Mater Amena, Arcipelago Itaca, Osimo 2019,  pp. 160, €15

[E’ in uscita una raccolta di versi poetici di Sartori, dedicati alla madre. O forse alle madri, tutte, in tutte le forme e le rabbie e le speranze. La Madre ci ha creato in carne e ossa, ma la Madre collettiva antropomorfizzata è anche la mitopoiesi di tutto lo scibile umano: la rivoluzione, l’amore, la religione, la scuola, la gioia, la disperazione e la guerra.
Di seguito pubblichiamo la postfazione di Helena Janeczek. MB]

di Helena Janeczek

Rileggo “Mater amena” nel periodo delle feste natalizie, circostanza che accentua la percezione di trovarmi davanti a un testo straordinario. Già nelle prime strofe mi viene incontro un richiamo al Natale, appiglio utile per anticipare quanto il poemetto si accinge a intavolare una conversazione fuori dai canoni.

Come facciamo con le sedie

ci tenevi tanto
a regalarmele
poi mancava il tempo
per andare a sceglierle
veniva un’altra festa
avevo altre urgenze
l’anno seguente ero via
il Natale dopo ancora
mi faceva fatica
un po’ era anche
per non farti spendere
diciamola tutta
(le chiappe gradivano
anche le vecchie)
ridevamo di queste sedie
che non arrivavano
né a Natale né mai
adesso come facciamo
è il mio compleanno
il tempo l’avrei
(scegliere è niente)
tu però sei morta

Il figlio ha deluso l’attesa del ritorno a Natale, ma non si è mai sottratto al rapporto con la madre. Finché la madre era in vita, il figlio ci rideva e scherzava, non rifiutava i suoi regali, pur preoccupandosi che non spendesse troppo: preoccupazione che rispecchia un’attenzione affettuosa e al tempo stesso la riluttanza ad accogliere un dono costoso come pegno di un indissolubile legame.

La vita è piena di uomini che evitano di confrontarsi con l’ingombro delle madri e, dato che la società da loro esige appena qualche obolo di presenza e qualche telefonata di ascolto in silenzio, non stupisce che quel modello relazionale improntato al mi-nor attrito vada per
la maggiore sino a oggi.

Strano è invece che neanche i poeti, gli scrittori e gli artisti, insomma coloro a cui i problemi della vita forniscono materia creativa, abbiano infranto, se non in via eccezionale, la convenzione che sia meglio evitare di parlare delle madri e, a maggior ragione, con le madri.

Intendo soprattutto gli autori maschi, mentre le autrici si sono arrischiate a interrogare il materno e le sue zone d’ombra sin da quando la loro presenza è diventata abituale, con l’effetto che occuparsi delle madri abbia preso a configurarsi come un compito femminile anche in letteratura.

La lotta del figlio contro il padre resta invece un tema di prestigio universale, una matrice che lega i miti e i testi sacri delle culture patriarcali alle teorie fondative del pensiero novecentesco formulate dai padri della psicoanalisi.

Sembra un portato della vulgata psicoanalitica se alle figlie è concesso sviscerare il conflitto con la madre e alle madri attuali è chiesto un continuo esame autocritico, mentre i figli dovrebbero semmai misurarsi con la scomparsa del padre, per esempio narrando di certi sforzi eroico-comici di fare i papà, altrimenti definiti “nuovi padri”. Insomma, anche se il Padre sembra essersi mutato in un deus absconditus, la prospettiva maschile non si appresta neanche oggi ad aprire il proprio campo visivo alla madre, tantomeno a uno sguardo che nella madre cerchi tracce di se stesso.

È proprio questa l’impresa con cui si cimenta il nostro impavido poeta. D’altronde, alla resa dei conti con la figura paterna ci ha già pensato agli albori del suo percorso letterario.
Giacomo Sartori si è formato nel secolo scorso, quando c’erano ancora i padri all’antica e, per ben due volte, il compito di ucciderli simbolicamente era venuto a convergere con la volontà euforica dei figli a uccidere e farsi uccidere nel nome della patria.

In Anatomia della battaglia (Sironi 2005), romanzo scarno e implacabile, Sartori si è confrontato con quell’eredità nefasta. Il figlio, militante della sinistra extraparlamentare tentato dalla lotta armata, ingaggia la sua battaglia contro il padre fascista non pentito, autoritario e anaffettivo. Ma nel corso dell’esplorazione di quel conflitto finisce per dare conto della propria sconfitta: la violenta contestazione dei contenuti ideologici lascia intatte le matri-ci culturali e il condizionamento psicologico che quel padre gli ha trasmesso.

Anatomia della battaglia è forse uscito anzitempo rispetto alla fortuna delle autofiction con cui molti scrittori di prim’ordine hanno interrogato il lascito dei padri e i modelli di una mascolinità entrata in crisi. Di certo, rimane un testo scomodo per l’assoluta mancanza di autoindulgenza e la nettezza con cui fa emergere come l’uccisione simbolica del padre non disarticoli le strutture patriarcali ma, anzi, le propaghi.

