di Gioacchino Toni

Nel libro di Paolo Lago, Il vampiro, il mostro, il folle. Tre incontri con l’Altro in Herzog, Lynch, Tarkovskij (Editrice Clinamen, 2019), vengono presi in esame tre film che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 affrontano “l’incontro con l’Altro”: Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979) di Werner Herzog, The Elephant Man (Id., 1980) di David Lynch e Nostalghia (Id., 1983) di Andrej Tarkovskij. Si tratta di opere che ricorrono a strutture narrative abbastanza simili: un individuo si allontana dalla sua comunità compiendo un percorso che lo porta ad avvicinarsi a chi non ne fa parte: l’Altro, il Diverso, l’Emarginato.

Nel film di Herzog – con inevitabili riferimenti al precedente di Murnau del 1922 e, ovviamente, al romanzo del 1897 di Bram Stoker – si ha in Jonathan Harker il personaggio del viaggiatore e nel vampiro la figura dell’Altro. L’analisi di Lago procede mettendo in luce gli elementi che nel film tracciano il rigore geometrico della città di Wismar, in Germania, e l’etichetta borghese che vi regna, mostrando come ciò palesi una situazione di staticità e ripetitività da cui Harker dovrà allontanarsi per intraprendere quel viaggio in Transilvania che lo condurrà in un mondo lontano e selvaggio, dominato dal mistero e dalla magia, fino a giungere di fronte all’Altro.

Attraverso il viaggio, il personaggio (come del resto il lettore) viene dapprima proiettato in un nuovo mondo sconosciuto, ove lo sguardo razionale del viaggiatore  occidentale è costretto a confrontarsi con una comunità di zingari, prima incarnazione dell’alterità, e con una locanda, spazio “altro”, che si rivela luogo della diversità in cui il «freddo sentire» occidentale finisce con il sentirsi circondato da un linguaggio, una fisicità e una ventata di irrazionalità a lui del tutto incomprensibili. Nel moto di avvicinamento al castello la scoperta razionale di un nuovo mondo lascia pian piano il posto ad «un’immersione onirica in un territorio fantastico e immaginifico». Da questo momento, sottolinea Lago, il viaggiatore occidentale, con la sua pretesa superiorità razionale, si sente «schiacciato dallo spazio arcano e misterioso dei territori che sta attraversando» (p. 22). L’occidentale si trova pertanto costretto ad abbandonare lo sguardo distaccato ed irrisorio con cui sino a quel momento ha guardato al folclore e alle leggende locali; ora viene fagocitato da un ambiente naturale che si rivela ai suoi occhi terribile. Uno percorso «non mappizzato» in cui il viaggiatore vive una «vertigine dell’erranza» che lo conduce, attraverso la perdita del sé, al terribile incontro con l’Altro.

Nell’analizzare lo spazio in cui viene a trovarsi Harker, Lago ricorre ai concetti elaborati da Deleuze e Guattari di «spazio liscio» (proprio del «deserto» nomadico) che si contrappone allo «spazio striato» (caratteristico della città disciplinata da rigide griglie di controllo). «Il cammino è percorso adesso non più da uno scienziato razionalista ma da un esploratore che si muove verso il vuoto informe, verso territori inesplorati […] D’ora in poi l’incedere del viaggio assume un’altra tonalità: a quella dell’orrore si sovrappone quella romantica e titanica […] Lo spostamento del personaggio si tramuta in rapsodia romantica velata di titanica solitudine» (p. 23).

Al termine di questo percorso il viaggiatore fa il suo incontro con l’Altro che, in questo caso, ha le sembianze del vampiro che Herzog presenta come una figura di emarginato e solitario individuo che si «stacca dall’oscurità». «L’Altro è quindi ciò che appare quasi inconoscibile, ciò che fa parte della notte, dell’oscurità ed è difficilmente comprensibile dalla mente “illuminata” e raziocinatane del viaggiatore occidentale» (p. 25), mentre a tale alterità è invece consentito, proprio per il suo essere distaccato dal corpo sociale, di «vedere e sentire oltre».

