di Walter Catalano

The Haunting of Hill House è un classico della narrativa americana, opera di una delle scrittrici più originali e sensibili della scena statunitense: Shirley Jackson, nata a San Francisco nel 1916 e morta a Bennington, Vermont, nel 1965. Con Flannery O’Connor, Sylvia Plath, Ursula K. Le Guin e Margaret Atwood, la Jackson rappresenta quanto di meglio la letteratura al femminile di lingua inglese abbia prodotto nel corso della seconda metà del ‘900. Incidentalmente Shirley ha scritto varie opere, brevi e lunghe, che possono essere inquadrate – seppure in termini piuttosto lontani dalla narrativa di genere – nel campo del fantastico, del weird e dell’horror, ma risulta se non fuorviante, certo assai limitativo, confinare un’autrice di tale complessità nel ruolo banale di “maestra di Stephen King”, come molta stampa, non solo nostrana, ha fatto. Shirley è soprattutto la scrittrice del disagio femminile, le sue protagoniste – sempre, immancabilmente donne – sono sempre, immancabilmente angosciate, problematiche, conflittuali, come la Eleonor di Hill House, schizoidi e scisse come la Lizzie di The Bird’s Nest (in italiano Lizzie), vittime sacrificali e capri espiatori come nel capolavoro La lotteria – racconto pubblicato nel 1948 sul New Yorker che per primo le diede la notorietà – o stregonesche ed enigmatiche muse inquietanti come le sorelle Merricat e Constance dell’ultimo grande romanzo We Have Always Lived in the Castle.

La fama di scrittrice gotica di Shirley Jackson è legata soprattutto ai suoi due ultimi romanzi Abbiamo sempre vissuto nel castello del 1962 e soprattutto The Haunting of Hill House del 1959, testo che si confronta con il classico tema horror della casa infestata. La storia è stata spesso paragonata al capolavoro assoluto della ghost-story psicologica: Il giro di vite di Henry James; un parallelismo che risiede soprattutto nell’analoga, suprema e irrisolta ambiguità – l’elemento principale dell’unheimlich teorizzato da Sigmund Freud e del Weird e dell’Eerie individuati da Mark Fisher come categorie principali del fantastico moderno. I fantasmi – nella casa di Flora e Miles a Bly nell’Essex, come nella labirintica Hill House – ci sono davvero o sono solo la proiezione di una mente disturbata ? Sia James che la Jackson non danno risposta: ogni lettore dovrà cercarsi la sua. Il libro della Jackson è stato riconosciuto come modello da Ray Bradbury, Stephen King o Neil Gaiman. Richard Matheson ha persino riscritto una sua versione personale della storia, Hell House (1971), in italiano La casa d’inferno, romanzo da cui è stato tratto nel 1973 il discreto film Dopo la vita (The legend of Hell House), per la regia di John Hough. Qui parapsicologi e spiritisti si sfidano a dimostrare le loro tesi contrapposte – una razionalista, l’altra sovrannaturale – sul campo, confrontandosi con i fenomeni misteriosi di una casa ugualmente demoniaca: ma il romanzo fallisce proprio nella sua mancanza di ambiguità; i fantasmi alla fine ci sono davvero, Matheson, assume un punto di vista preciso, spiega, dà una risposta univoca e la risposta non convince: l’autore forse crede davvero all’infestazione, ma il lettore no.

Hill House, invece è infestata solo in quanto luogo in cui gli incubi interiori si manifestano, in cui le personali fantasie di regressione terminano in eterna solitudine – è forse l’ennesima metafora – carsicamente onnipresente in tutta l’opera della Jackson – del tormentato, simbiotico, devoto eppure al fondo infelice matrimonio di Shirley con Stanley Heyman, intellettuale radical ebreo, tre anni più giovane di lei, critico letterario, recensore su The New Yorker, e docente universitario (autore di due monumentali lavori di saggistica, The Armed Vision: A Study in the Methods of Modern Literary Criticism, del 1947 e The Tangled Bank: Darwin, Marx, Frazer and Freud as Imaginative Writers, del 1962: testi critici di tutto rispetto ma non certo dei best seller); uomo tendenzialmente egoista e fedifrago, poco incline alla condivisione delle routinarie incombenze familiari e domestiche il cui peso ricadeva quasi interamente sulla moglie, e molto proclive all’avventura erotica e sentimentale con le proprie ex studentesse (con una di queste avrà una intensa relazione pubblica che sprofonderà Shirley in una grave crisi psicologica a base di agorafobia e crisi di panico; un’altra diventerà la sua seconda moglie un anno dopo la morte precoce e improvvisa di Shirley, per un arresto cardiaco nel sonno provocato probabilmente da un uso eccessivo di alcool, antidepressivi e barbiturici). La casa è infestata solo in quanto forza viva che si adatta ai suoi abitanti e risponde in base alle loro personalità e alle loro storie: pur “non sana”, stabilisce circostanze che, per sovrannaturali che possano apparire, costituiscono “condizioni di assoluta realtà”, come viene enunciato da subito in uno degli incipit più perfetti di tutta la letteratura americana: “Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola”.

