di Massimo Angelilli

Di feconde e tra le più svariate delle metafore applicate al football, se ne trovano a dismisura. E a proprio piacimento. Esercizi narrativi estesi fino ad accarezzare le zone più recondite e pudiche del genere umano. Ipotesi similitudini e ricostruzioni anche azzardate, ma al contempo affascinanti, intrecciate a eventi personaggi ed epoche che ne hanno giustificato il concepimento. Da Albert Camus, per arrivare a Eduardo Galeano. “Quello che so più sicuramente della moralità e del dovere dell’uomo, lo devo al calcio.” Diceva il primo.
“In cosa assomiglia il calcio a Dio? Nella devozione di molti credenti e nel disinteresse di molti intellettuali”, ha scritto Galeano.

Un mondo lontano, un mondo sorpassato, un mondo volutamente dimenticato. Un mondo che forse, anzi di sicuro, ricordiamo con quel flusso nostalgico che ci aiuta a esorcizzare il presente nella terapia autoassolutoria da colpe per le mostruosità che manifesta. Il football dunque, nella sua doppia insidiosa veste di fenomeno indiscutibilmente reale e contemporaneamente metafisico, non sfugge a questo ricorrente tranello esistenziale. Un test faticoso e costante di maturità. Personale e collettiva. Come tante passioni che smuovono masse popolari, lo sport coniuga la genuina spontaneità dell’infanzia con la (presunta) ratio della età adulta. Pertanto, ciò che chissà meglio aderisce al corpo totemico del calcio è proprio l’aspetto religioso. Per quella devozione, per l’appunto, esagerata o mancata che scatena al suo mostrarsi. Da parte dei protagonisti così come da quella del tifo, che spesso aspira al ruolo di attore principale. E spesso riuscendoci, in versione tragica o pittoresca. C’è però un elemento, tra i tanti, che ha caratterizzato il gioco più amato e seguito del mondo.

La sua riproduzione, sul famoso rettangolo verde, di modelli di società vincenti e contrapposti. Vincenti, indipendentemente dal risultato; contrapposti, giacché rappresentativi di concezioni differenti e distanti della realtà. Calcio inteso come organico ergo basato sul concetto di fabbrica obbligato a presentare un prodotto. Schemi tattiche e strategie disegnate secondo il modo di produzione capitalista. Lo stadio, con al suo interno entrambi i protagonisti che ne determinano il fragoroso successo, è uno dei simulacri del capitalismo impeccabilmente intuiti da Guy Debord nella sua “La Società dello spettacolo”. La fede e la dedizione per la propria squadra diventano così il plusvalore occulto di un sistema produttivo al quale tutti contribuiamo. La Fabbrica dei Sogni, sempre in funzione e sempre in attivo.
Su tutto, regnano incontrastate le leggi di mercato. Anche in questo caso, molto più prossimo a un ambito religioso che materiale, per quanto il profitto preveda una sua interminabile moltiplicazione, ma non una equa distribuzione dei pani e dei pesci. Il mondo bipolare, da un lato l’Occidente buono, dall’altro l’impero del Male, aiuta al consolidamento di teorie positiviste opposte al materialismo storico di stampo sovietico. Nondimeno, esperienze del tutto alternative alla riproposizione della catena di montaggio sul campo di calcio, dunque radicalmente contrarie a essa per forma espressione e significato, sono rilevabili in tutto il Secolo breve, per dirla alla Hobsbawm. E cioè il team inteso come un unicum impegnato nel raggiungimento del risultato; nella prassi solidale di correre l’uno in aiuto dell’altro fino a costruire una tela di passaggi e trame di gioco che esaltino il collettivo a detrimento dell’individualismo.

“Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”.

La società comunista si definisce anche sulla identità delle squadre. Non al ritmo tirannico dei capireparto ma con la consapevolezza di essere utili e indispensabili in egual misura alla medesima causa. La coscienza del proletariato che avanza verso il sol dell’avvenire contro il falso idealismo borghese che lucra sullo sfruttamento dei più deboli. Quarto Stato contro Reazione. Socialismo o barbarie.

Esistono quindi blasonati club che riecheggiano le traiettorie fordiste e toyotiste, godendo del sostegno incondizionato delle classi popolari, e altrettanti che invece si contraddistinguono per le impostazioni tipicamente operaie, con i quali flirtano anche insospettabili settori sociali molto più agiati. Contraddizioni del capitalismo, contraddizioni del football.

O meglio, magia di un gioco che di ludico ha solo la proiezione infantile che imperterriti continuiamo a irradiare per alimentare un immaginario altrimenti destinato a sgretolarsi, sotto i duri colpi della modernità. Una modernità caratterizzata non certo da uno stile al passo con i tempi, quanto piuttosto sequestrata dalle draconiane regole della finanza. La caduta del Muro di Berlino, la fine della Unione Sovietica, la dissoluzione mortifera dei Balcani, il neo-colonialismo asiatico; sono solo alcuni degli eventi storici che hanno non solo sancito il doloroso passaggio dal un millennio all’altro, ma riposizionato anche presupposti e finalità della economia mondiale. La quale, ça va sans dire, civetta con i desiderata più intimi del neoliberismo. Le varie “bolle” che si sono susseguite in questo periodo, hanno ristretto maggiormente gli accessi al benessere per il 99% della popolazione e allargato all’eccesso il plusvalore per il restante 1%. Grazie all’accelerazione massiccia data alla finanziarizzazione e pertanto alla ultima, finora, rigenerazione della filosofia del lucro: il capitalismo digitale. Il football, come qualsiasi altra sana attività umana dalla quale sia possibile trarne giovamento economico, non sfugge a questa metamorfosi. Anzi, in alcuni casi ne anticipa addirittura gli effetti.

