di Walter Catalano

L’allegoria è esplicita, la metafora trasparente. Un treno di 1.001 vagoni con a bordo 3.000 persone è tutto quanto resta dell’umanità dopo che il fallito tentativo di fermare il riscaldamento globale terrestre ha al contrario scatenato una glaciazione, precipitando la temperatura di superficie a -117 gradi. Il convoglio ad alta velocità continua all’infinito a fare il periplo del pianeta grazie a un motore dal moto perpetuo e la società che l’ha realizzato, la Wilford Industries, guidata dal misterioso magnate Mr. Wilford, ha in mano i destini dei superstiti. Sullo Snowpiercer, in prima viaggiano i ricchi che hanno finanziato la costruzione del treno e ora conducono una vita dissipata e parassitaria. Poi, via via, si scende di livello, dalla Seconda dove alloggia la classe dirigenziale amministrativa e burocratica; alla Terza dove i tecnici assicurano la produzione e l’autosostentamento, gestendo i bisogni primari e secondari di un claustrofobico micro-universo, attraverso la conduzione di allevamenti di bovini, frutteti, acquari, nightclub, bordelli, mercati post-industriali e così via; fino al Fondo, the Tail, la coda del treno, dove sopravvivono in semi-reclusione, quelli che non hanno pagato il biglietto, alimentandosi con barrette a stento commestibili e progettando la rivoluzione: irruzione armata nei settori anteriori del treno e rovesciamento dei rapporti sociali.

L’idea originaria da cui questa storia deriva, nasce da un graphic novel francese, Le Transperceneige – Snowpiercer è la traduzione inglese di Transperceneige, «trafiggineve» o «traforaneve» –  bande dessinée post-apocalittica in bianco e nero ideata da Jacques Lob e disegnata da Jean-Marc Rochette, pubblicata a puntate in Francia, con il titolo di La morte bianca, fra l’ottobre del 1982 e il giugno dell’anno successivo prima di essere raccolta in volume dall’editore Casterman nel 1984. Dopo il successo internazionale e la morte di Lob, lo sceneggiatore Benjamin Legrand rimette mano all’universo già delineato, cambia treno sostituendo lo Snowpiercer con il Wintercracker, e fra il 1999 e il 2000 dà alla luce altri due volumi, Il geoesploratore (1999) e La terra promessa (2000), che elaborano ulteriormente gli avvenimenti immaginati dai due autori originari.

Il fumetto è figlio diretto della fantascienza distopica di George Orwell – la data di uscita, del primo episodio, 1984, è già un destino – e, forse ancor di più, Aldous Huxley, ma anche del Robert Heinlein di Universo o Orfani del cielo, che dir si voglia, e di tutte quelle opere appartenenti al sottogenere generation ship, come il ciclo di Rama, di Arthur C. Clarke. Ma i sistemi chiusi non offrono speranza e le piccole comunità replicano e portano all’estremo i meccanismi di stratificazione sociale e diseguaglianza delle grandi: la divisione in classi, qui orizzontale, lì verticale, rimanda al classico cinematografico Metropolis, di Fritz Lang; la derivazione huxleyana si avverte invece nella suggerita identificazione fra disumanizzazione e decadenza dei costumi e per la diffidenza verso l’ipotesi rivoluzionaria vista più come vezzo della borghesia, la seconda classe, che come consapevole necessità del proletariato, gli occupanti delle ultime carrozze del treno, “il terzo convoglio”  (richiamo al Terzo stato della Francia pre-rivoluzionaria). Rispetto alle astronavi-mondo di Universo e simili, il microcosmo ferroviario di Transpeirceneige appare assai più cupo, in una vera e propria inversione di orizzonte: in Heinlein la scoperta della reale natura del mondo prospetta nuove speranze e testimonia la grandezza delle capacità umane, esaltate dalla tecnologia; nella trilogia francese, invece, la tecnologia consente solo una finzione di vita, senza scopo, senza obiettivi, destinata alla sconfitta: se i viaggiatori di Heinlein scoprono di avere a disposizione tutto l’universo, quelli di Legrand  accettano il dato di fatto che non c’è nulla al di fuori delle loro paratie stagne.