La protagonista del romanzo Eleonor Vance, trentaduenne che ha passato tutta la sua vita adulta a prendersi cura della madre inferma – la cui recente scomparsa l’ha finalmente liberata dal giogo ma l’ha costretta a vivere con la sorella che odia – è invitata a unirsi al gruppo di ricercatori che si stabilirà a Hill House e, infelice e solitaria com’è, coglie al volo l’occasione. Il dottor Montague – bizzarro antropologo e ricercatore sperimentale sui fenomeni paranormali – ha selezionato in base alle precedenti esperienze psichiche verificate in loro, una dozzina di persone: in ultimo ne ha scelte due. Una è Eleonor, che da bambina aveva vissuto un episodio poltergeist, una pioggia di pietre sulla sua casa per tre giorni dopo la morte del padre; l’altra è Theodora, una chiaroveggente con sconcertanti poteri empatici, l’esatta antitesi di Eleonor, è un’artista dalla vita bohemienne, solare, allegra e provocante, di tendenze allusivamente lesbiche. Oltre al dottore e alle due medium sarà presente anche Luke Sanderson, l’erede della proprietà, la cui zia – la padrona di Hill House – lo ha inviato, a nome della famiglia, a presenziare alle investigazioni. La casa ha un passato di catastrofi e di sfortune: la moglie del primo proprietario e costruttore, Hugh Crain, morta per il ribaltamento della sua carrozza nella rimessa; la seconda moglie scomparsa in seguito ad una misteriosa caduta; le sue due figlie ed eredi, spietatamente in lotta fra loro per il possesso della proprietà, finché una delle due non si è impiccata alla garitta della torre. Nel cuore della casa, proprio sulla soglia della stanza che un tempo era la nursery, c’è un angolo sempre inspiegabilmente gelato, tipico segnale d’infestazione. Le manifestazioni sovrannaturali iniziano già dalla seconda notte di permanenza: misteriosi colpi alle pareti che ricordano ad Eleonor quelli della madre malata che la chiamava dalla camera accanto alla sua, misteriosi messaggi scritti con gesso e sangue sulle pareti che chiedono di aiutare Eleonor a tornare a casa. Quando arriva la moglie di Montague, una buffonesca medium, che tenta di contattare gli spiriti tramite una specie di tavoletta Ouija, il messaggio è di nuovo rivolto a Eleonor: “Cosa vuoi ?” – chiede la medium. “Casa” – le viene risposto. Ad un certo punto ogni personaggio esprime la propria definizione di paura: “Abbiamo solo paura di noi stessi”, dice il dottor Montague; “Di vederci come siamo senza travestimenti”, dice Luke; “Di sapere quello che davvero vogliamo”, dice Theodora; “Io ho sempre paura di essere sola”, dice Eleonor. Proprio la notte successiva Eleonor si sveglia all’improvviso, stringendo la mano di Theodora addormentata accanto a lei; la voce di un bambino piagnucola: “Ti prego non farmi male. Ti prego fammi tornare a casa”. Eleonor urla e accende la luce rendendosi conto che Theodora non dormiva accanto a lei ma in un letto all’altro capo della stanza. “Mio Dio, la mano di chi stavo stringendo ? ” – si chiede Eleonor. L’episodio non è solo un eccezionale causa di brividi per il lettore, ma una metafora estremamente esplicita. “La paura e la colpa sono sorelle” dirà il dottor Montague, ed Eleonor confesserà di aver ignorato il richiamo della madre la notte prima della sua morte, così Shirley elaborerà il velenoso rapporto con Geraldine, sua madre, le cui insistenti e spietate critiche – sul suo aspetto fisico trascurato, sul suo look informale, sulla sua accentuata pinguedine – l’avevano condizionata ad accettare di essere sminuita e tradita da Stanley, l’estraneo accanto al quale dormiva da anni. “La mano di chi stavo stringendo ?” – Nella splendida biografia Shirley Jackson: A Rather Haunted Life – alla quale sono debitore di gran parte delle notizie, aneddoti e citazioni qui riportate – l’autrice Ruth Franklin riferisce che nella conferenza Experience and Fiction, parlando di Hill House, la Jackson raccontasse di aver avuto degli episodi di sonnambulismo, durante la composizione del romanzo, una mattina ha ritrovato sulla sua scrivania, scarabocchiate sulla carta gialla dove amava scrivere le sue opere, le parole “Dead Dead”, ma – aggiunge la Franklin – nell’archivio di appunti e abbozzi relativi al romanzo, questo foglio non è mai stato ritrovato: ce n’è invece un altro molto simile alla descrizione ma in cui sono scarabocchiate le parole “Family Family”. “La casa è Eleonor”, spiegò la Jackson nello stesso testo, puntualizzando di non credere ai fantasmi: Eleonor che indulge in fantasie domestiche, che s’immagina in varie case viste durante il tragitto in auto verso la sua destinazione infestata, creando per ognuna una diversa situazione, una diversa famiglia; che mente al gruppo inventandosi la descrizione del suo appartamento ideale nel quale sostiene di abitare. Perfino Theodora ignorerà la sua richiesta di andare ad abitare insieme una volta lasciata Hill House: Eleonor così non ha alcun posto dove tornare, la sua paura di restare sola può acquietarsi solo arrendendosi a Hill House. “Sono a casa, sono a casa” penserà nei suoi ultimi momenti mentre guida a folle velocità intorno all’edificio, prima di andarsi a schiantare contro un albero. Ma il romanzo si chiude con le stesse parole dell’inizio: le fantasie di unità di Eleonor non saranno mai soddisfatte, così come la vana speranza di Shirley che il matrimonio avrebbe posto fine alla sua solitudine. Non c’è posto per Eleonor neanche fra i fantasmi di Hill House, con i quali s’immaginava in comunione. Qualunque cosa cammini là dentro, ancora cammina sola. L’unico momento in cui Eleonor ci ha svelato la sua vera natura repressa, il suo desiderio eternamente frustrato, è nello splendido episodio dell’incontro casuale con la bambina intravista in un ristorante: la piccola non vuole bere il tè in una tazza qualsiasi ma reclama la sua cup of stars e la madre cerca di convincerla a non fare i capricci e a bere lo stesso: “Non farlo, disse Eleonor alla bambina; insisti per avere la tua tazza di stelle; una volta che ti hanno incastrata e costretta ad essere come loro, non vedrai mai più la tua tazza di stelle; non farlo; e la bambina le lanciò un’occhiata e le fece un sorrisetto scaltro, tutto fossette, assolutamente consapevole e scosse la testa in direzione del bicchiere, cocciuta. Intrepida bambina, pensò Eleonor; saggia, intrepida bambina”.

