante mediche, classificarle, per dimostrare che la foresta è utilizzata eccome dagli indigeni, è la loro farmacia, laboratorio, ospedale.

Ma come fanno a conoscere tutte queste piante? “Bevi l’ayahuasca, e lo saprai” gli dicono. “L’ayahuasca è la nostra televisione, è la televisione della foresta”. In quegli anni non sono molti gli antropologi che ci provano, Gerardo Reichel-Dolmatoff, in Amazzonia, l’ormai famoso Castaneda in Messico. Jeremy Narby osa. Assume la bevanda. Si apre un mondo. L’immagine più spettacolare è quella di due boa enormi. Gli parlano in un’altra lingua, che lui non conosce ma comprende, e gli spiegano che lui è semplicemente un umano. Cioè: non meglio di tutti gli altri viventi.

Ma bevendo, Narby comprende, anche, come hanno fatto gli sciamani amazzonici a inventare l’ayahuasca. L’ayahuasca ha una composizione chimica complicatissima. Come fanno, da millenni, gli sciamani dell’Amazzonia, a cucinarla? Due piante, almeno, bollite insieme. Una liana, la Banisteriopsiis caapi, provvista di beta-carboline (armina, armalina e tetraidroarmina) capaci di inibire le monoaminossidasi umane, combinata con foglie di Psychotria viridis, che contiene dimetiltriptamina (Dmt). Siccome la Dmt quando assunta per via orale viene inattivata dalle monoaminossidasi (MAO) gastriche, per cui niente visioni, gli ayahuasqueros amazzonici alla Dmt delle foglie associano gli IMAO della liana. Ma come l’hanno capito, che per avere le visioni bisogna mettere insieme due piante e proprio quelle tra le 80.000 specie vegetali amazzoniche? Gli ashaninca sostengono che glielo ha detto l’ayahuasca, e sì, quel che si dice un paradosso. E’ nato prima l’uovo o la gallina? Prima l’ayahuasca o la formula per l’ayahuasca? Gli scienziati occidentali solo negli anni Sessanta del secolo scorso hanno scoperto gli IMAO, e solo a partire dal nuovo secolo stanno studiando le proprietà terapeutiche di ayahuasca e altri psichedelici. Almeno cinquemila anni dopo.

Ma Narby comprende altro. Scopre che il mondo è diventato consapevole delle conoscenze etnobotaniche degli indigeni amazzonici. Senza la loro competenza, i chimici delle aziende farmaceutiche dovrebbero “testare alla cieca le proprietà medicinali di 250.000 specie vegetali che si stima siano presenti al mondo”. Una stima per difetto, visto che potrebbero essere oltre trenta milioni, le specie vegetali.

Finora, la prassi delle aziende farmaceutiche è stata mandare in avanscoperta antropologi, botanici e chimici, prelevare campioni di farmaci vegetali, estrarne il principio attivo e sintetizzarlo nei propri laboratori, brevettarlo, senza dare niente in cambio agli indigeni detentori del sapere. E’ caccia di frodo, dice Narby. Il curaro è l’esempio più eclatante. Da millenni i cacciatori dell’Amazzonia conoscono questo veleno che, soffiato con cerbottana, paralizza i muscoli delle prede senza avvelenare la carne. Negli anni Quaranta la medicina se ne appropria. Oggi gli anestetici utilizzati in medicina sono derivati sintetici del curaro. Anche per il curaro, se si chiede agli amazzonici come l’hanno scoperto, la risposta è: ce l’ha affidato il creatore dell’universo.

Ma (ecco il punto) una motivazione del genere non va bene. L’origine allucinatoria del curaro, o dell’ayahuasca, o di altri farmaci, non va bene, non si può essere presi sul serio, così. Se non li prende sul serio una parte degli antropologi di cui Amselle è il portavoce, figuriamoci gli altri (farmacologi, chimici eccetera). Non possono, gli indigeni amazzonici, essere presi sul serio se danno questa spiegazione come origine della propria conoscenza etnobotanica. Se la tua conoscenza è allucinatoria, dunque a genesi psicotica, non sei credibile, e non puoi avere le royalties dei nuovi farmaci prodotti dalle società farmaceutiche a partire dalle piante amazzoniche e dai saperi amazzonici.