Il selvaggio trasferimento di capitali dalle economie emergenti, come Arabia Saudita Cina India e Russia, alle capitali del calcio europeo, ne sono un limpido esempio. Sono moltissime le società “cadute” nelle grinfie di aggressivi manager stranieri. E da qui, un’opera di marketing imponente a base di brand e trend. E, soprattutto, di plusvalenze. Il lessico calcistico si avvale sempre più del gergo borsistico, e le quotazioni valgono almeno quanto le azioni sul campo. Crolli e successi in Borsa dipendono dallo score. La personalizzazione della casacca diventa più importante della casacca stessa. Per le gesta sportive, ma anche per l’esito delle sue vendite. Negli immancabili store dei club. Punti vendita reali così come virtuali. La dimensione on-line avvicina i propri beniamini ancor più che nella dimensione naturale dell’arena. Il tifo stesso è una dimensione social, precursore degli attuali social network. Responsabili, se non colpevoli, di aver accentuato la individualizzazione di uno sport di squadra per eccellenza. Instagram e twitter – FB lo diamo già per obsoleto suo malgrado – disintermediano il rapporto tifoso-team alla stregua di quanto avviene sul terreno politico. I mezzi d’informazione, sovrastati dalla comunicazione diretta e spietata fornita dal web. La rivoluzione digitale travolge dunque uno dei templi della socializzazione, interclassista ed egualitaria. Tale infatti è stato sempre considerato l’agone calcistico, fino alle conseguenze estreme dello scontro frontale anche fuori dal manto erboso.

Si è detto che il football è la prosecuzione della guerra con altri mezzi. O, nella versione romantica, che l’avvicinamento alla porta siano i preliminari dell’atto sessuale “compiuto”, rappresentato dalla finalizzazione in rete. Il goal.

D’altronde, quante volte si è usata la metafora dell’orgasmo per descrivere un trionfo sul campo, con conseguente soggiogamento dell’avversario? Tutto ciò ha però dei valori di riferimento che riguardano la vita reale, con tutte le complicazioni le assurdità e le contraddizioni che inevitabilmente questo comporta. La voracità neoliberista ha cannibalizzato questo succulento pezzo di Umanità modificando l’agonismo in spettacolo e la passione in merce. E trascinandosi in modo spudorato le espressioni peggiori della società. Organizzazioni criminali e paramilitari di stampo mafiofascista dominano le gradinate specularmente alla raffinatezza con cui le conventicole di alto rango governano le sorti dello “sport più bello del mondo”. Il football 4.0 scende in campo sette giorni a settimana, trasmette ovunque e costringe il “povero tifoso” a trasferte impossibili o alla irreversibilità del divano. A causa di accordi commerciali-televisivi che includono orari e luoghi inaccessibili per assistere all’imperdibile spettacolo. In realtà, al di là del risultato, si è già perso, quando abbiamo consegnato le chiavi dei nostri sogni ai professionisti dell’illusionismo. Il football 4.0 è anche un formidabile strumento di controllo. Sociale e commerciale. Le tifoserie sono da coccolare se spendono e da reprimere se protestano per il caro-prezzi. Le curve un territorio da conquistare e vigilare, eccezion fatta se esibiscono simboli nazisti. Sia l’una che l’altra si trasformano sovente in zone franche dove non contano i più elementari diritti civili. Gli stadi sono sempre più fortezze camuffati da centri commerciali. In stile nordamericano. Non si può essere fruitori di qualcosa se non si consuma. Il match stesso è un target. E lo siamo anche noi, “che non siamo altro che mendicanti di buon calcio”, per utilizzare ancora le illuminanti parole di Eduardo Galeano.

In conclusione, o forse meglio, in maoistica confusione; nostalgia del passato? Integralisti della passione? Decoubertiniani incalliti? Pasdaran del tubo catodico? No.
Mille volte: no.

Rivendicare il diritto alla irrazionalità di amare alla follia una maglia, un bomber inesorabile o un funambolo del centrocampo, o finanche una singola giocata che indelebile vive nella nostra memoria, è una questione di coscienza. Un atto squisitamente politico. E che con tutta tranquillità si può tacciare di spontaneismo. Di sicuro, è Resistenza. Al totalitarismo del consumo. Senza cadere nella trappola, elaborata sperimentata e applicata con scientifico rigore, di confondere il nemico di classe, abile ad alterare le nostre emozioni in algoritmo, con il Demiurgo dell’avvenire.
Perché i colori possono dividerci, ma ci uniscono le bandiere.

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