Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, 25,00 euro

Il testo di Raffaele Sciortino appena pubblicato dall’editore Asterios, dedicato alle conseguenze politiche, economiche, sociali e geopolitiche che negli ultimi dieci anni sono derivate dal riesplodere della crisi economica generalizzata seguita alla cosiddetta crisi dei mutui subprime sviluppatasi a partire dagli Stati Uniti nel 2008, è veramente denso di informazioni e ricco di spunti di riflessione.

L’autore, dottore di ricerca in studi politici e relazioni internazionali, è un ricercatore indipendente che oltre ad aver pubblicato numerosi saggi e articoli, sia cartacei che on line, ha pubblicato precedentemente due testi per lo stesso editore oltre ad aver curato per le edizioni Colibrì, insieme ad Emiliana Armano, un testo di Loren Goldner sul lungo ’68, Revolution in our lifetime, recensito poco tempo fa proprio su Carmilla (qui)1.

Nel corso delle 300 e più pagine che compongono il testo l’autore non si accontenta di esaminare le cause della nuova Grande crisi e le sue conseguenze sull’ordine geopolitico, economico e finanziario internazionale ma anche, e forse soprattutto, gli smottamenti che essa ha suscitato all’interno del sistema socio-politico e di classe che, soprattutto in Occidente, si era andato apparentemente stabilizzando nel corso della seconda metà del ‘900. Oltre a ciò il testo si rivela estremamente stimolante nelle sue riflessioni sull’ascesa della Cina come potenza egemone e delle conseguenze che ciò ha comportato per le politiche commerciali e militari per gli Stati Uniti da Obama a Trump.

Anche in questo caso, però, l’autore non si accontenta di uno sguardo macroeconomico e geopolitico sui fatti trattati, ma collega questi allo sviluppo della lotta di classe sia nel paese asiatico che nel declinante occidente. Occidente in cui la rinascita dei populismi può portare con sé sia un semplice ritorno al nazionalismo di stampo fascista (sovranismo), sia ad imprevedibili ed inaspettati sviluppi per una futura affermazione di una società basata sulla comunità umana e sulla negazione dello sfruttamento generalizzato della specie, dell’ambiente e delle sue risorse a vantaggio di pochi singoli o di una singola classe.

Proprio per questo motivo abbiamo scelto di riportare qui alcuni estratti particolarmente interessanti tratti dalle conclusioni dell’autore (pp. 302-305). [S.M.]

Interviene qui il secondo grande fattore, la spinta dei neopopulismi come forma attuale della lotta di classe in Occidente. Se per il proletariato cinese e, a seguire, per quella parte delle masse espropriate del Sud del mondo costrette a migrare, la prospettiva pare ancora potersi porre nei termini di un miglioramento sociale pur in cambio di duri sacrifici – nell’Occidente in profonda crisi la questione va già oltre. Qui il declassamento e il depauperamento, seppur ancora relativi più che assoluti, alludono a un domani precarissimo in cui l’ascesa sociale è finita né è in vista un nuovo compromesso sociale. E’ la confusa percezione di ciò che sta oggi diventando esperienza di massa. E’ anche il segno della crisi definitiva – per molti difficile da accettare – del movimento operaio e della sinistra, dell’ipotesi di un compromesso riformista via via trasformatosi nella cetomedizzazione dell’operaio. […] Ciò spazza via ogni prospettiva di progresso, linfa vitale di ogni sinistra possibile. Rientrano in questo quadro lo scollamento vertiginoso delle masse ripetto alle cosiddette élite, la sfiducia montante veso ogni ceto politico, la diffidenza crescente verso il tradimento delle classi ricche che, sempre più isolate in mondi dorati, lasciano andare alla deriva il resto. Per ragioni evidenti, e discusse in questo lavoro, tutto ciò non può darsi all’immediato con la ripresa di una qualche prospettiva anticapitalista, ma deve attingere a confuse, contraddittorie, spurie idee e pratiche democratiche – solo, di un democraticismo plebeo tendente al sanculottismo, terrore di ogni liberale degno di questo nome – con le quali cercare di porre rimedio, con una rabbia sorda e spesso disperata, a quella che è oramai una vera e propria disconnessione tra la riproduzione sistemica capitalistica basata sul capitale fittizio e la riproduzione sociale e di una natura sempre più devastate. La mobilitazione dei gilets jaunes – per richiamare quella che si è rivelata finora in Occidente la più combattiva e significativa mobilitazione dalle caratteristiche neopopuliste – è eloquente al riguardo.

