di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie 2017, pp. 128, €12,00

“Il nazismo è una forma di colonizzazione dell’uomo bianco sull’uomo bianco, uno choc di ritorno per gli europei colonizzatori: una civiltà che giustifica la colonizzazione […] chiama il suo Hitler, voglio dire il suo castigo. (Hitler) ha applicato all’Europa dei processi colonialisti afferenti, fino a quel momento, solo agli arabi d’Algeria, ai servi dell’India e ai negri d’Africa” (Aimé Césaire)

La citazione tratta dal poeta della Martinica di origine francese Aimé Césaire può servire, fin da subito, a dare la cifra esatta del ragionamento condotto da Houria Bouteldja sul rapporto tra colonizzatori e colonizzati, tra bianchi e popoli “colorati”, tra civiltà europea e culture altre. Una autentica doccia fredda, soprattutto per il perbenismo democratico e preteso di “sinistra”, nella soffocante calura di agosto. Ma non soltanto.

Houria Bouteldja è nata in Algeria nel gennaio del 1973, figlia di immigrati algerini in Francia. Figlia di proletari, è la portavoce del Partito degli Indigeni della Repubblica (PIR) ed è una militante anticolonialista che si batte sia per la ridefinizione dei rapporti politici, storici e culturali tra l’Occidente e i paesi e i popoli colonizzati che per quella della condizione delle donne e soprattutto di quelle “indigene” nelle metropoli occidentali. Il suo lavoro di ricerca e la sua verve polemica, in particolare contro l’islamofobia, hanno suscitato numerose controversie che hanno spinto i suoi avversari, spesso provenienti dalle fila della “sinistra” come il quotidiano francese «Liberation», ad accusarla di antisemitismo, omofobia, sessismo, razzismo e comunitarismo.

L’opera, tradotta in italiano da Maria Rita Prette e accompagnata nell’attuale edizione da una preziosa Prefazione della traduttrice e da una Postfazione di Marilina Rachel Veca, è stata pubblicata per la prima volta in Francia nel 2016 dalle edizioni La fabrique (le stesse che hanno pubblicato le opere del Comitato invisibile) e successivamente tradotta in varie altre lingue. Era stata preceduta, nel 2012, da un testo, scritto insieme a Sadri Khiari, intitolato Nous sommes les indigenes de la République, citato più volte nelle pagine del libro.

In realtà il testo attuale costituisce una folgorante, lucida e potentissima intuizione sul cammino della Rivoluzione a venire: una Rivoluzione in cui non si tratterà soltanto di rovesciare un ordine socio-economico e un modo di produzione. Si tratterà, piuttosto, di scardinare l’intero sistema di valori, l’immaginario e la cultura che ne costituiscono i fondamenti ultimi. Non soltanto per le classi dirigenti, ma anche e subdolamente per il proletariato bianco e per gli immigrati e i popoli oppressi.

Un modello culturale che ha fatto della modernità e dei suoi vizi pericolosi l’unico modello di sviluppo sociale. Un sistema di valori religiosi, etici e politici che ha fatto dell’Uomo bianco il centro di un universo cartesiano in cui il motto «Penso dunque sono» nasconde in realtà «Penso come un individuo bianco e quindi sono», contribuendo così a de-umanizzare tutte quelle forme di socializzazione, di conoscenza, di religione e di solidarismo comunitario che caratterizzavano e caratterizzano le culture altre.

Un sistema in cui, come già affermava Jean Genet, occorre uccidere il Bianco che è in Noi. Sia come Bianchi/e che come appartenenti ad altre etnie attirate nel girone dell’Inferno capitalistico occidentale. Sia come semplici appartenenti alla specie umana che come proletari, donne, omosessuali. Ed ebrei, perché, nonostante le stimmate imposte dallo Stato sionista agli appartenenti all’ebraismo, essi hanno già provato più volte nel corso della Storia, e soprattutto nel corso del Novecento, cosa significhi davvero la persecuzione e, allo stesso tempo, il fallimento di ogni integrazione formale, basata sui principi della “grande” rivoluzione francese.
Integrazione che comunque, guarda caso, chiede sempre per prima cosa agli “integrabili” di rinunciare alla propria identità politica e culturale per abbracciare totalmente gli ideali e la cultura dell’Uomo bianco, cristiano, illuminato e moderno.

Un libro che guida il lettore attraverso i labirinti di una presunta modernità, basata principalmente sullo sfruttamento occidentale di altri popoli e di altri continenti; in cui una data, il 1492, può essere ben più significativa, come inizio dello sterminio e dello sfruttamento dei popoli indigeni, di quell’altra, il 1789, con i suoi ideali di eguaglianza, fraternità e libertà presunti universali, ma in realtà riservati ai bianchi, occidentali, europei e nordamericani, anche se più per alcuni che per altri.

Un proletariato bianco, ad esempio, che ha dovuto conquistarsi duramente alcuni diritti che ha creduto essere definitivi, ma che, nella crisi economica e politica dell’Occidente attuale, li ha visti sbiadire nuovamente, se non addirittura scomparire del tutto dal suo orizzonte di vita. E che, proprio per questo motivo, una volta privato, in cambio di quei diritti, di una propria autonomia di classe politica e culturale, si ritrova a rivendicarli sulla pelle degli altri, i non bianchi presenti nella società.