Particolarmente importante, segnala Lago, è lo spazio del castello in cui dimora il conte. Si tratta infatti di uno spazio che, come suggerisce a più riprese lo sguardo della macchia da presa, sembra sottrarsi alla logica quotidiana del tempo. Harker si trova dunque costretto a fare i conti con uno spazio che, come chi lo abita, appare pietrificato. È attraverso l’abbandono del castello in direzione di Wismar che il vampiro sembra sottrarsi dal “non tempo” regnante nella dimora per entrare nella logica temporale del viaggio.

Dopo il percorso che ha condotto l’occidentale al cospetto dell’Altro è ora quest’ultimo a compiere l’itinerario inverso, viaggio che lo porta «a sferrare, dal silenzio della propria malattia e della propria solitudine, un attacco all’inconsapevole Occidente per contaminarlo con la sua stessa malattia: un attacco che assumerà le sembianze di un lugubre e macabro carnevale» (p. 30). E così la nave con cui il vampiro veleggia verso Wismar si presenta come «lento vettore della contaminazione» destinato ad investire l’Occidente. «Adesso, il vampiro, con la sua profonda sofferenza, col suo frustrato e inappagato desiderio d’amore […] diviene forte della propria emarginazione e solitudine e attacca, cercando di portarvi contagio e contaminazione, quell’ordinato spazio urbano che, perduto nella ripetitività dei suoi tic quotidiani, all’inizio ne ignora totalmente la presenza» (p. 35). Al processo di contagio, sottolinea Lago, contribuiscono i suoi ratti, veri e propri agenti di contaminazione rizomantica.

Giunto in città, lo straniero resta totalmente escluso da quella comunità degli esseri umani decisa a negargli quell’amore da lui inutilmente implorato. Lo studioso si sofferma anche sul processo di rovesciamento del conflitto tra Eros e pulsione di morte tratteggiato da Freud ne Il disagio della civiltà in cui la civiltà viene vista come portatrice di vita, di Eros. «Il vampiro, esponente di un’arcaica nobiltà decaduta ed estraneo a qualsiasi organizzazione sociale basata sul lavoro, porta un Eros che è anche la Morte per i meccanismi sociali di Wismar. Egli è colui che rovescia la realtà, che scambia il giorno con la notte, che vive di notte mentre è assente dal mondo durante i giorno» (p. 37). Se gli esseri umani civilizzati si sono via via allontanati della natura e dagli animali, il vampiro, forte del suo restare straniero alla comunità umana, si mantiene in sinergia con quel mondo arcaico in cui sopravvivono, inoltre, il mito e la leggenda banditi dalla civiltà razionalista borghese. Ed è proprio la «macchina da guerra nomadica» del vampiro a condurre l’attacco alla comunità dello «spazio striato».

Nel film di Herzog l’incontro con l’Altro palesa anche il processo di identificazione ed ibridazione tra i due personaggi: dopo essersi gradualmente trasformato in vampiro, al termine del film, sarà proprio il viaggiatore, ormai identificatosi col conte, a portarne avanti i piani. «Dopo un primo viaggio, l’incontro con l’Altro e la contaminazione da esso portata nello spazio della città, il film si chiude con un nuovo viaggio e con una non-fine» (p. 49), quasi a suggerire l’inevitabilità della contaminazione con l’Altro.

Se in Nosferatu il personaggio di Harker incontra l’Altro dopo un lungo e difficoltoso viaggio ai confini dei territori conosciuti, compiendo «una vera e propria immersione in un vuoto informe, in uno spazio “liscio” lontano dalle griglie del controllo cittadino» (p. 53), in The Elephant Man di Lynch, il personaggio del dottor Treves giunge al cospetto del Diverso, l’uomo elefante, nel cuore stesso della civiltà occidentale, in quella Londra vittoriana in cui giunge il vampiro di Dracula di Bram Stoker.

