di Sandro Moiso

Leonardo Pegoraro, I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australasia, Meltemi, Milano 2019, pp. 424, 24,00 euro

In tempi in cui il dibattito politico-culturale ufficiale tende a ridurre il problema del genocidio al tema, fin troppo abusato, della shoa oppure, in chiave minore, a quello sollevato dal Tribunale dell’Aja sui massacri avvenuti in Bosnia a danno delle popolazioni di fede islamica, le novità connesse all’impostazione data da Leonardo Pegoraro alla sua ricerca, appena pubblicata da Meltemi, sulla distruzione dei popoli indigeni dell’America Settentrionale, dell’Australia e della Nuova Zelanda, potrebbero rivelarsi di estrema importanza sia sul piano storico che su quello della riflessione politica e culturale.

Nonostante il fatto che Franco Cardini, nella sua introduzione al testo, tentando di superare alcuni schemi ormai considerati fisiologici della rilettura del ‘900 sulla base dei regimi totalitari e genocidari (Nazismo e shoa – Stalinismo/bolscevismo e gulag), cerchi di far rientrare il problema all’interno di una rilettura dei fenomeni sopracitati in una più ampia (e scivolosa) tendenza della specie e delle società umane a distruggere, da sempre, i propri simili, finendo così col sostituire il male assoluto rappresentato nell’immaginario contemporaneo dalla shoa con una sorta di male assoluto insito nel profondo delle società umane fin dalle loro origini più antiche, l’autore non ha dubbi nel sostenere che il genocidio è alla base del trionfo economico e coloniale di alcune delle società considerate liberal-democratiche per eccellenza: quelle anglosassoni rappresentate dallo sviluppo dell’impero britannico e del suo Commonwealth, da un lato, e degli Stati Uniti, dall’altro.

Già in passato, autori come Andrzej Kaminski avevano cercato di allargare il tema oltre la shoa e il gulag almeno fino allo schiavismo ottocentesco, ma senza mai uscire dalla logica dei campi di concentramento, prigionia e lavoro coatto1, mentre invece la ricerca di Pegoraro, che coordina attività di ricerca presso la Monash University di Melbourne e collabora a riviste scientifiche quali Settler Colonial Studies e International Critical Thought, accentrando l’attenzione sul problema della distruzione recente dei popoli indigeni del continente nord-americano e dei territori australi non si preoccupa di affondare le mani in una storia di sangue, soprusi, violenze e massacri che non hanno avuto altra giustificazione che non fosse quella di sgombrare il campo da società e individui ritenuti “inferiori” che ostacolavano il cammino del progresso economico moderno e della civiltà occidentale mercantile, bianca e cristiana.

Se nella prima parte, infatti, l’autore si interroga sui significati attribuiti al termine genocidio e sull’effettiva “unicità” dell’Olocausto ebraico, nella seconda, una volta giunto alla definizione di democrazie genocidarie per indicare le forme di governo che, pur distanti dall’esser totalitarie, hanno contribuito in maniera massiccia e spietata al massacro di milioni di esseri umani caratterizzati soltanto da un diverso colore della pelle e da un diverso approccio culturale ai modi della sopravvivenza umana nell’ambiente che li circondava, scoperchia un autentico vaso di Pandora di furia e violenza, descrivendo dettagliatamente come tali olocausti altri furono condotti e motivati.

A partire dall’annientamento di una “razza esecrabile” come quella dei nativi nord-americani condotta con scotennamenti (premiati), cani, diffusione dell’alcolismo e del vaiolo che caratterizzarono la guerra contro gli “spietati indiani selvaggi”, Pegoraro ci conduce attraverso le marce della morte volute dal presidente Jackson per trasferire le tribù dai loro territori ad altri che poi gli furono ancora tolti in seguito (come l’Oklahoma). Ci fa assistere alle politiche di “spidocchiamento” delle Grandi Pianure e ai massacri avvenuti in quello che sarebbe diventato lo Stato più ricco dell’Unione: la California.

Ma non bastarono armi, malattie e spostamenti forzati, no.
Fu l’educazione forzata dei bambini a costituire uno strumento insostituibile per la distruzione della resistenza dei popoli indigeni, sia negli Stati Uniti che in Canada.
“Uccidi l’indiano, salva l’uomo” sembra essere lo slogan ideale per rappresentare un’educazione autoritaria e micidiale destinata a sradicare dai più giovani, spesso con violenze e abusi, l’anima “primitiva” e ribelle con una più “civilizzata” e accondiscendente.