Nelle successive prove letterarie, Sartori ha declinato in tanti stili e generi la critica dell’identità maschile unita a una capacità rara di immedesimarsi nelle più disturbanti esperienze femminili. In Rogo (CartaCanta 2015), intreccia le storie di tre donne, streghe e infanticide, in Sono Dio (NNEditore 2016) presenta un controcanto quasi parodistico dalle precedenti opere: il divino protagonista si invaghisce di una ragazza post-punk new age che non mostra nessuna soggezione verso lo status onnipotente del suo corteggiatore.

Che il Signore Iddio-padre avesse spodestato una Dea-madre, Signora della vita e della morte, è un rimosso culturale e della “psiche collettiva”, anche se Freud ha inquadrato la madre castrante, Lacan la madre-coccodrillo, e non sta a me interrogare l’immaginario che ha suggerito loro proprio quelle definizioni.

In ogni caso, i padri da scalzare meritano la più nobile tradizione letteraria, le madri soverchianti si collocano in una zona tabù che giusto l’umorismo, il Witz freudiano, può arrischiarsi a infrangere. Con l’avallo del dottor Freud e il diffondersi dei pazienti dei suoi discepoli, le storielle sulla yiddishe mame hanno potuto elevarsi in trasposizioni autoriali, come l’episodio Edipo relitto del film collettivo New York Stories (1998), dove il Volto di Mamma nel cielo di Manhattan coinvolge i passanti nello sforzo di rovinare le imminenti nozze di Woody Allen.

Ma nell’ambito della cultura di origine cattolica la Beata Vergine continua a vegliare che nessuno – nessun figlio innanzitutto – s’azzardi a profanare il modello bello e impossibile della madre santificata. Se penso al fatto che Sartori è di Trento, città chiusa dalle Alpi come a salvaguardia dello spirito del Concilio che cominciò a sottrarre l’Immacolata a o- gni somiglianza con le madri terrene, il suo azzardo mi sembra ancora più notevole. Questo, però, è anche merito di un lignaggio femminile che ha dato molto filo da torcere al genius loci tridentino.

[…]
Ruth 1915
Mica 1916
Lumo 1918
(tu ultima)
Piuma 1921
le quattro Lange
foriere di scandali
e suicidi d’amore
nel sopore fascioclericale
Ruth 1994
Mica 2005
Lumo 2013
Piuma 2016:
per la partenza
lo stesso ordine
nell’impudica insubordinazione
(poi sedimentata
in eccentrica rispettabilità)
[…]

La madre di Sartori, Piuma, è l’unica a essere venuta al mondo dopo la disfatta austro-ungarica, in quella Trento riconquistata che divenne presto vessillo dell’Italia fascista. Protetta dai natali in un’antica casa signorile e dalle altolocate frequentazioni dei parenti, l’appartenenza di classe le consente delle eccentricità antiborghesi ma anche riparo dal discredito che la discendenza nient’affatto italica a vrebbe potuto causarle. È interessante che Sartori, tra i molti non detti affrontati nel poema, nomini una sola volta il cognome tedesco e mai il nome di battesimo, Rosemarie, che ho trovato in un necrologio.

Probabilmente era italiano nonché “di ottima famiglia” il ramo materno di Piuma, mentre il padre che vigilava sulla sua formazione non era il signor Sartori, bensì il fascismo.
A questo punto il dialogo e confronto con la mater amena di cui il figlio ha da poco sepolto le ceneri, raggiunge un’apice di coraggio persino superiore al corpo a corpo con il padre di Anatomia della battaglia.

[…]
il tuo fascismo
era dispatia
il sentirti superiore
a volgo e cafoni
alla gentucola
sprezzo di debolezza
inclusa la tua
(figuriamoci la mia)
il tuo fascismo
erano le escursioni
in alta montagna
a ottant’anni
l’ultima sciata
a novanta
le marce d’allenamento
i passini sovraumani
aggrappata al deambulatore
scheletrica e tremante
(indomita maschera
di dolore)
il tuo narcisismo
sintetizza la terapeuta

L’intuizione formidabile e lancinante di Sartori sta nel far rimare “narcisismo” e “fascismo”. Una lettu-ra accreditata sostiene che il primo sia diventato patologia sociale dal momento in cui il capitalismo liberista assorbì l’energia libertaria dalle rivolte giovanili degli anni ’60-’70. L’anti-autoritarismo sessantottino, pur non chiamato in causa come colpevole diretto, avrebbe preparato il terreno alla proliferazione di individui alla rincorsa del godimento consumistico e ormai incapaci di stabilire autentiche relazioni affettive. I versi di Sartori, invece, riportano a una radice inaudita la diagnosi della sua terapeuta. Non la contestazione studentesca, ma la premessa nell’epoca che ha forgiato persino la madre nel disprezzo dell’empatia e della debolezza, ha consegnato il figlio a una mancanza originaria. A lui non resta che portare il peso di Piuma, seguitando a colmare di parole …un vuoto/ leggero e gaio/ ma anche inquieto/ (un tantino angosciante)/ com’eri tu.