Per chi volesse approfondire (e sarebbe cosa saggia), i romanzi della Jackson tradotti in italiano – tutti da Adelphi – sono tre: The Bird’s Nest del 1954 (per noi Lizzie, come il film con Eleanor Parker che Hugo Haas ne trasse nel 1957, il cui titolo italiano era La donna delle tenebre); We Have Always Lived in the Castle del 1962 (Abbiamo sempre vissuto nel castello per Adelphi, ma nel 1990 già la Mondadori nella collana Mystbooks l’aveva tradotto come Così dolce, così innocente). Del romanzo esistono una trasposizione teatrale e un musical, oltre ad un recente, mediocre, film omonimo diretto nel 2018 da Stacie Passon. Fondamentale anche la narrativa breve: Adelphi ha recentemente tradotto (per quanto in versione assai ridotta rispetto al volume originale Let Me Tell You del 2016) la raccolta di testi vari – narrativi, memorialistici e saggistici – Paranoia (2018); i tre racconti inclusi in La ragazza scomparsa (2019); e il classico La lotteria (2007), non pubblicando però il libro nella sua interezza ma selezionando solo quattro racconti che, estrapolati dal contesto, non restituiscono l’unità tematica di una silloge fondamentale nell’opera della scrittrice, The Lottery, or The Adventures of James Harris del 1949: il lettore non anglofono potrebbe cercare la quasi introvabile edizione Mystbooks Mondadori del 1991 che sotto il titolo di Demoni amanti, aveva pubblicato il volume completo nella traduzione di Riccardo Valla. Infine The Haunting of Hill House, del 1959, adattato come L’incubo di Hill House; ma oltre all’edizione Adelphi è ancora reperibile la vecchia traduzione per Urania del 1979, con il titolo La casa degli invasati, che riprende Gli invasati, titolo dell’edizione italiana del film The Haunting, con Julie Harris e Claire Bloom, diretto da Robert Wise, un vero capolavoro del cinema horror, eccentrico quanto il romanzo da cui è tratto, alla prima del quale la stessa Jackson presenziò con legittimo orgoglio a New York nel 1963. Esiste poi, purtroppo, anche un imbarazzante e ridicolo remake del 1999, Haunting – Presenze di Jan de Bont con Liam Neeson: la povera Shirley si è almeno risparmiata la visione di tale scempio.

