di Sandro Moiso

Gioacchino “Jack” Orlando, No Justice No Peace. Storia militante delle lotte per l’autodeterminazione afroamenricana, Red Star Press, Roma 2019, pp. 224, euro 16,00

Molte sono state le attenzioni, e le pubblicazioni, rivolte negli ultimi anni alla ricostruzione storica, sociologica e politica delle esperienze di lotta e organizzazione degli afroamericani nel ventre della bestia rappresentata dalla società americana, dalla sua struttura economica e dalla sua compartimentazione razziale e di classe. Ma l’autore di questo libro è il primo a dichiarare esplicitamente che il suo intento non è né storiografico né etnografico e che, piuttosto, è quello di voler fornire ai lettori un modello di auto-organizzazione, riflessione e di lotta ancora utile, forse più che mai, ai nostri giorni, in un contesto di frammentazione sociale e impoverimento che se da un lato vede un ritorno massiccio della propaganda razzista e nazionalista tra le file di quello che potremmo descrivere come il “fu proletariato bianco”, dall’altro vede svilupparsi un contesto di solidarietà che più che basarsi sulla lotta sembra orientarsi sempre più verso una “disarmante” pietà e carità cristiana.

Gioacchino “Jack” Orlando, classe 1992, è calabrese d’origine, romano d’adozione oltre che militante autonomo, lavoratore precario, studioso del movimento operaio, e saltuario collaboratore di Carmilla. Con la tesi di laurea che si è trasformata nell’opera appena pubblicata da Red Star Press ha vinto il premio Lorusso attribuito dal CUA (Collettivo Universitario Autonomo di Bologna).

Al centro della riflessione di Orlando, dichiaratamene, brilla la stella polare del pensiero di Franz Fanon, in particolare quello dedicato alla riappropriazione della violenza come strumento costituente/destituente attraverso cui il “dannato”, tale ancora troppo spesso per il colore della pelle o identità etnica, può “attivare un percorso di riappropriazione identitora aria e presa di coscienza politica, preliminare all’organizzazione antagonista”1. Riappropriazione che passa anche attraverso il concetto di negritudine, ovvero del riconoscimento di una condizione di sfruttamento ed emarginazione che può però rinchiudere in sé anche le radici culturali e politiche di una ridefinizione del sé individuale e collettivo, tesa a fare della stessa categoria uno strumento per la costruzione di una soggettività autonoma ben definita e antagonista del sistema che l’ha prodotta.

Le riflessioni di Fanon, secondo l’autore, servono ad ampliare ed integrare la griglia di interpretazione marxista e permettono di comprendere meglio la dimensione di violenza sistemica e multiforme (poliziesca, culturale, giuridica, psichica, economica) che agisce all’interno di un contesto segregato come quello americano. Ma non solo.
Non a caso nel primo dei due intermezzi che separano tra di loro i tre capitoli della ricerca, l’attenzione è rivolta tutta all’influenza che sugli afroamericani, e sul Black Panther Party in particolare, ebbero l’azione e il pensiero dei principali leader dei movimenti di liberazione in Africa: Patrice Lumumba, Kwame Nkruma, Sékou Touré, Amilcar Cabral.

Nel primo capitolo, «Burn Baby Burn!» Le origini della protesta nera, l’autore non dimentica però il percorso che da Rosa Parks, passando attraverso il pensiero e l’azione di W.E.B. Du Bois, Aimé Césaire e Martin Luther King, ha condotto al radicalismo di Malcom X, ultima fermata dell’evoluzione della strategia afroamericana per il riconoscimento di “diritto” della propria soggettività prima del salto verso l’ipotesi anti-coloniale, rivoluzionaria e insurrezionale sviluppata dal B.P.P.2

Tale scelta di lotta viene inserita da Jack all’interno di una tradizione di lotte e rivolte, in cui il pensiero torna inevitabilmente alle riflessioni fanoniane sulla violenza come strumento di riscoperta di un’identità politica, che hanno caratterizzato le comunità afroamericane nel corso dei quattro secoli intercorsi tra lo sbarco dei primi schiavi americani in Virginia e l’attuale America di Trump.
Tale tema viene trattato nel secondo intermezzo: «Roots!» La lunga resistenza contro la schiavitù.

L’ultimo capitolo3, riprende il discorso della lotta e della organizzazione dal basso là dove la momentanea sconfitta delle Pantere nere, dovuta sia all’azione implacabile del Cointelpro (acronimo di Counter Intelligence Program) che all’introduzione massiccia delle droghe nei ghetti come fattore di disgregazione sociale e politica, l’aveva lasciato.

Ecco allora, oltre che allo sviluppo di un movimento come Black Lives Matter, l’attenzione si sposta sulla funzione dell’Hip-hop e delle gang come possibili strumenti di aggregazione, anche politica, proprio nei luoghi in cui la disgregazione sociale precedente avrebbe potuto far pensare ad una sconfitta definitiva delle istanze afro-americane di riconoscimento dei propri diritti e, soprattutto, di quelle più radicali tra queste.

Lo slogan che dà il titolo al libro, sviluppatosi a partire dalla rivolta losangelena dei primi anni Novanta e poi diffusosi a macchia d’olio in tutti i ghetti del pianeta, da Detroit alle banlieu parigine, diventa a questo punto il vero filo conduttore di tutta la ricerca. Ricerca, come rivendica più volte l’autore, militante che più che incasellare nella ricerca storica e sociologica un materiale ancora rovente, in attesa che il tempo lo faccia raffreddare, intende piuttosto rilanciarne l’attualità per soffiare ancora sul fuoco delle rivolte che, nella crisi generalizzata dell’attuale modo di produzione, covano ovunque sotto le ceneri. Anche là dove il concetto di negritudine sembra essere più lontano, meno compreso e più osteggiato. Così come, per altre vie, sembra suggerire anche un’altra, e discussa, fanoniana: Houria Bouteldja.

“Negritudine” diventa allora sinonimo di emarginazione, sfruttamento. miseria economica e culturale, perdita di identità collettiva, ma allo stesso tempo può diventare strumento per una nuova ricerca identitaria che solo la lotta potrà realizzare, al di là, anche, delle fratture sociali e delle linee del colore e dei confini nazionali. In questo possibile percorso risiede l’utilità e l’attualità del testo di Orlando, di cui mi perito di suggerire la lettura a chiunque voglia veramente comprendere le contraddizioni del presente e le possibili vie per il superamento dalle stesse. Al di fuori di concezioni partitiche ed ideologiche che più che a unire contribuiscono soltanto a dividere ulteriormente un corpo sociale che sembra aver perso, in nome della redditività e del consumo, qualsiasi carattere di classe e qualunque aspetto di antagonismo rivoluzionario.

Un’opera che nel suo percorso ed impostazione risponde proprio a quella necessità di “promuovere all’interno delle università italiane un dibattito che sappia far emergere il patrimonio collettivo costituito da tutte quelle storie di lotta e militanza che troppo spesso sono costrette all’oblio da un’organizzazione del sapere che privilegia il punto di vista del potere costituito”, indicata come prioritaria tra le motivazioni finali per l’istituzione del Premio di laurea Francesco Lorusso, di cui quest’anno è stata insignita.


  1. G.J. Orlando, No Justice No Peace, p. 11  

  2. Di cui si occupa il secondo capitolo: «Move On!» Un socialismo dal ghetto, il caso del Black Panther Party.  

  3. «Terrordome!» Ghetti e resistenze nella contemporaneità.