di Luca Cangianti

Felice Cipriani, Ugo Forno. Il partigiano bambino, Diarkos, 2019, pp.153, € 15,00.

In seconda media andiamo a scuola, facciamo i compiti, frequentiamo un corso di chitarra, giochiamo a pallone e, in una città come Roma, i genitori ci accompagnano ancora a scuola. Se spostiamo la leva della macchina del tempo fino al 1943 scopriamo però che Antonio Calvani, militante della formazione comunista dissidente Bandiera Rossa, aveva 16 anni quando fu ucciso a Porta San Paolo nel tentativo di arrestare l’occupazione tedesca della Capitale. Gloria Chilanti, animatrice dell’associazione di bambini comunisti “Coba”, aveva tre anni di meno quando portava a segno azioni di sabotaggio e di consegna di armi. Lo stesso Rosario Bentivegna, il famoso comandante dei Gap centrali garibaldini, nel 1943 aveva solo 21 anni e dei 335 martiri delle Fosse Ardeatine, 27 ne avevano meno di venti. La “guerra, le privazioni, portano in avanti il calendario dell’età” dice Felice Cipriani nella biografia dedicata all’ultimo combattente caduto a dodici anni per la liberazione di Roma.

Era il 5 giugno del 1944 e gli alleati erano entrati in città da meno di un giorno. Mentre nei quartieri del centro e del sud si ballava, ci si baciava e si arrestavano i fascisti, nelle propaggini settentrionali di Roma i guastatori tedeschi erano ancora all’opera per rallentare l’avanzata alleata. Ugo Forno si accorge che i militari nemici stanno piazzando delle cariche esplosive sotto un ponte ferroviario sul fiume Aniene. Coinvolge degli amici e un gruppo di contadini che abitano nella zona. Con un fucile alto quasi quanto lui comincia a sparare. I tedeschi reagiscono con colpi di mortaio, Ugo è colpito al petto e muore, ma il ponte è salvo.
Oggi è davvero difficile immaginare un atto del genere e potremmo essere indotti a classificarlo erroneamente come incoscienza giovanile. Secondo Cipriani invece ci sono individui che “quando vengono coinvolti in qualcosa che appartiene al male, non possono fare a meno di combatterlo per gli altri ma anche per se stessi.” Il partigiano Pietro Chiodi in Banditi cerca di spiegarsi come nacque in lui la decisione di agire: “Mi ricordo con precisione: una strada piena di sangue e un carro con quattro cadaveri vicino al Mussotto. Il cantoniere che dice: – È meglio morire che sopportare questo -. Avevo sempre odiato il fascismo ma da quel momento avevo sentito che non avrei più potuto vivere in un mondo che accettava qualcosa di simile, fra gente che non insorgeva pazza di furore, contro queste belve.”

In narratologia l’evento scatenante interrompe il fluire consueto della vita e ci pone di fronte al dilemma se agire o meno. A fronte del pericolo e della morte, colui o colei che decide di farlo diventa protagonista, soggetto, eroe o eroina. Prende in mano il suo destino e salvando il mondo salva se stesso. I fatti e le testimonianze raccolte in Ugo Forno. Il partigiano bambino ci fanno capire come questo sia drammaticamente possibile perfino per un normale ragazzo di dodici anni che frequentava la seconda media in una scuola di Roma Nord.

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