Trasposizione del tutto diversa del libro, radicale nello stravolgimento sistematico di trama e personaggi ma rispettosa almeno dello spirito e della natura dell’opera, la serie TV di Netflix The Haunting of Hill House, diretta da Mike Flanagan nel 2018. Veterano dell’horror, Flangan, con alle spalle titoli nel complesso interessanti come Absentia (2011), OculusIl riflesso del male (Oculus) (2013), Somnia (Before I Wake) (2016), Il terrore del silenzio (Hush) (2016), Ouija – L’origine del male (Ouija: Origin of Evil) (2016) e soprattutto Il gioco di Gerald (Gerald’s Game) (2017), sempre per Netflix, trasposizione riuscita da un romanzo di Stephen King piuttosto difficile da adattare per lo schermo, e avvalendosi di un notevole cast composto da Timothy Hutton, Michiel Huisman (il Daario Naharis di Game of Thrones), Carla Gugino, Henry Thomas, Elizabeth Reaser e Kate Siegel, riesce a coniugare una degna tensione esistenziale e psicologica con i sani brividi del cinema di genere, senza per altro confermare l’iperbole del colpo di genio attribuitagli, fin troppo generosamente, da Stephen King.

Flanagan pur stravolgendo completamente il romanzo della Jackson mantiene, con un voice-over introduttivo, la descrizione di Hill House con la quale il libro inizia e finisce, ma introduce una significativa variazione: il “qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva da sola” si trasforma in “qualunque cosa si muove, si muove insieme”, una lettura ben diversa che sostituisce l’approccio critico e interlocutorio di Shirley con una visione più ottimista che già anticipa il finale consolatorio e quasi stucchevole della serie. Personaggi e trama vengono così reinventati: negli anni Novanta la famiglia Crain, composta da Hugh, Olivia e dai loro cinque figli, si trasferisce a Hill House, una vecchia tenuta da tempo abbandonata. Lo scopo dei Crain è ristrutturare la casa per poi rivenderla, un lavoro che si rivela più lungo e complicato del previsto. Fantomatiche presenze che evocano i tratti dei vecchi inquilini – la famiglia Hill, avvolta da un passato di sangue – iniziano a manifestarsi ai figli dei Crain, i maschi Steven e Luke e le bambine Shirley, Theo e Nell (i nomi, come si nota, riprendono quelli di vari personaggi del libro e della scrittrice stessa). Apparizioni sempre più invadenti e terrorizzanti, cominciano a minare la salute psichica di tutta la famiglia ed in particolare quella della figura apparentemente più solida e concreta, la mamma Olivia Crain, che una notte si suicida; il padre traumatizzato fugge precipitosamente da Hill House con i figli senza dare loro alcuna spiegazione sull’accaduto. Ventisei anni dopo, i figli dei Crain sono cresciuti e non hanno ancora capito che cosa sia esattamente successo quella sera: se i fantasmi dell’infanzia fossero reali o meno e perché la madre si sia uccisa. Ciascuno ha rielaborato il lutto in modo diverso: Steven scrive libri parapsicologici raccogliendo testimonianze sui fantasmi (pur non credendoci) ed ha avuto successo con la narrazione della sua stessa infanzia infestata dagli spettri, per questo è accusato dai fratelli di aver mercificato la loro privata e tragica storia di famiglia; Luke è un tossico che non fa che entrare e uscire da istituti di rehab ; Shirley ha aperto con il marito un’agenzia di pompe funebri; Theo è una lesbica promiscua con un dono paranormale nelle mani e di mestiere fa la psicologa infantile; Nell continua a subire le inquietanti visite notturne delle presenze della casa, in particolare quelle di una donna dal collo spezzato che crede abbia provocato la morte improvvisa del marito. Ognuno, in un modo o nell’altro, è ossessionato dai ricordi della comune fantomatica infanzia nella casa misteriosa, e l’inspiegabile suicidio di Nell, andatasi a impiccare proprio alla garitta della torre di Hill House, sarà l’occasione per fare i conti con il proprio passato. La narrazione si muove su due piani: da una parte la vita presente dei protagonisti, fatta di idiosincrasie reciproche, di quotidiane contraddittorie e ambigue relazioni familiari, di un rapporto conflittuale e irrisolto con il padre rifiutato; dall’altra i flashback di un passato che ritorna sotto forma di incubo visto dal punto di vista dei bambini, creando un’atmosfera onirica, in cui lo spettatore resta sempre nel dubbio se le apparizioni siano reali oppure solo fantasticherie.