Gli scienziati moderni (senza allucinazioni) solo negli anni Cinquanta del ventesimo secolo hanno scoperto che la composizione chimica di quasi tutti gli allucinogeni somiglia alla serotonina (5-idtrossi-triptamina), ipotizzando che agiscano, a livello del sistema nervoso centrale, proprio legandosi ai recettori della serotonina. Solo negli anni Sessanta hanno scoperto gli IMAO per inattivare le monoaminossidasi. Solo negli anni Ottanta scoprono che il cervello umano produce la stessa Dmt contenuta nell’ayahuasca.

Gli sciamani amazzonici ci sono arrivati millenni prima. Come? Glielo ha detto la pianta. Ma se non bevi l’ayahuasca, non puoi capire. Non puoi capire che quel che dice un ayahuaschero (“Me lo ha detto la pianta”) è vero. Ma perché la maggior parte degli antropologi, come Amselle, non beveva ayahuasca? Per il timore di essere squalificati dal mondo accademico, probabilmente.

E però l’acribia con cui Amselle prende di petto e di sarcasmo il nemico sciamano, rende poco credibile pure la sua giusta critica alla degenerazione dello sciamanesimo amazzonico che si sta verificando, da dieci-venti anni a questa parte. Perché una critica agli sciamani improvvisati, e al consumismo e al turismo mistico spirituale sciamanico, non può mettere nello stesso calderone dello sciamano improvvisato anche chi di questo sapere è autentico portatore.

A cominciare dagli anni Novanta l’ayahuasca, assunta come sacramento delle nuove religioni sincretiche del Santo Daime e della União do Vegetal viene esportata al mondo occidentale. Ciò accade mentre c’è una crisi di vocazioni per il mestiere di sciamano amazzonico, perché non conviene più fare il curandero per un pezzo di pane, il curandero, tradizionalmente, non è mai stato il più ricco ma il più povero della comunità, per le sue prestazioni riceve offerte in beni naturali, e ciò è o ovvio: un individuo che si è staccato dalla comunità, che ha avuto la chiamata, che è andato nel mondo dei morti o degli spiriti e ne ha tratto il potere di ottenere la guarigione, questo potere gli permane solo se non si indirizza verso il proprio benessere economico ma verso la comunità, e comunque, uno sciamano che sa abitare i due mondi, che ha un piede nel mondo reale e l’altro nel mondo degli spiriti, se ne frega della ricchezza o degli altri beni materiali, gli serve il minimo per sopravvivere. Negli anni Ottanta dunque i giovani amazzonici iniziano a ricusare il mestiere di sciamano. Essere sciamano significava essere povero. Il mestiere di sciamano è a rischio di estinzione quando, negli anni Novanta, inizia il turismo esotico-psichedelico-mistico-spirituale, occidentali desiderosi del rito sciamanico con ayahuasca (o altre piante) arrivano a frotte nei villaggi amazzonici. E gli indigeni si attrezzano per questo nuovo tipo di utenza. Iniziano, nei villaggi, le cerimonie per i bianchi, per i turisti dello spirito. Molti di questi pellegrini dell’esperienza psichedelica riporteranno nei loro paesi ciò che hanno appreso, nasce il fenomeno del neo-sciamanesimo: occidentali che hanno fatto la propria iniziazione in Amazzonia, occidentali talvolta perfino più autentici, sinceri, ispirati, toccati dalla grazia, di molti sciamani autoctoni. Perché l’arrivo a frotte dei turisti psichedelici in Amazzonia, nell’arco di un decennio, trasforma il mestiere sciamanico da mestiere povero in mestiere ricco. Iniziano i tour europei e americani di sciamani non solo amazzonici, ma messicani, andini, pellerossa, e non solo con l’ayahuasca ma con peyote il San Pedro il Bufo Alvarius la Dmt fumata eccetera. E’ chiaro che se molti diventano sciamani non per vocazione, ma perché è diventato un mestiere remunerativo e prestigioso, non tutti sono affidabili, bravi, altruisti, degni di fiducia.

Questa differenza, però, tra sciamano autentico e sciamano imprenditore, nel libro di Amselle non si coglie. Amselle butta via lo sciamanesimo con l’acqua sporca del capitale.