Anche stilisticamente il fumetto si evolve (o involve a seconda dei gusti): se nel primo episodio, La morte bianca, il disegnatore Jean-Marc Rochette si ispira al bianco e nero espressionista della scuola argentina e in particolare al Francisco Solano Lopez de L’eternauta, negli episodi più tardi il passaggio al colore conduce a uno slittamento dal grottesco al realistico che già prelude al cinema. Non per caso quindi il regista sud-coreano Bong Joon-ho scoprirà il fumetto, si innamorerà dell’ambientazione e per anni tenterà di avviare un progetto cinematografico liberamente ispirato alla trilogia francese (in particolare al primo episodio) riuscendo infine a realizzarlo solo nel 2013.

Bong Joon-ho, premio Oscar 2020, sia per il miglior film straniero sia per regia e sceneggiatura originale, con il piuttosto sopravvalutato Parasite, passa al vaglio della critica per un regista interessato a recuperare nel suo cinema il concetto di lotta di classe. In realtà il tema è per lui poco più che un pretesto abbastanza superficiale, almeno per come viene affrontato nei due film che maggiormente entrano in argomento: sia la fin troppo acclamata ultima opera, sia il suo indiretto predecessore, proprio Snowpiercer. In Parasite, ancor più che nel film precedente, la lotta di classe nell’unico senso possibile del termine, quello marxiano, viene rimpiazzata, attraverso una lettura sociologica abbastanza approssimativa, dal desiderio collettivo, dettato dal puro istinto di sopravvivenza (un collettivo, per altro, che non eccede mai gli stretti vincoli familiari), di mera emulazione e asservimento al più forte e al più ricco. Lotta fra poveri dunque, invece di solidarietà di classe, in cui il più veloce e il più furbo vince: il principio hobbesiano dell’homo homini lupus e quello concorrenziale del capitalismo, in cui tutti si abbandonano alla lotta più efferata per impedire l’affermazione altrui. Lo scopo finale è il successo performativo, la realizzazione individuale del neo-capitalismo. Un’impresa criminale è comunque un’impresa tesa alla massima soddisfazione personale. Anche la vendetta, quando si consuma, è dettata solo dalla frustrazione personale, da un impulso improvviso e istintivo. Plasmati sul modello vincente del manager i propri bisogni, coronati i propri egoistici desideri di riscatto, resta solo, incancellabile, l’odore proletario, stigmate che marchia e rivela l’inganno e il dislivello di classe. Il film è un ammiccamento agli esclusi, che non innesca un’immedesimazione per la loro condizione di indigenza ma per l’abilità di sfruttare ogni possibile evento in maniera manipolatoria: niente più che la performance richiesta al capitale umano dalla società neoliberista.

Con analoga affettazione, anche Snowpiercer parrebbe denunciare le disuguaglianze del mondo nella lampante metafora del treno. I diseredati senza biglietto promuoveranno un leader, novello Spartaco che guiderà la rivolta per rovesciare lo stato di cose esistenti. Mentre Porloff, protagonista di Transperceneige versione fumetto, però è quasi un flaneur della rivoluzione e il suo itinerario è più un vagabondaggio che solo per caso lo porterà a raggiungere la testa del treno, il percorso di Curtis (interpretato nel film da Chris Evans) ha almeno velleità rivoluzionarie, anche se, nel suo impulso tutto muscolare, l’eroe intende prendere il potere senza sapere poi bene cosa farsene. Si mette in scena una ribellione di corpi senza testa: il mondo è il treno e il treno è il mondo e nessuno, tra chi lo guida e chi si fa guidare, può contestare questo dato di fatto. Per questo i compromessi sono necessari e il rivoluzionario dovrà allearsi con un esperto di sistemi di sicurezza dipendente da una sostanza allucinogena – un po’ il suo alter ego negativo – e sostenere tutta una serie di combattimenti con il piccolo esercito di sbirri che proteggono l’ordine costituito. L’obiettivo è quello di arrivare fino alla locomotiva, rimuovere Wilford (il capo carismatico, circonfuso quasi da un’aureola sacrale) e sovvertire la brutale organizzazione vigente senza un progetto chiaro di gestione alternativa. I luoghi comuni anche qui abbondano: le rivolte già previste come elemento per mantenere l’equilibrio interno del sistema (un po’ Orwell e un po’ Matrix); l’assassino disposto a nutrirsi dei propri simili che diventa capo della rivolta; il capo carismatico che cederà il proprio ruolo al leader degli insorti: chi uccide il re diventa re; la presa di potere rivoluzionaria risolta con un duello “a due” come in un western; e così via.