Treves incontra l’Altro «negli interstizi infernali della città». Ed infatti, dopo una sorta di preambolo onirico-mitico, le vicende narrate dal film di Lynch prendono il via con il dottor Treves che, alla ricerca dell’uomo-elefante, è costretto ad attraversare una sorta di cunicolo infernale ed oscuro popolato di “esseri mostruosi” o “strani”, appartenenti a quella categoria di emarginati esposti alla curiosità della londinese “comunità dei normali”. L’itinerario compiuto dal medico nelle sequenze iniziali rappresenta certamente lo spazio «di un tempo “liberato”», nel cuore stesso della città, la fiera in cui il cittadino cerca evasione dalle «griglie del controllo quotidiano», ma, sottolinea Paolo Lago, anche lo spettacolo può essere una forma di controllo: «è l’altra faccia della razionalità illuministica di una città in cui impera ogni dove la meccanica geometrica di una tarda Rivoluzione Industriale. Lo spazio della fiera è l’altro aspetto della razionalità rigida e greve che regna […] nello scenario industriale che avvolge i tenebrosi vicoli londinesi. È la zona magica, irrazionale, mistica e popolata di esseri strani dove la stessa razionalità illuministica corre a rifugiarsi» (p. 53).

In questo caso il Diverso è già presente nello «spazio striato» della città, è un appartenente alla comunità – è un inglese, ribadirà Treves ai colleghi – «divenuto straniero» in virtù della sua deformità fisica. John Merrick, l’uomo-elefante, è un Diverso nato e cresciuto nel cuore dell’impero e per poterlo incontrare non occorre affrontare alcun lungo viaggio ai confini del mondo occidentale: basta cercarlo negli anfratti della civiltà vittoriana in cui imperversano inquietanti macchinari. È all’interno dello spazio urbano occidentale che Treves deve volgere il suo sguardo raziocinante per giungere all’incontro perturbante con l’Altro. Dopo il fallito tentativo di incontrare l’uomo elefante nel tunnel dei freaks alla fiera, per raggiungerlo, il medico è costretto ad attraversare, col suo incedere veloce e sicuro, carico di razionalità illuministica, i vicoli malfamati londinesi in cui si incontrano esseri umani costretti a vivere e lavorare in scenari infernali. Welcome to the dark side of the Industrial Revolution.

L’incontro con l’Altro avviene per Treves nelle viscere della civiltà delle macchine, nell’anfratto di un palazzone di un quartiere popolare. Il suo intento è quello di sottrarre l’uomo-elefante dall’esibizione fieristica per esibirlo a sua volta ai colleghi del London Hospital, trasformandolo così, sottolinea Lago, in un caso clinico sottoposto ad un dispositivo di controllo. Se però lo spettacolo fieristico tende a ricondurre Merrick nell’inferno dell’orrore, lo sguardo illuminista del medico sembra ricondurlo «ad una logica razionale all’interno di un un universo dominato dal logos e dalla scienza, l’altra faccia di quella lancinante Rivoluzione Industriale che trasforma in inferno la realtà e in dannati gli stessi uomini» (p. 60).

Nonostante la luce della scienza, la diversità dell’uomo-elefante viene nuovamente celata alla vista della comunità all’interno di una stanza d’isolamento: nel cuore del panoptismo ospedaliero, il mostro viene sottratto agli occhi della comunità. Se nel tunnel fieristico il corpo deforme dell’uomo viene esibito, all’interno del «cuore assistenziale della metropoli occidentale» esso viene nascosto alla vista, trasformato in fantasma. «L’ospedale, cuore “meccanico” e avanzato» della metropoli finisce per palesarsi, soprattutto nelle ore notturne, come «il regno oscuro di quel progresso» in cui ogni rumore, sovente meccanico, è percepito da Merrick come una minaccia. La dimensione del terrore, sottolinea Lago, si rovescia: non è più l’Altro a provocare orrore ma è la “normalità” della civiltà occidentale a spaventare il Diverso.