In Canada tale distruzione “educativa”, le cui conseguenze fisiche e psichiche hanno iniziato ad essere riscoperte soltanto da pochi decenni a questa parte e il cui motto sembra essere stato “l’unico indiano buono è il non-indiano”, è passata attraverso la deportazione e l’internamento dei piccoli discendenti delle tribù originarie, la morte di numerosi di loro per i maltrattamenti o le scarse cure prestate, le sevizie fisiche e mentali cui furono sottoposti spesso negli istituti educativi religiosi e “caritatevoli”. Fino al reale impedimento di procreare indotto in loro con le minacce, la forza oppure attraverso la demonizzazione delle più naturali attività sessuali connesse alla sopravvivenza della specie. Nel caso del Canada, poi, furono anche i Francesi a metterci lo zampino, per tramite dei Gesuiti che fin dal XVII secolo si dedicarono all’opera di “conversione” delle popolazioni indigene2 .

Ma ancor peggio, forse, andarono le cose per gli aborigeni del continente australiano, dove la progressiva colonizzazione “bianca” e britannica (considerato che la maggioranza dei coloni era rappresentata da individui di origine inglese, irlandese, gallese o scozzese, spesso deportati a forza in quel continente lontano), distrusse e annientò quasi del tutto le popolazioni eora, darug, wiradjuri e i cosiddetti “diavoli neri” della Tasmania.

Diavoli, selvaggi, pidocchi: tutti termini che inducevano un’idea di male, di inciviltà e di sporcizia.
Qualcosa che i veri cristiani, i veri uomini civili, i veri portatori del progresso dovevano distruggere: pena la sconfitta del bene, dei valori universali del liberalismo europeo e dello sviluppo economico. Qualcosa che, a ben vedere, troviamo ancora nel “diritto penale del nemico” odierno e nell’educazione trasmessa da tutti gli ordini di scuola, statali, private o religiose che siano, ancora oggi. Anche qui da noi, come nel ’68 si seppe così ben riconoscere in una struttura educativa che rimaneva comunque parte di un sistema concentrazionario dal punto di vista politico e culturale.
Vogliamo dire di classe, per cancellare ogni dubbio dalle anime belle che ancora si peritano di illustrarci come una buona e diffusa educazione sia il fulcro della formazione del buon cittadino democratico?

Ultima, ma non per importanza, viene l’esperienza dei popoli indigeni della Nuova Zelanda.
Quanto sangue è scorso nei fiumi e quanto ha impregnato la terra della Nuova Zelanda prima che la Haka, la danza tipica dei popoli Maori, diventasse famosa precedendo le partite degli All Blacks? Questa mostruosa finzione di riconoscimento di una cultura altra, viene dopo le autentiche guerre genocidarie condotte contro gli indigeni dai coloni e dalle truppe che ne avevano invaso i territori.

Distrutti e sconfitti, nonostante le rivolte, i discendenti dei superstiti sono stati assimilati fino all’invenzione di una possibile provenienza ariana dei popoli originari neozelandesi. In un contesto in cui la ricerca storica, linguistica e scientifica, hanno messo in dubbio da tempo la stessa esistenza di una “stirpe” ariana. Come sostenne già, più di trent’anni fa, il sinologo Martin Bernal, nel suo fondamentale Atena Nera, collegando il mito dell’arianesimo e dell’esistenza dell’indoeuropeo all’espansione coloniale europea, soprattutto britannica nel corso del XIX secolo3 .

Alla fine il mito ariano, uscito apparentemente dalla porta, rientra sempre, dalle finestre o dalle feritoie della Storia e della cultura politica. Cosicché quest’opera fondamentale ha il merito enorme di rivelare definitivamente come tra democrazie liberali e totalitarismi il passo sia breve, anzi come l’unica vera differenza consista tra chi vince le guerre e possa in seguito definire le colpe dei “malvagi” sconfitti.

In fin dei conti fascismo e liberalismo potrebbero poi non essere così distanti come si cerca di far credere e, di conseguenza, Hitler ed Auschwitz potrebbero non essere altro che la realizzazione piena delle promesse insite nel progresso liberale e del modo di produzione capitalistico. E delle loro reali conseguenze per i lavoratori e la specie umana.
Un dovuto ringraziamento va dunque a Leonardo Pegoraro per averci fornito gli strumenti per poter affermare ciò con più argomenti e convinzione nel corso delle battaglie future per la liberazione della specie e del pianeta da un modo di produzione e di governo delle risorse sempre più iniquo e distruttivo.


  1. Andrzej J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino 1997  

  2. Si legga in proposito il romanzo, di William T. Vollmann, Venga il tuo regno, pubblicato da Alet (Padova 2011) e che costituisce il secondo dei Sette sogni – Un libro di paesaggi nordamericani attraverso i quali l’autore ha inteso ricostruire la storia della conquista e colonizzazione del continente nordamericano.  

  3. M. Bernal, Atena nera. Le radici asiatiche delle società classiche, il Saggiatore, Milano 2011, edizione originale 1987