di Giovanni Iozzoli

Sono già passati due anni da quando Philip Roth ha abbandonato questo mondo. Aveva già lasciato da tempo il suo mestiere di romanziere, continuando a scrivere per sé, in una specie di esercizio automatico e quasi impersonale. Scrivere senza una ragione, senza un obiettivo, con la stessa naturalezza con cui un amante del legno pialla nel suo laboratorio, prima di cena. Scrivere perché non hai mai fatto altro, non puoi fare altro, per continuare a dare un senso vero, profondo, a quel che resta della tua vecchia vita.

Molto di quel materiale, prevalentemente saggistico, è stato raccolto e pubblicato un anno prima che morisse. Ma quello che Roth aveva davvero da dire lo aveva già scritto nei suoi romanzi: l’ultimo suo lavoro, Nemesi, è del 2010 . L’anno dopo dichiarò che si sarebbe ritirato perché continuando “avrebbe potuto fare solo disastri”: momento topico, il raggiungimento del punto di saturazione, dopo una vita interamente spesa “a rigirare parole”. E anche quello che c’era da scrivere, su di lui – presenza mondana ingombrante, spesso al centro di polemiche feroci e autentici atti di culto – è già stato scritto, tra biografie autorizzate e non – ottima quella di Claudia Pierpont Roth, a cui l’autore collaborò volentieri, nonostante il tono franco e non elegiaco dell’opera.

Ma qual è il lascito vero, ultimo, di questo gigante della letteratura americana contemporanea? Forse la sensazione che ha lasciato, nei suoi lettori più attenti, di non riuscire mai ad afferrare il segreto lontano di quella scrittura, qualcosa di nascosto, indefinito, pur nella estrema evidenza della pagina scritta, qualcosa di non catalogabile nei canoni tradizionali della critica. Philip Roth lascia sempre una domanda sospesa nell’aria: perché i suoi libri, le sue storie, i suoi personaggi, sono quasi tutti segnati da una cifra memorabile, imperitura, perché esercitano una fascinazione che solo i grandi classici riescono a impiantare nell’anima dei lettori?

In fondo Roth non era “il più bravo” della sua generazione. Riconosceva l’inarrivabile primazia di Saul Bellow; ammetteva pubblicamente che Updike – amico, poi nemico, sempre competitor –, con la sua saga del Coniglio, si era dimostrato tecnicamente superiore per la profondità descrittiva dell’America wasp sconvolta dal boom e dalla rivoluzione sessuale; sapeva di doversi misurare con un gigante come Don De Lillo – che pubblica Underworld lo stesso anno di Pastorale Americana. Lui stesso era consapevole di non essere il migliore, e lo ammetteva. Eppure: perché i suoi libri, almeno alcuni, danno l’idea di essere il lascito “del migliore”? Qual è l’ingrediente segreto di una scrittura potente, ironica, ma anche contorta, personalissima, colloquiale fino allo stremo, allergica alle esigenze di sobrietà che da sempre gli editor vanno predicando, senza mai sfociare nello sperimentalismo bislacco oggi di moda? Non era il “number one” ma dalle sue pagine si sprigiona una misteriosa scintillanza che tutti gli altri non possono non avergli invidiato. E questo a dispetto delle malriuscite trasposizioni cinematografiche (Dio ci preservi dall’ultima, la serie HBO ispirata alla geniale ucronia di Complotto contro l’America).

Fu un personaggio famoso, decisamente non schivo, anche se mai in cerca di pubblicità o visibilità gratuita. Rilasciava interviste, ebbe amicizie prestigiose con il gotha della cultura americana e si concesse più di uno sprazzo mondano – compreso un breve flirt con Jaquie Kennedy. Più di De Lillo, riusciva a unire pubblico e critica, ma la sua carriera letteraria non fu sempre rose e fiori.

