di Franco Pezzini

Claudia Salvatori, Semiramide, Epika, Loc. Castello di Serravalle, Valsamoggia BO 2020

“Sembra necessario un vasto assortimento di menzogne per arrivare a comporre una specie di verità su qualcuno”: così l’autrice spiega la scelta quasi teatrale di quattro voci e punti di vista differenti per narrare la storia di un personaggio che sfugge a ogni presa certa. Fino a lasciarsi percepire nella messe di citazioni (classiche e non) solo in forma parziale, deformata, e tra infiniti distinguo come riflesso in frantumi d’uno specchio anamorfico. Cioè quella leggendaria regina assira Semiramide che sgomita nei panni di ogni preciso modello storico: e parlare della quale non si riduce a un dato di erudizione archeologica o alla trattazione di un qualunque capitolo – il che sarebbe divertente ma un po’ facile – dell’infinita galleria delle vamp. In sostanza c’è qualche buon motivo in più.

Ma iniziamo con ordine (e un cicinin di spoiler, il lettore è avvisato). Claudia Salvatori non è una scrittrice di romanzi storici qualunque, di quell’“usato sicuro” – ce n’è in ogni genere narrativo – che confeziona con giuliva soddisfazione stereotipi per un pubblico in cerca di sicurezze: i suoi protagonisti sono sempre fuori dagli schemi, persino dagli schemi della classica provocazione, sempre scomodi fino a sfidare la comprensibilità a uno sguardo moderno. O meglio a uno sguardo indisposto a inseguirli tra categorie del loro tempo e che insieme lo varcano, restando non scontate.

Ed è un’autrice che queste scelte le ha pagate di persona, oltretutto senza giocare su un proprio personaggio (che pure potrebbe avere, Sergio Altieri era affascinato dalla visionarietà della sua scrittura) ma tenendosi nell’ombra di una vita appartata. Sceneggiatrice di più di un centinaio di fumetti con grandi case editrici – incluse Disney e Bonelli –, storyliner per la Dino de Laurentiis Company, autrice di thriller convincenti ma anche di saggi raffinati, ha prodotto per Mondadori una serie di romanzi storici dai climi febbricitanti, di ricca cultura ma anche (non scontata) eleganza stilistica: tra i quali Il mago e l’imperatrice dove rilegge la figura della malfamata Messalina (2010), il torbido e bellissimo affresco Il sole invincibile su Eliogabalo (2011), e Il cavaliere d’Islanda nell’Europa allucinata della crociata contro i catari (2012).

Non stupisce dunque la scelta di misurarsi ora con un’altra figura dai mitici eccessi. Se l’abbinata tra un Femminile fascinoso e temibile (soggetto a infiniti tentativi di addomesticamento nonché stigmatizzazione di cattivi esempi) e un Oriente stereotipico corre nella letteratura occidentale fin dagli inizi attraverso un’intera categoria di volti eccellenti – cfr. qui e qui –, proprio Semiramide sembra incarnarne l’ambiguità al massimo livello. Di Medea, Cleopatra, Zenobia, Angelica, Salomè, Salammbô, Turandot, eccetera possiamo disporre di ritratti, sfuggenti quanto si vuole, ma dai connotati canonizzati almeno attraverso singoli filoni interpretativi. Per Semiramide, al contrario, che pure è stata oggetto di non poche opere (liriche in particolare, ma non solo), la gran massa dei richiami si consuma in citazioni che di lei raccontano qualsiasi cosa, in positivo come in negativo, purché nel segno dell’eccesso. Una sorta insomma di personaggio-sciame – interessante anche la sua associazione ai più vari luoghi dell’Oriente, quasi a mapparlo tutto – che persino più di altri interpella paradigmaticamente le nevrosi e i tic, i pregiudizi e le fantasie di un Occidente ancora al tempo dei social largamente patriarcale.

