di Veronica Marchio

Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, a cura di Francesco Bedani e Francesca Ioannilli, pag. 142  € 7,65, Ed. DeriveApprodi, Collana Input, 2020

Il libro Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, appena uscito per la collana Input di DeriveApprodi, sistematizza, come scrivono i due curatori Francesco Bedani e Francesca Ioannilli gli interventi al corso di formazione politica tenutosi a Bologna presso la Mediateca Gateway, raccogliendo i contributi, oltre che dei due curatori, di Federico Chicchi, Maurizio Pentenero, Salvatore Cominu, Anna Curcio, Guido Borio e Raffaele Sciortino.

L’obiettivo del lavoro, che si mostra immediatamente come un elaborato collettivo, uno strumento parziale, volutamente incompleto, è quello di fare emergere la ricchezza della produzione teorica di un militante politico, Romano Alquati, sconosciuto ai più oggi e sminuito da tanti ieri, nonostante la sua capacità teorica e politica di aggredire l’ignoto a partire dalla realtà contingente, verso un possibile tutto da costruire. Se nel già noto infatti c’è la tranquillità della riproduzione, nell’ignoto c’è il rischio della rottura. E il rischio non tutti decidono di correrlo.

Il testo si concentra sulla sua produzione teorica dagli anni Ottanta in avanti, provando a identificare quei nodi teorici e politicamente rilevanti che segnavano l’inizio di alcune tendenze della ristrutturazione capitalistica, oggi in potente dispiegamento, e al contempo costringevano a immaginare e tracciare le possibili linee della tendenza contro soggettiva antagonista. Tornerò più avanti su questi punti.

In tutti gli interventi che compongono il testo emerge un tratto fondamentale, un’esigenza particolare che si pone come necessità rispetto alla studio dei testi alquatiani – molti dei quali inediti. Cosa significa infatti, concretamente, non fare del suo pensiero un feticcio? Mi pare che l’elemento peculiare di un simile atteggiamento sarebbe quello, tipicamente intellettuale, di settorializzazione di un campo teorico. Lo specialismo, la specializzazione, è un mezzo tipicamente capitalistico di neutralizzazione – nel senso che produce neutralità – della conoscenza e della formazione; una pratica che incatena il pensiero per renderlo innocuo. Di Romano Alquati allora, sottolineano i curatori, bisogna provare a utilizzare il metodo dello sguardo complesso sulla realtà: per cogliere il senso della realtà che osserviamo e vogliamo capire e trasformarlo in senso della possibilità – come sottolinea Borio. Una lettura della complessità a partire dal punto di vista della parzialità.

Insomma, rifiuto dello specialismo dovrebbe significare saper utilizzare ciò che può essere utile per la costruzione di ipotesi di rottura rivoluzionaria nel presente, avendo però la capacità di mettere in discussione e buttare via ciò che non serve più.
Ciò sopratutto perché, come emerge in vario modo e con diverse sfumature dagli interventi, Alquati non era meramente uno studioso, né un pensatore, né un intellettuale o solamente un sociologo critico: era un militante politico, la cui soggettività si forma per rotture e salti e la cui produzione teorico-politica è attraversata da un senso politico intrinseco, che si concretizza nella pervicace ricerca di una possibile tendenza di uscita dalla civiltà capitalistica, rappresentata dal fatto che la «capacità umana vivente» – concetto complesso e articolato approfondito da tutti gli autori – è irriducibile alla logica del capitale.

Prima di venire agli argomenti sostanziali e pregnanti per l’attualità che maggiormente emergono dal libro, vorrei tracciare alcune linee conduttrici che attraversano i contributi e che, a mio avviso, sono esemplificative del pensiero e stile militante di Alquati, elementi che potrebbero servirci a pensare e ad agire l’oggi dove la teoria politica rivoluzionaria non è al passo con la realtà – avendone perso il senso –, e non è quindi in grado di collocarsi, brancolando nel deserto del già noto.