Dopo l’esordio pruriginoso del Lamento di Portnoy, che tanta popolarità gli aveva dato consacrandolo come il più interessante dei giovani della sua generazione, affrontò una ventina d’anni di scrittura dalle alterne fortune. In questa fase si annoverano gioielli come Lo scrittore fantasma (in cui osa resuscitare l’icona santificata – e mummificata – di Anna Frank, immaginando di incontrarla negli anni ’60, confusa e attraente giovane donna di cui invaghirsi, in mezzo alle memorie ancora fumanti dell’Olocausto e l’ebbrezza di quel decennio pirotecnico, facendo incontrare nella finzione narrativa due universi lontanissimi). Ma anche anni di solenni stroncature, in cui le grandi aspettative sollevate agli esordi parevano non concretizzarsi mai pienamente, lasciandolo nel limbo degli “ex giovani” di talento tristemente inespressi.

Fu al giro di boa dei sessant’anni che Roth infilò la sfilza dei suoi capolavori, talmente letti e famosi – come La macchia umana – da suscitare lo snobismo di quei critici che lo avevano atteso al varco per anni, e adesso guardavano diffidenti agli enormi successi di pubblico.

Cosa era scattato, in quegli anni, per dargli la spinta decisiva? La vecchiaia incipiente – che con pudore chiamiamo maturità? Lo sblocco emotivo di alcuni nodi esistenziali, la sua uscita, come ha scritto qualche critico, dalla fase di “eterno figlio”, dal ribellismo emotivo e identitario, per entrare dentro – lui e il suo alter ego Nathan Zuckerman – la fase malinconica dei capelli bianchi, degli acciacchi, delle disillusioni? Probabilmente è questa condizione che lo porta a usare al massimo la sua forza, la chiave di lettura di ogni storia e ogni suo personaggio: il paradosso – l’incongruente, l’inatteso, lo sconcertante – portato allo stremo, con coraggio, risolutezza, senza le speranze giovanili a mitigarlo, con la spietatezza di chi non perde più tempo a dare un senso alla vita.

E proprio la sua identità ebraica, è il terreno di fondo del suo spirito di paradosso: mai uno scrittore ebreo, ufficialmente ateo e allergico alle rivendicazioni identitarie di molti suoi correligionari, aveva passato tanto tempo a parlare e fare i conti con la “sua” ebraicità. E questo con una ossessione, un puntiglio, uno scrupolo psicologico, da far invidia a un rabbino. La sua pretesa di essere considerato “un ebreo” senza tanti altri aggettivi, “come essere qualsiasi altra cosa, come essere una mela”, si scontrava con il suo continuo battere e ribattere su quel medesimo tasto irrisolto. Come il prurito della pelle segnata dalle ortiche: anche se sai che non fa bene, continui a grattare fino al sangue, se necessario – questo significava ebraicità per il laicissimo e peccaminoso Roth.

Lo stesso esordio di Portnoy fu traumatico, con le accuse pubbliche rivoltegli da ambienti religiosi, circa il presunto “odio di sé”, tipico delle minoranze vogliose di assimilazione, che la scrittura del giovane Roth, dietro spregiudicatezze e oscenità, in realtà pareva rivelare agli occhi dei suoi detrattori. Forse fu proprio quello shock a chiarirgli le idee: non doveva ritrarsi dalle polemiche, doveva scavare e scavare e ancora scavare dentro il filone aurifero della suo ebraismo, perché lì dentro c’era l’arte, lì c’era la vita, lì c’era il fuoco, e le ferite aperte che germinano letteratura.