Ogni membro della famiglia Crain rielabora il lutto per la perdita della madre in modo diverso. Steven, rifiuta categoricamente l’esperienza paranormale pur fondando sulla rielaborazione narrativa proprio di questa la sua stessa carriera letteraria. Shirley, la secondogenita, prova risentimento nei confronti della madre perché le rimprovera di aver rifiutato di curarsi dalle “visioni”. Theo, cerca di sfruttare la conoscenza dei propri traumi infantili per aiutare altri ragazzi ma è incapace di una relazione affettiva stabile e di un uso coerente delle facoltà PSI che ha avuto in dono. Luke cede alla disperazione, manifestata nella tossicodipendenza, e la gemella Nell all’accettazione, così non mette mai in dubbio la veridicità dell’esperienza medianica ma questo la conduce all’ossessione e infine al suicidio (il fantasma femminile dal collo spezzato che la perseguita fin da bambina non è che la proiezione del suo destino). The Haunting of Hill House resta fedele allo spirito della Jackson pur sconvolgendo completamente l’architettura narrativa della sua storia perché mette in relazione il paranormale – vero o presunto, vero e presunto – con la nostra interiorità: i fantasmi non sono manifestazioni immutabili del reale, ma rimodulazioni dei nostri sentimenti che dobbiamo fuggire o affrontare. Forse vengono chiamati in causa troppi temi, disposti in un ordito privo dell’adamantina nitidezza della prosa di Shirley Jackson: la malattia mentale, la solitudine, la tossicodipendenza, il rapporto conflittuale tra padri e figli, tra fratelli e sorelle, il suicidio, la sessualità. Una certa pesantezza rischia talvolta di aleggiare nelle parti meno riuscite ma la serie resta comunque orchestrata magistralmente dosando i momenti di tensione e quelli introspettivi, come nello straordinario episodio sei, il migliore di tutto lo show – quello del funerale di Nell nell’agenzia funebre della sorella Shirley, alla presenza di tutta la famiglia padre compreso – scandito in cinque fluidissimi e tortuosi piani sequenza di una raffinatezza piuttosto rara in una serie tv.

La commistione di kammerspiel, dramma familiare quasi checoviano e horror gotico (anche molto pauroso – ammettiamolo francamente – in alcune scene) funziona decisamente bene e assolve Flanagan da tutte le libertà presesi nei riguardi di un capolavoro difficilmente accostabile come il romanzo di Shirley Jackson. Il successo è stato unanime ( forse anche dovuto ad un finale positivo e rassicurante, esaltante l’unità ritrovata della famiglia, la cancellazione dei conflitti del passato, la riconciliazione fra i vivi e i morti e il superamento degli incubi: finale che non anticiperò ma che rappresenta il tradimento maggiore nei confronti dell’assai più problematica Shirley) ed a grande richiesta si è dovuto provvedere ad una seconda stagione, impossibile da realizzare riutilizzando ed espandendo situazioni e scenari ormai già perfettamente conchiusi. Il secondo capitolo della serie, dal titolo The Haunting of Bly Manor, si baserà quindi sul romanzo considerato il diretto antecedente di Hill House, Il Giro di Vite, forse la ghost-story più affascinante e morbosa mai scritta, pubblicata nel 1898 da Henry James. Ancora una vecchia casa di campagna infestata da fantasmi. Protagonisti questa volta saranno due giovani orfani e un’istitutrice che si dovrà occupare di loro e delle presenze vaganti nella dimora o forse solo nella sua mente agitata da turbamenti sessuali repressi. Un’impresa forse ancora più difficile di quella positivamente appena realizzata da Flanagan: la filmografia derivata dal jamesiano The Turn of the Screw è sterminata e conta almeno un capolavoro assoluto The Innocents (da noi Suspence) di Jack Clayton del 1961 con una straordinaria Deborah Kerr e una sceneggiatura firmata Truman Capote, o un film curioso e interessante come The Nightcomers (da noi Improvvisamente un uomo nella notte) del 1972 di Michael Winner e interpretato da un notevole Marlon Brando. Il confronto sarà titanico e la sfida per il giovane regista assai pericolosa. Chi vivrà vedrà.

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