Almeno da un punto di vista spettacolare però il film funziona; scenografia e regia sono incisive; tutto il cast, in particolare Chris Evans e Tilda Swinton, efficace e, come prodotto di intrattenimento, non c’è troppo da eccepire. Se rifiutiamo ogni pretesa di interpretazione “politica”, possiamo anche divertirci e ritenerci soddisfatti: come il suo successore Parasite, anche Snowpiercer è un lavoro complessivamente riuscito. Il problema sorge invece quando si vuole allungare troppo il brodo e – sfruttando il nome ormai assurto, a torto o a ragione, al Pantheon dei sommi, del cineasta coreano – si cerca di trasformare in serie Tv un testo ben conchiuso proprio nel suo formato breve.

La serie, sviluppata dallo showrunner Greame Manson, condivide con l’omonimo film di Bong Joon-ho l’ambientazione, ma cronologia e trama sono differenti. I fatti raccontati nella pellicola del 2013 si svolgono 15 anni dopo l’apocalisse e principalmente nel Fondo, fra gli ultimi vagoni; il serial visibile sulla piattaforma Netflix, si colloca invece sette anni dopo la glaciazione e, quindi, otto anni prima del film, e molto maggiore spazio viene dato a personaggi e ambienti dei diversi scompartimenti che non sono più quindi, come nel film, solo un territorio ostile da scoprire e conquistare per le avanguardie rivoluzionarie delle carrozze di coda. Il regista coreano figura come produttore esecutivo, così come fra i nomi dei produttori, oltre al suo, compaiono anche quelli di Scott Derrickson (regista di Doctor Strange) e Park Chan-wook (regista di Old Boy e di altri classici del cinema sudcoreano meno noti da noi). Nonostante questi personaggi di rilievo sbandierati; nonostante la raffinatezza del reparto scenografico, che annovera specialisti come Barry Robison, Stephen Geaghan, Paul Alix, Thomas P. Wilkins e Gwendolyn Margetson, a conferire all’ambientazione un’atmosfera sospesa e ambigua di retrofuturo; nonostante le musiche composte da Bear McCreary, che tutti ricorderanno per la colonna sonora di un’altra serie Sci-Fi classica, Battlestar Galactica; il prodotto risulta assai mediocre e di gran lunga inferiore al già non eccelso film. Il fumetto resta alla fine la punta di diamante di tutta la saga multimediale.

Se però film e fumetto almeno erano ben strutturati intorno a un centro, il tema della rivolta sociale – seppur abborracciata – i dieci episodi televisivi tergiversano e debordano, svicolando banalmente sul crime, tanto per allungare il brodo con gli ingredienti più dozzinali, e seguono le indagini di Layton, detective “proletario” cooptato negli scompartimenti “borghesi” per indagare sullo spaccio di droga e medicinali che potrebbe essere all’origine di una catena di omicidi seriali; lo sleuth riluttante, già che c’è, prende anche appunti per scatenare, quando sarà il momento giusto, la rivoluzione: un po’ come voler fare un cocktail fra La Corazzata Potemkin e Assassinio sull’Orient Express

Anche gli attori appaiono poco convinti, dall’attrice premio Oscar Jennifer Connelly (A Beautiful Mind), al rasta, quasi sosia di Bob Marley, Daveed Daniele Diggs, vincitore di un Grammy e di un Tony per il musical Hamilton. La serie spicca come un bell’esempio di dissipazione di risorse ed è utile guardarla: non solo il bello ma anche il brutto va conosciuto. Certo ci sono dei limiti a questa regola: ad esempio la recente serie horror – si fa per dire – Curon, trionfalmente presentata come  debutto di Netflix Italia, è un pastrocchio inguardabile, soporifero e mal scritto sul quale non vale la pena di sprecare neanche un minuto della propria vita di spettatore, ma Snowpiercer non arriva a tanto obbrobrio e una serata con gli amici, a birra, patatine e battute salaci, gliela possiamo anche dedicare… Motivo per cui già la produzione minaccia una seconda stagione: perseverare diabolicum…