La prima linea è quella che fa emergere il modo di stare dentro e contro la composizione politica del suo tempo, cosa che Alquati ha messo in pratica per tutto il suo percorso militante. Dal volume questo aspetto emerge in modo straordinario e variegato. Quell’essere «cane in chiesa» assume una connotazione tutt’altro che negativa. Il pensiero di Alquati dava fastidio perché non compiaceva gli amici con atteggiamenti trionfalistici o celebrativi, il suo essere «spavaldo» indicava la capacità di relazionarsi e comparare, ma anche di criticare in modo serrato gli altri, ricercando limiti e insufficienze, non la mera esaltazione delle esperienze specifiche. Un militante che rifiutava le semplificazioni e le scorciatoie strumentali, ma osava scommettere con occhi fini e pervicace sapienza. Mi ha colpito particolarmente la definizione che viene data del suo carattere da Borio, quello di «intransigenza sostanziale rispetto a un individualismo finalizzato al compromesso e allo scambio vantaggioso per il posizionamento personale».

Una seconda linea, anch’essa presente in tutti i contributi, consiste nella decisiva dinamicità e circolarità del modo di ragionamento complesso di Alquati. La sua capacità di modellizzare la realtà che aveva di fronte, senza costruire una gabbia chiusa – quella sì reclusione nel già noto e non bisognosa di essere modificata. È l’intelligenza politica di distruggere ogni staticità deterministica, portando il pensiero sempre al limite della sua processualità e trasformatività. Come scrive Ioannilli, un atteggiamento capace di «afferrare quello che c’è, per costruire quello che manca». Il suo «Modellone» della civiltà capitalistica allora non rappresenta una chiusura teorica, ma l’indicazione di linee di fuga, la sistematizzazione della realtà per immaginare un contro-percorso, una necessità imposta dall’accentuata complessità, ma anche il punto medio di una costruzione attenta e permeabile alle insorgenze.

La terza linea, forse la più importante, è quella di rintracciare in Alquati la continua propensione alla ricerca di forze soggettive – o meglio contro-soggettive – che potessero mettere in discussione il livello alto del dominio capitalistico, come sottolinea Pentenero. La ricerca di un’intenzionalità autonoma e contro, che non ha nulla di oggettivo né lineare, ma è calata dentro l’ambivalenza dell’articolazione stessa dell’agente umano, capitalisticamente formato come attore, dotato di risorse calde proprie in quanto persona, e sempre potenzialmente orientato a dei fini contro quelli ufficiali. Detta con Cominu, la ricerca quindi di forze soggettive che ampliano le condizioni dell’ambivalenza per trasformarla in possibilità.

L’ultima linea trasversale agli interventi ed esplicativa del senso politico forte che sta dietro il pensiero di Alquati, è la sua attenzione al nodo della formazione militante. Come ribadiscono sia Borio che Bedani, il suo obiettivo era quello di costruire delle macchine teoriche aperte e ipotetiche. Delle macchinette utili a costruire delle capacità collettive di ragionamento per pensare oltre; la formazione infatti deve «cambiare qualcosa di rilevante nella soggettività della gente, oltre che nella sua competenza e cultura».

Passando agli elementi sostanziali tuttora rimasti irrisolti, rispetto ai quali Alquati ha avuto il merito di operare dei salti teorici, come sottolinea Sciortino, mi pare che essi siano almeno tre, e non sono mai da considerarsi come aspetti o del capitale o del «contro-percorso». Si tratta di ragionamenti che sono ben collocati dentro il presupposto che, come scrive Curcio, il grado di intensità e presenza di politicità intrinseca e ambivalenza – quindi di possibilità antagonista –, dipende da rapporti di forza storicamente determinati. Questi tre aspetti sono a mio avviso i seguenti: la crisi della salarietà nei suoi aspetti tradizionali, accompagnata dal processo di iperindustrializzazione dell’ambito della riproduzione; la centralità del concetto di soggettività; la questione di cosa possa essere un militante politico oggi.