E negli anni sfornerà una galleria di “moderni tipi ebraici” assolutamente non stereotipati, problematici, contemporanei, eppure segnati da un qualche arcaico rimando tradizionale: i vecchi padri ebrei, laboriosi indomiti e premurosamente oppressivi verso il destino dei figli; e figli come Seymour Levov, l’eroe di Pastorale Americana, che ha realizzato il sogno dell’integrazione americana persino nella eccellenza genetica, meritandosi l’appellativo di “svedese”, genitore e imprenditore modello a cui toccherà la più feroce delle nemesi paterne; e Sabbah l’ebreo gaudente, ripugnante e pure a suo modo romantico, che incarna il “perturbante”; e Rita Cohen, l’enigmatico spiritello ebraico che disorienta i lettori di Pastorale, con le sue maligne apparizioni agli snodi cruciali della storia, simbolo dell’insopprimibile pulsione critica, feroce, erotica, oppositiva, che pure é stata una componente dell’anima della diaspora. Il filo conduttore dell’ebraismo afferra Roth e lo conduce nei labirinti oscuri della vita e del romanzo.

“Nella mia vita mi sono occupato sempre delle stesse cose ebrei, ebrei, ebrei, Newark, Newark, Newark”. Ed effettivamente i nodi identitari e quella “periferia” newyorkese che è considerato il Jersey, sono gli ingredienti immancabili, lo sfondo di ogni sua narrazione: e si sposano meravigliosamente bene. Qual è il luogo d’America dove un ragazzino ebreo piccolo borghese può meglio affrontare gli anni più turbolenti ed eccitanti della storia americana – dalla vittoria della guerra alla crisi del Vietnam? Il Jersey, naturalmente. A un passo dalla grande metropoli ma ancora in una dimensione umana, periferica, in cui quel ragazzino può ben dire di conoscere e identificarsi con ogni marciapiede e ogni vicolo del suo (ebraicissimo) quartiere. L’identità ebraica di prudente ponderatezza, che si dilata e si stiracchia verso la tensione sessuo-politica degli anni ’60, tendendosi senza mai spezzarsi: quanta ricchezza di temi, storie, volti, parabole possono sorgere da un simile calderone?

E poi a venticinque anni il matrimonio con una shiksa conosciuta in un bar dove la ragazza lavora – una bionda non ebrea che gli da l’illusione di avere finalmente conquistato la vera America, l’America profonda del biondismo; ma proprio come l’America, dietro la patina di brillantezza wasp, si nasconde un portato di sofferenza irredimibile e violenta, una sorta di miniera radioattiva. Il matrimonio è un disastro follemente distruttivo, che demolisce la vita di Roth e la condiziona (anche economicamente ) per molti anni, spedendolo in analisi per “recuperare la sua esausta virilità”. La bionda ha un passato terribile, viene da una scassata famiglia di alcolisti, le sono stati sottratti da un giudice due figli ed emana una tale carica di aggressività possessiva, che il giovanotto brillante della Bucknell University ne viene travolto.

Ma che fa uno scrittore – oltre ad andare in analisi, assumere psicofarmaci e lamentarsi del destino? Prende tutto questo veleno, lo mette a macerare nel suo laboratorio segreto e lo trasforma in una saga narrativa potente. Attraverso trasposizioni e finzioni letterarie, continua per anni a raccontare del suo maledetto matrimonio. Dal romanzesco avvio, con la futura moglie che per costringerlo al matrimonio si finge in dolce attesa, dopo aver acquistato in un androne del Bronx le urine di una barbona nera incinta; fino all’inaspettato epilogo: la morte in un banale incidente stradale della donna, che lo libera dalle vessanti condizioni imposte dal divorzio, che avevano ridotto Roth sul lastrico.

Un matrimonio sbagliato, diventa uno scrigno inesauribile di vite e controvite – una devastazione mentale al limite del patologico, si trasforma in una potente macchina narrativa. Anche Roth, alla fine, dovrà riconoscerlo: chi, se non la moglie distruttiva e squilibrata, è stata la vera editor e la vera musa della sua esistenza? Chi ha preso lo studentello presuntuoso innamorato di sé e dei libri e lo ha sbattuto faccia a faccia con la vita vera, fatta di stupri, alcolismo, sofferenze inenarrabili e famiglie devastate? Dopo gli anni passati a lottare con la bionda shiksa, Philip, non può che ringraziare e renderle pubblico riconoscimento (pur specificando che se fosse Dante, saprebbe bene dove collocarne il destino post-mortem).