Parlare insomma di una simile figura di donna volitiva e dotata di ambizioni in un mondo largamente gestito dagli uomini (almeno su ciò non sussiste equivoco) avrebbe potuto condurre un’autrice meno colta e problematica a inventare un profilo facilmente romantico, idealizzato e convenzionale di eroina, in cui le lettrici pop potessero riconoscersi senza sforzo. Claudia Salvatori non fa nulla del genere: e, beninteso, non perché non si possa avvertire una solidarietà con la sua protagonista. Ma perché questa – capace di grandezze e fantasie visionarie di genio, ma anche errori e limiti – non è un bozzetto di maniera, e il personaggio viene costruito tenendo conto delle maschere paradigmaticamente contraddittorie che ne sono state offerte. Maschere collazionabili alla grossa nei tre filoni del mito, della storia – che identifica l’eroina in Sammuramat, reggente dell’Assiria nel periodo 811-808 a.C. – e delle biografie romanzate antiche: anche se attraverso esse si ricerca in chiave almeno possibile un quarto volto, di donna concreta che sfida i paradigmi di un’epoca. Ecco il perché dei quattro testimoni che a turno, in più passaggi, salgono in palcoscenico.

Anzitutto la nuora-rivale Tasbe, che attraverso una lettura demonizzata della donna Semiramide – che detesta e invidia – ne coglie anche qualche più sottile e umanissima ambiguità:

 

Ma lei non godeva soltanto la bellezza. Ricordavo bene con quale piacere riceveva postulanti assiri, babilonesi e stranieri e si faceva baciare i piedi. Era quella la sua debolezza, era quello il suo difetto. Voler essere come un Faraone d’Egitto.

Mi sono fatta avanti, forte di questa scoperta, e le ho parlato guardandola negli occhi.

«Perché dovresti possedere qualcosa, se sei una dea e già ogni cosa è tua, in cielo come in terra? Tuo è il potere e la gloria. Il po­tere è un’idea, la gloria è un’idea. E tu sei la Regina delle idee!»

Lei ha mantenuto tutta la sua dignità, ma per un istante ho visto un dubbio, un cedimento, una piccola ferita nelle sue pupille.

Avevo riportato finalmente una vittoria. (p. 144)

 

A Tasbe sono affidate la prima scena, un felicissimo esordio con il ritmo solenne delle iscrizioni assire, e poi anche l’ultima, una sorta di epifania che illumina il mistero del personaggio Semiramide senza esaurirlo.

Quindi la sacerdotessa e veggente Inanna, votata all’omonima Grande Dea, amica e casta innamorata per tutta la vita della sua regina. Inanna vede in lei una dimensione divina, e la riconosce abitata stabilmente dai Quattro Spiriti in mirabile armonia:

 

Per noi ilu è la parte maschile della persona umana, e lamassu quella femminile. Mentre sedu è la parte maschile del divino nell’anima, e ishtaru quella femminile. I quattro spiriti sono presenti in tutti noi, ma non contemporaneamente e insieme, se non forse in tarda età, per sag­gezza finalmente raggiunta o per una rivelazione al momento della morte.

Nel corso della vita ne prevale uno, a seconda se si sia più ma­schio o più femmina, o più legati alle attività terrene o a quelle spi­rituali. […]

Sono rarissime le creature in cui i quattro spiriti sono presenti e possono essere disciplinati come cavalli che conducono un unico carro.

E Semiramide era una di queste creature. (p. 32)

 

Ancora, il guerriero Samsilu, comandante in capo delle armate assire, unico – tra i quattro testimoni – a essere un personaggio storico documentato. Dove di nuovo l’autrice si smarca dalla vulgata (che abbiamo assorbito fin dai banchi di scuola), sugli Assiri protonazisti dell’antichità, sforzandosi insieme di mostrare un possibile punto di vista loro su tanta ferocia, e insieme il diverso stile di Semiramide e del suo comandante, l’ex-bambino ingegnoso che davanti ai generali basiti aveva suggerito un piano brillante per sconfiggere il nemico. Per lui Semiramide è la grande regina capace di spiazzarlo affrontando in singolar tenzone i re avversari, ma anche – lei che ama la pace – organizzando un’assurda spedizione contro l’India che finirà malissimo.