Per quanto riguarda il primo aspetto, sono soprattutto Chicchi e Curcio a concentrarsi sul processo di radicalizzazione dell’estrazione capitalistica di valore che Alquati descrive a partire dagli anni Ottanta. A ciò segue la domanda che Chicchi si pone in merito a quali potrebbero essere oggi le nuove forme di salarietà e operaietà, laddove il processo di estrazione e valorizzazione investe la vita, e la «capacità umana vivente attiva» in generale. Un’impresizzazione del mondo della riproduzione sociale, per riprendere Curcio, dove però esso non assume solo un carattere produttivo, ma diventa riproduzione di capacità umana, mezzo di accumulazione e valorizzazione diretto, senza mediazioni.
Nell’ambito dei processi di ristrutturazione, avverte Alquati, le trasformazioni sistemiche non sono neutre, perché non indicano né liberazione già avvenuta, né cattura inesorabile da parte del capitale.

Il dibattito allora si concentra sulla necessità di riqualificare, se non mettere in discussione, i concetti marxiani di forza lavoro e sussunzione reale. Scrive Curcio che si passa dal fuori della forza lavoro al dentro della capacità lavorativa, che Alquati definisce come «forze attive», intese in quanto combinazione tra le capacità attive umane calde e le capacità fredde macchiniche. Il processo di sussunzione reale si estende si enormemente, ma emerge una incompletezza della sussunzione effettiva (data l’incapacità per il capitale di sussumere fino in fondo quelle risorse calde, che gli residueranno sempre).

Il secondo nodo è quello della soggettività. Come già accennavo in precedenza, Alquati si pone il problema delle forze contro-soggettive possibili per la fuoriuscita dalla civiltà capitalistica. Nel libro questo aspetto viene bene messo in evidenza; ritengo a maggior ragione che questo concetto, quello di soggettività, in quanto baricentrale all’interno del pensiero alquatiano, necessiti di essere trattato sempre meno come un concetto e sempre più come un punto di vista. Borio lo descrive bene nel suo contributo, quella della soggettività è una questione sostanziale, un «cruccio» che Alquati non smetterà mai di portarsi dietro; essa non è un modo di essere generico o oggettivamente dato, ma intenzionale. La soggettività è diversa dal soggetto, la prima è propria di tutti gli agenti umani viventi, mentre il soggetto, con propri fini, è potenziale. Entrambi sono campi di battaglia tanto per il capitale tanto per «noi». La soggettività va riferita non al soggetto – che per Alquati è già contro se c’è – ma alla persona, in quanto soggetto intermedio e portatore di ambivalenza. È la contro-soggettività che va ricondotta al soggetto, strappando al capitale l’iniziativa dei percorsi di risoggettivazione individuale e collettiva.

Concludo con l’ultimo nodo, forse per noi il più importante – noi che da Alquati vorremmo imparare un modo di stare al mondo che non si stanchi mai di dare fastidio a chi pensa di avere tante certezze – su cosa significa essere un militante politico. Come scrive Bedani, ispirando il titolo di questa recensione, il militante è colui che pensa per pensare oltre. Alquati considerava la militanza come posizionamento, radicamento, internità, conricerca, studio, atteggiamento.
Il militante è colui che riesce a collocarsi e muoversi su più piani utilizzando saperi, scienze, conoscenze ecc. La conricerca è esattamente la capacità di fare interagire forze soggettive con soggettività differenti. È la messa in discussione, scrive Chicchi, di un rapporto neutro del sapere con le lotte, per produrre autonomia che sta nell’imprevisto.

Per chiudere, credo che questo piccolo libro possa essere pensato come una macchinetta per pensare l’oltre, una macchinetta incompleta, tutta da mettere a verifica nella realtà, perché il senso della possibilità bisogna averlo prima di tutto nella testa.