La complicazione è che non siamo alla ricomposizione di un nuovo soggetto sociale unitario e trainante, o ai primi confusi segnali di una ricomposizione a venire. Siano alla s/composizione definitiva del soggetto proletario già frantumato dai processi di ristrutturazione capitalistica seguiti al lungo Sessantotto, e atomizzato dalla successiva globalizzazione finanziaria. L’ambivalenza caratteristica dei neopopulismi dal basso sta così nel loro essere espressione d’istanze di classe, ma di una classe iperproletaria liquida, sciolta nella completa subordinazione al rapporto di capitale, di cui pure sente il peso sempre maggiore. L’umanità che rimane – comunque la si voglia definire – deve in qualche modo reagire, non può più vivere come prima, e in alcuni, ancora isolati, casi di mobilitazione che vanno oltre l’urna elettorale, inizia a non voler più vivere come prima. La direzione che assumono queste spinte è per un verso molto al di sotto di quanto abbiamo conosciuto in passato come antagonismo di classe. Potremmo anche tranquillamente dire: infinitamente al di sotto. Ma proprio perché, con un passaggio al limite, è il terreno stesso del confronto che si è dislocato in avanti: non più classe contro classe, già espressione del rapporto contraddittorio e però inscindibile tra capitale e lavoro per soluzioni di compromesso sul terreno comune dello sviluppo, ma in nuce ricerca a tentoni di soluzioni comuni per una comunità senza classi da costituire di fronte al disastro che avanza. Il terreno della contrapposizione è dunque potenzialmente molto più avanzato, più vicino ai nodi profondi della riproduzione di una società sottratta ai meccanismi della competizione e dell’isolamento atomizzante. […]

La dialettica reazione-progresso in Occidente si è definitivamente rotta, come quella ad essa sottesa lotte proletarie-sviluppo capitalistico.
Non siamo di fronte a spinte e tendenze contingenti. Di qui bisogna passare, piaccia o non piaccia. Cittadinismo e sovranismo sono le due matrici, per lo più intrecciate tra di loro, confluite finora nelle variegate spinte neopopuliste. Oggi si può avanzare l’ipotesi che un primo tempo di questa dinamica sta volgendo alla conclusione: da un alto la mobilitazione prevalentemente elettorale ha dato quello che poteva dare e formare nuovi, stabili blocchi sociali si rivela oltremodo difficile; dall’altro, la reazione dei poteri forti globalisti porta los contro sul terreno più duro, mentre la crisi va avanti e con essa le tensioni geopolitiche dentro l’Occidente e tra esso e il resto del mondo. Ci aspetta allora con ogni probabilità un secondo tempo, più declinato verso un nazionalismo più crudo con basi sociali anche proletarie, indice di un inasprimento sia dello scontro sociale interno ai paesi occidentali sia di quello esterno tra gli interessi divergenti dei diversi Stati. I segnali ci sono tutti. Del resto, si dimentica spesso e volentieri che la deriva nazionalista è sempre stata un rischio, e più che solo un rischio, interno allo stesso movimento operaio. Financo nelle forme democratiche del compromesso sociale salariale e welfaristico che, fino a prova contraria, hanno nazionalizzato le masse lavoratrici in un modo più stabile di quanto non avessero conseguito i fascismi. Oggi, siamo però in una fase diversissima: non è in gioco l’integrazione delle masse ma, causa la crisi della globalizzazione, la disintegrazione del tessuto sociale che le ha fin qui tenute avvinte al mercato relativamente regolato dei paesi imperialisti. Il punto è che questa deriva si pone, attenzione, sulla medesima direttrice della ripresa possibile di una più forte mobilitazione sociale, di una massificazione del disagio e della ricerca di vie d’uscita, dagli esiti apertissimi, con varchi che si apriranno anche per soluzioni oggi impensabili.

Siamo, cioè, in una situazione che, a voler scomodare paragoni storici, ricorda un po’ più la Prima Guerra Mondiale -tra conflitti inter-imperialistici, nazionalizzazione del proletariato e però anche possibilità rivoluzionarie – che non la Seconda, chiusa fin dall’inizio a ogni possibile ribaltamento dell’ordine capitalistico nonostante fosse il prodotto di una sua profondissima crisi.
Le forme concrete, politiche e geopolitiche, che questo processo assumerà sono tutte da vedere.


  1. R. Sciortino, Obama nella crisi globale (Asterios 2010) e Eurocrisi, Eurobond e lotta sul debito (Asterios 2011)