Negli anni buoni della sua scrittura, questa “domesticità” di ambienti, temi e personaggi, si è fatta più ardita, è andata a porsi in contesti diversi, lontani dalle strade di New York. È il caso di Operazione Shylok, dove i temi classici di Roth vengono calati nel calderone furioso della storia: Gerusalemme diventa il teatro in cui l’autore, passata la mezz’età, si confronta con i suoi nodi irrisolti di uomo, di ebreo, di scrittore progressista. È la Gerusalemme di fine anni ’80, in cui una Corte israeliana processa John Demjanjuk, operaio di Cleveland riconosciuto come il boia di Treblinka. Ma sono anche gli anni in cui l’Intifada palestinese mette Israele sul banco degli accusati della storia, in un rovesciamento schizofrenico e drammatico in cui Roth irrompe portandosi dietro le sue paranoie, le sue domande irrisolte, saltabeccando tra le aule del processo Demjanjuk che lo ipnotizza, l’amico professore palestinese che cerca di tirarlo dalla sua parte, il Mossad che prova ad arruolarlo come doppiogiochista, in un gioco tra finzione e verità storica, prolisso, verboso, ridondante di temi e di parole, ma straordinariamente avvincente.

Ha sempre saputo, giocarci, con la storia, Roth. Come quando racconta, in Complotto contro l’America l’avanzata del fascismo in America. Cosa sarebbe successo negli Stati Uniti se, alle elezioni presidenziali del 1940, Charles Lindebergh, eroe nazionale germanofilo, avesse battuto Franklin Delano Rooosvelt e si fosse piazzato alla Casa Bianca? Lo sguardo ignaro di un ragazzino di un quartiere ebraico, registra lo smottamento progressivo, la deriva lenta ma inesorabile verso gli scenari peggiori: l’incubo degli ebrei americani che rischiano di ritrovarsi – davvero e in via definitiva – soli dentro il montare della marea antisemita. Ma anche senza complesse evocazioni geopolitiche, a Roth basta raccontare una banale cena di classe tra ex studenti ultra sessantenni, per far fremere le pagine di ironia ed epicità: nel salone del ristorante aleggia l’Angelo della Storia, mentre dentisti, commercianti, carpentieri e casalinghe raccontano la loro normalità, la poderosa ascesa sociale che, grazie al boom del dopoguerra, ha consentito loro di abbandonare i vecchi quartieri ebraici e incarnare il sogno americano della piena assimilazione – salvo accorgersi che alla fine del sogno, ci sono sempre dentiere, prostate infiammate e capelli candidi. È su quelli, che sta svolazzando “l’Angelo della storia”.

Nel 2017, un anno prima che morisse, È uscita in America una ponderosa raccolta di saggi, articoli, recensioni, scritte da Roth. Una specie di suggello “post-romanzo” della sua storia letteraria. Why write? – perchè scrivere – è intitolata. Se ne dovrebbe ricavare una summa delle complesse motivazioni dello scrittore, denudato dai suoi filtri romanzeschi, dai suoi alter ego, dai suoi personaggi. Ma siamo sicuri di volerlo vedere nudo, lo scrittore? E se il misterioso segreto della sua scrittura si rivelasse per quello che è stato – puro talento – non rimarremmo forse delusi, come quando si svela il trucco di un numero di alta prestidigitazione? Perché scrivere? Bella domanda. Se la pongono ogni giorno milioni di scrittori e scribacchini, tutti mossi dalla medesima ansia. Al termine della sua carriera se la pose anche Philip Roth. Ma per lui, ormai acquietato, si trattava della contemplazione postuma di una grande eredità.