L’ingresso di Merrick nella scansione di un tempo “normale” e “civile” avviene attraverso l’emissione di parola, strumento con cui il Diverso, dopo aver vissuto nel silenzio, cerca disperatamente di entrare a far parte della comunità. La presa di parola avvia il processo di normalizzazione del mostro che così inizia ad essere accolto all’interno della società urbana e borghese. A differenza del vampiro, nell’uomo-elefante non è presente alcuna volontà destabilizzante nei confronti della società. Se Merrick viene dapprima accolto nella clinica come mostruosità, successivamente il salotto borghese illuminato vittoriano lo accoglie come “cittadino” demostrificato. A differenza del vampiro di Herzog che entra di nascosto nel cuore della civiltà occidentale minandone le fondamenta, l’uomo-elefante vi entra alla luce del sole.

Lago sottolinea come l’intera esistenza Merrick sia ripetutamente toccata dalla dimensione spettacolare: «prima esibito come fenomeno da baraccone, poi esposto allo sguardo della scienza e della medicina, successivamente presentato come un elegante dandy alla buona società londinese, fino al momento culminante […] della sua apparizione proprio all’interno di un teatro» (p. 69). Merrick resta pur sempre uno «straniero interno», non raggiunge mai una dimensione compiutamente “umana” e ben presto si trova nuovamente catapultato nell’inferno della fiera dei mostri fino a quando i freaks decidono di “far gruppo” e ribellarsi dando vita ad una “comunità altra”, diretta verso un “altrove” che poi si fa per l’uomo-elefante viaggio individuale che lo conduce sul palcoscenico. «Per essere accettato, egli deve ridurre a una dimensione teatrale la sua condizione di diverso, di emarginato e di “straniero interno”. Se così si può dire, la sua diversità deve essere, per certi aspetti, teatralizzata, riportata nei meccanismi della finzione» (pp. 75-76).

Nel film Nostalghia di Tarkovskij, invece, il viaggio che compie il poeta Gorčakov è un atto mentale verso la regressione nostalgica che prende il via da una condizione di malattia che gli impedisce di affrontate la bellezza in qualsia forma essa si manifesti, bellezza che all’inizio del film coincide con il celebre affresco della Madonna del Parto di Piero della Francesca.
La sua condizione di esiliato si traduce in una devastante sensazione di «perdita interiore» delle persone e dei luoghi della sua terra e della sua storia. Il rifiuto di visionare il capolavoro pierfrancescano non manca di alludere alla nostalgia per un “mondo altro” rispetto a quello incarnato dall’arte italiana rinascimentale votata ad un antropocentrismo “razionalista” destinato ad allontanare sempre la dimensione del sacro dall’essere umano.

Lago sottolinea come il viaggio di Gorčakov, che lo porta al cospetto dell’Atro, in questo caso il folle Domenico, si configuri come un movimento chiuso, privo di possibili sviluppi, «bloccato in una condizione di rifiuto e di stanchezza». È nell’antico borgo termale senese di Bagno Vignoni che «la dimensione occludente del viaggio si sfalda definitivamente».
Nello spazio dell’albergo – in cui il volto di Eugenia, l’accompagnatrice, a tratti appare agli occhi del poeta la «prosecuzione estetica» del dipinto pierfranescano – Gorčakov, nell’esprimere il suo convincimento circa l’intraducibilità della poesia, sottintende l’impossibilità della comprensione tra culture diverse, dunque l’impossibilità del viaggio stesso, «del movimento verso un altrove». Ed è a fronte di ciò che il protagonista si trova in balia di una lancinante nostalgia.