E infine (anche se formalmente appare per terzo) un vero e proprio trickster, testimone della finzione, del caos e insieme di quel senso che il caos può garantire in un kósmos più ampio. Mutarris è l’uomo seguito tutta la vita del demone ker della follia e della morte, e dunque destinato a una sorte peculiare (“I soli mestieri che può esercitare uno seguito dal demone ker, infatti, sono il sacerdote [ma solo i nobili], la prostituta, il cantante, il ballerino, l’acrobata, il buffone, se proprio non vuole occuparsi di funerali e sepolture”, p. 52): e, visto che è capace di imitare animali e uomini, s’inventa, sulla base delle voci sugli aedi del mondo egeo, qualcosa prima ignoto tra gli Assiri, cioè il mestiere di attore. Mutarris è colui che in battaglia s’era affiancato alla regina imitando i suoi movimenti come un’ombra, un mimo assurdo e paradossalmente efficace; e in seguito la imiterà paludato e truccato come lei in spettacolini lubrichi dove prende forma (immagina l’autrice) la maschera della Semiramide dalle mille e una notte di vizi.

 

Da quando infatti ho cominciato a imitarla sono diventato, se posso osare dichiararlo, il suo quinto spirito. Donna, uomo, dea e dio. Mancava a tanta perfezione uno spirito oscuro, quello che Semiramide vince ogni giorno e spedisce agli Inferi per apparire sempre radiosa: un mostro.

Lo sa bene anche lei, e per questo mi ha lasciato vivere. Sono stato l’unico disertore nella storia dell’Assiria a cui non abbiano infilato un palo dal buco del culo per farlo uscire dalla bocca. (p. 111)

 

Samsilu non capisce, come può Mutarris comportarsi così, lui che ama la regina? Ma è la funzione del trickster, e ancora alla fine si rivelerà prezioso.

L’immagine è dunque riflessa come in frammenti di specchio, che il lettore tra fratture, deformazioni e polverizzazioni di storie cerca di recuperare. A suggerire qualcosa di una vertiginosa complessità di narrare il Femminile in una realtà che comunque resta sbilanciata su un altro polo; ma insieme la complessità di narrare una qualunque vita tra testimonianze difformi e silenzi fitti. E questa può rappresentare senz’altro una prima chiave di provocazione.

A cui però se ne lega strettamente un’altra. In tutto il romanzo il tema della fictio è continuo: la suggestione teatrale di testimoni diversi in palcoscenico, le maschere sociali con cui Semiramide gioca, il travestimento/travestitismo di Mutarris che entra in una dinamica di critica politica, e la finzione spesa persino sul campo (gli elefanti finti, teatrali, che purtroppo gli Indiani sgamano per il tradimento di qualcuno). Dove poco importa una plausibilità materiale, storica, dato invece il profondo senso simbolico.

Semiramide si muove così nello spazio mai e sempre – a livelli diversi – innocente della fictio, che gronda sottotesti immaginali; ma insieme della provocazione radicale sull’Homo fictus, “la grande scimmia con la mente narrativa” (Jonathan Gottschall, The Storytelling Animal, 2013: in Italia L’istinto di narrare, Bollati Boringhieri, 2018). Il romanzo storico – soprattutto quello che riguarda periodi lontani – è sempre finzione, nell’apparente traduzione delle nostre categorie in altri contesti, e che tuttavia continuano a parlare di noi. Ma la narrazione stessa della nostra vita, nell’ambito di quello sforzo di sensemaking (come lo definiva negli anni Settanta Karl E. Weick) teso a costruire qualunque storia come “collante sociale che unisce le persone attorno a valori comuni”, usa il linguaggio della fiction narrativa. Possiamo essere più o meno onesti nel conservare o tacere i grovigli irrisolti, nell’interpretare il tutto secondo coscienza, alla luce di categorie via via maturate e che ci sembrano buone. Ma la natura stessa ci impone di definirci identitariamente in termini narrativi, con quanto di costruzione/finzione e – perché no? – di visionarietà ciò comporti: non è un caso se le storie ci illuminano, ci curano o ci fregano, agiscono nel nostro profondo a livello personale e persino collettivo. Di tutto questo irresolubile e affascinante groviglio Semiramide (che “possedeva una capacità di immaginare, di disegnare col pensiero e realizzare quello che vedeva dietro agli occhi che nessuno di noi aveva”, p. 32) appare coi suoi quattro – o mille – volti un’icona efficace, provocatoria. E scusate se è poco.

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