“La dissoluzione della nostra identità ne testimonia. Fino a un po’ di tempo fa sapevamo definire un africano, un algerino, un mussulmano. Il nostro sapere era deciso. Oggi, tutto si confonde […] Che vuol dire «algerino» dopo una guerra civile che ha fatto più di duecentomila morti? Che vuol dire «mussulmano» quando la Mecca è sotto la tutela dei sauditi e l’Islam è minacciato di macdonaldizzazione? Che vuol dire francese quando il popolo è spossessato della sua sovranità a profitto del potere finanziario? Che vuol dire europeo quando i popoli d’Europa non hanno mosso un dito per salvare la Grecia?”1

Una perdita di identità che coinvolge ormai la stragrande maggioranza degli abitanti degli stati occidentali, ma che non può essere certo risolta da un ritorno al nazionalismo e alla sua difesa intransigente. Non saranno i modelli imitativi, come quelli abbracciati dai giovani che si arruolano nelle file di Daesh, in nome di una civiltà scomparsa di cui non sono nemmeno gli eredi, a far superare agli oppressi di ogni genere e colore della pelle l’attuale situazione di malessere economico, psichico e sociale.

No, Houria ci invita a liberarci del peso della bianchità, della sua concezione falsamente razionale del mondo e della convinzione di essere individualmente superiori agli altri e all’ambiente che ci circonda. Ci chiede di tornare alla Natura, di sapere amare come Malcom X chi ci ama e allo stesso tempo a non odiare per partito preso.
Un appello buonista? Tutt’altro, un appello al superamento del presente, che non può essere eterno come i suoi difensori vorrebbero, per costruire identità collettive e sociali nuove, oltre le divisioni di classe, genere, colore, religiose e culturali che ci sono state imposte come modello “unico”. Un invito a combattere con ogni energia fisica ed intellettuale per l’affermazione di ciò che l’autrice definisce un autentico “amore rivoluzionario” che non venga dal cuore, ma dalla comune unità di intenti.

“Ciò che mi piace di Genet è che […] non vi è alcuna traccia di filantropia in lui. Né in favore degle ebrei, né delle Pantere Nere o dei palestinesi. Ma una collera sorda contro l’ingiustizia che è stata loro fatta dalla sua propria razza […] La posizione di Genet cade come una mannaia sulla testa dell’uomo bianco […] Ciò che mi piace anche di Genet è che egli non prova alcun sentimento ossequioso nei nostri confronti. […] Egli sa che tutti gli indigeni che si ergono contro l’uomo bianco gli offrono, simultaneamente, l’occasione di salvarsi. Egli intuisce che dietro la resistenza radicale di Malcom X c’è la sua propria salvezza”.2

Un NOI che non definisce più una comunità etnica, nazionale o partitica, ma un’umanità dolente ed oppressa che deve sapersi liberare a partire dai demoni che abitano il suo immaginario, per ignoranza o per sopruso. Un nuovo internazionalismo che non ha bisogno di appartenenze partitiche per esprimersi, ma dello slancio immediato verso il rifiuto dell’esistente e dei suoi fantasmi. Psichici, politici e culturali.

“Io parlo a due categorie tra voi; prima di tutto ai proletari, i disoccupati, i contadini, i declassati che progressivamente rinunciano alla politica o scivolano inesorabilmente dal comunismo verso l’estrema destra, le minoranze regionali schiacciate per qualche secolo dal centralismo forsennato e l’insieme degli emarginati, che ci amiate o no. In una parola, i sacrificati dall’Europa dei mercati e dello Stato, sempre meno provvidenziale e sempre più cinica.
Poi, ai rivoluzionari che hanno coscienza della barbarie in arrivo”.3

Un testo fondamentale con cui, coraggiosamente e senza pregiudizi, occorrerà saper fare i conti. Che si pone molto al di là e al di sopra delle attuali querelle da filantropi, preti e catto-comunisti sulle migrazioni, il razzismo e le loro conseguenze nel presente e per il futuro. Oltre il femminismo liberale delle donne in carriera e libere di essere sessualmente sfruttate attraverso un’immagine deviata del corpo femminile e del suo utilizzo nell’immaginario collettivo. Al di là di un universalismo dei diritti che confonde coscientemente il sionismo con l’ebraismo e l’anti-sionismo con l’anti-semitismo, dimenticando e cancellando la lezione del Bund.

E che ancora ci ricorda costantemente la lezione del Black Panther Party e dei nativi americani, la loro testimonianza e le loro innegabili certezze. Così come quella di tutti gli altri movimenti di resistenza contro l’imperialismo e il colonialismo. Di cui oggi occorre, allo stesso tempo, far tesoro e superarne gli elementi di bianchità in essi ancora contenuti.


  1. Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, pp. 109-110  

  2. H. Bouteldja, op.cit., pp19-20  

  3. H. Bouteldja, op.cit., pag. 37