L’incontro con l’Altro avviene qua nello «spazio amniotico» della vasca termale della piazza della cittadina.
Nel film di Tarkovskij, l’Altro assume le sembianze del folle, di un ex internato in manicomio da poco liberato dalla “legge Basaglia” insieme a tanti altri segregati. L’incontro tra Gorčakov ed l’Altro avviene inizialmente grazie all’intermediazione di Eugenia, «spettro di quella prorompente arte che il poeta aveva rifiutato all’inizio: figura raziocinante e “antisacrale”, è probabilmente l’inconsapevole conduttrice dell’elemento inquietante e “diabolico” di una pittura e di una concezione artistica che nega la semplicità e il rigore essenziale […] Per avvicinarsi per la prima volta a Domenico, Gorčakov deve quindi passare attraverso la mediazione di una concezione artistica che gli provoca un lancinante dolore» (pp. 90-91).

Si tratta in questo caso dell’incontro tra due stranieri: il folle, uno «straniero interno» esiliato e costretto al silenzio dalla “comunità dei normali”, ed il poeta russo, uno straniero di un altro paese, con un’altra cultura ed un’altra lingua che egli ritiene intraducibile, dunque impossibilitato ad entrare a far parte della comunità in cui si trova ora a vivere. «Forse, l’unica comprensione fra stranieri è allora possibile quando essi siano posti nella stessa condizione, quando siano entrambi esiliati ed estranei allo stesso luogo» (p. 95). Come accade nel film di Lynch, ove i freaks diventano comunità solidale per potersi difendere dalla “comunità dei normali”, altrettanto il russo ed il folle possono farsi comunità, immedesimandosi luno nell’altro, per sostenere il peso dell’esclusione. «Se il poeta rappresenta per il folle l’introduzione del “nuovo”, un appartenente alla comunità dei cosiddetti “normali” che finalmente gli va incontro senza sorrisi di scherno» (p. 99), da parte sua Gorčakov inizia ad identificarsi con Domenico riuscendo, proprio grazie alla seduzione dell’Altro, a andare oltre il dolore e la nostalgia personale, abbracciando adesso col proprio sguardo olimpico la realtà circostante che pulsa e continua a pulsare in un nuovo spazio e in un nuovo tempo» (p. 116).

Paolo Lago mette i luce come nei tre film esaminati l’incontro con il Diverso determini una trasformazione all’interno dello spazio sociale in cui questo si trova ad agire: Nosferatu, attraverso la contaminazione e la malattia, porta distruzione nell’ordine razionale occidentale; Merrik, da essere emarginato, finisce per essere inglobato all’interno della buona società vittoriana, pur dovendo subire un processo di teatralizzazione; Domenico manifesta la sua protesta ed il suo desiderio di ricongiungimento con quella comunità che lo aveva recluso in manicomio prima e mantenuto ai margini poi. In tutti tre i casi le storie finiscono con la morte dell’Altro: il vampiro cessa di vivere alle prime luci dell’alba ma finisce con l’incarnarsi in Harker; l’uomo-elefante si spegne soffocando per poter dormire come tutti i “normali”; il folle muore dandosi fuoco per protesta contro una società che continua a non accettare la diversità.

L’analisi proposta da Lago mete in luce come il vampiro, il mostro ed il folle rappresentino «gli altri da noi e, contemporaneamente, un’altra faccia di noi stessi, quella più in ombra, quella più nascosta, quella che fa più paura», mentre Harker, Traves e Gorčakov incarnino quegli appartenenti alla «società dei “normali”, irregimentati nei loro mondi ordinati e regolati», seppure il russo in misura minore, «che compiono delle vere e proprie “derive” verso territori sconosciuti, al di là dei confini prestabiliti, per partecipare delle sofferenze degli esclusi, degli emarginati, dei lontani» (p. 15). Non è difficile cogliere, sottolinea lo stesso autore, l’attualità delle tematiche affrontate da queste tre opere e di come, al di là delle ritrosie iniziali con cui si tende a guardare a ciò che non si conosce, valga la pena affrontare un viaggio di avvicinamento nei confronti dell’Altro ricavandone «inaspettati momenti di fratellanza e condivisione».


Serie completa di “Nemico (e) immaginario”