di Paolo Lago

Diego Bertelli, Viaggio al termine della scrittura. Calvino Pasolini Bazlen Parise Cattafi, Le Lettere, Firenze, 2017, pp. 175, € 18,00.

Il recente, interessante saggio di Diego Bertelli, Viaggio al termine della scrittura, trae il suo titolo dal romanzo di Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte (1932). Se il finale del romanzo di Céline – quel “termine della notte” – non coincide con l’arrivo del giorno ma con il persistere di una “zona di crepuscolo”, rimanendo in sospeso come il percorso esistenziale del protagonista, “compiere un viaggio al termine della scrittura” – scrive Bertelli – “significa sapersi trattenere in una zona ugualmente incerta: quella in cui la vita di chi scrive, avanzando secondo gradi diversi di consapevolezza, testimonia l’impossibilità di un suo compimento formale”. Opera letteraria come vita, finale come morte sono alcune delle suggestive analogie messe in gioco dal saggio, il quale si configura come uno studio incentrato soprattutto sugli aspetti formali delle opere analizzate: Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) di Italo Calvino, Petrolio (1992) di Pier Paolo Pasolini, Il capitano di lungo corso di Roberto Bazlen (1973), L’odore del sangue (1997) di Goffredo Parise e i diari inediti di Bartolo Cattafi. Tutti i testi presi in esame (un romanzo pubblicato in vita, tre opere postume e una serie di diari inediti) si situano in un arco di tempo compreso fra il 1973 e il 1979. Quello degli anni Settanta è un periodo, come nota l’autore, in cui lo strutturalismo da un lato e le teorie della ricezione dall’altro “provocano un depotenziamento enorme della figura dell’autore e della sua autorità”.

Il saggio di Bertelli pone a confronto fra di loro delle opere di indubbio fascino, delle opere che rappresentano in sé il magma della vita stessa e la cui scrittura si inerpica nelle suggestive volute degli esperimenti formali. Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino è un romanzo costituito da dieci incipit di possibili romanzi: un’opera che si sfalda e contemporaneamente si riafferma di continuo in una dimensione potenziale, in cui il lettore diventa il protagonista nel momento stesso in cui legge. Petrolio di Pasolini è un romanzo al quale l’autore stava freneticamente lavorando al momento della sua uccisione, nel 1975, ed è uscito postumo solamente nel 1992. Si tratta di un’opera ‘sperimentale’, costruito come “l’edizione critica di un testo inedito”, un “Satyricon moderno”, un vero e proprio “metaromanzo menippeo” (cioè un romanzo-saggio che riflette sugli stessi meccanismi letterari, legato alla linea culturale dell’antica satira menippea) in cui Pasolini inserisce delicati rimandi alla politica e alla società degli anni Settanta. Il capitano di lungo corso di Bazlen è un romanzo incompiuto e mai pubblicato, la cui parziale diffusione fu limitata a un circolo ristretto di amici. Il romanzo, elaborato in circa un ventennio (dal 1944 al 1965, anno della morte di Bazlen) si configura come una continua amplificazione di note esplicative data l’impossibilità, a detta dell’autore, di scrivere libri. Così, infatti, scrive lo stesso Bazlen: “Io credo che non si possano più scrivere libri. Perciò non scrivo libri – quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi (volumina). Io scrivo solo note a piè di pagina”. L’odore del sangue di Parise, invece, è stato pubblicato postumo nel 1997 e nasce da un’esperienza di morte vissuta in prima persona dall’autore, dall’essersi trovato davanti la Gorgone e non aver chiuso gli occhi, come scrive Cesare Garboli nella prefazione al romanzo. Quest’ultimo è stato scritto da Parise nell’estate del 1979, subito dopo un infarto. Dopodiché venne sigillato dallo stesso autore e ripreso in mano e riletto solo nel 1986, poco prima della morte. I diari inediti di Bartolo Cattafi sono stati scritti dal 1971 al 1979 e interrotti soltanto dall’aggravarsi delle condizioni di salute del poeta. La scrittura diaristica di Cattafi tende alla concretezza e finisce per coincidere con lo stesso scorrere della vita, in un “viaggio al termine della scrittura” che è anche il termine della vita.

Vorrei concentrarmi adesso soprattutto su due fra le opere analizzate da Bertelli nel corso del suo ampio e ben articolato saggio. Si tratta di due romanzi molto diversi fra loro che però risultano straordinariamente vicini, sia dal punto di vista formale che, per certi aspetti, di contenuto: Petrolio di Pasolini e L’odore del sangue di Parise (dal quale Mario Martone, nel 2004, ha tratto un film). In entrambi i romanzi gli autori narrano una sorta di discesa all’inferno entro la cornice italiana di un preciso periodo storico, quello degli anni Settanta. Un periodo oscuro, attraversato da diverse contraddizioni ma connotato anche da ideali propositivi di lotta contro un sistema imposto dall’alto, falcidiati dal successivo decennio degli Ottanta. Sia Pasolini che Parise compiono una discesa nell’inferno della progressiva degenerazione sociale dell’Italia, un abbrutimento reazionario e meschino, lo stesso preso di mira dal movimento del Settantasette, il quale era invece mosso da istanze di liberazione del desiderio. Entrambi i romanzi sono l’estremo lascito testamentario e postumo di due vivaci intellettuali, due scrittori poco inclini a chinare la testa in ruoli precostituiti e irreggimentati. Petrolio si configura sostanzialmente come un romanzo politico, incentrato sulle oscure trame politiche ed economiche a cavallo fra anni Sessanta e Settanta, in un periodo in cui l’economia e l’azienda stavano rapidamente scalando la vetta del potere politico. L’Italia e Roma – siamo soprattutto nel 1974 e 1975 – sono presentati come un luogo infernale in cui l’abbrutimento fascista imperversa ogni dove, in cui i giovani, resi afasici ed inespressivi, sono ormai involgariti dalla pubblicità televisiva e dal conformismo delle mode. C’è una serie di appunti (Petrolio è infatti costituito da una congerie di appunti), intitolata “Il Merda” in cui è descritto un vero e proprio viaggio infernale (in uno schema modellato sull’Inferno dantesco) del borgataro Merda e della sua ragazza Cinzia, all’interno delle nuove periferie degradate. Il culmine di tale visione è la città di Roma che, vista dall’alto, assume la forma di una croce uncinata, a simboleggiare l’avvento di un nuovo nazismo, quello della degenerazione delle coscienze livellate dal progressivo benessere economico. Lo spazio urbano della Capitale è connotato da squallore e sporcizia mentre le strade sono invase dai rifiuti. Nell’Appunto 70, “Chiacchiere notturne al Colosseo”, le vie che circondano il Colosseo sono caratterizzate da squallore e solitudine, dal traffico incessante e da rifiuti e cartacce che vengono portati via dal vento.

Ne L’odore del sangue di Parise viene tratteggiato un impietoso affresco della Roma fine anni Settanta, specchio dell’intera Italia. A un certo punto, il protagonista io narrante si reca, di notte, sotto casa della moglie Silvia, irretita ormai nella relazione con un giovane fascista, e lo spazio che si trova dintorno possiede dei cupi risvolti infernali. Così sono descritti i giovani che percorrono le vie notturne della città: “Eccoli, erano loro, i giustizieri della notte, quelli che avevano assassinato Pasolini, quelli che avevano bruciato un somalo dormiente su un letto di cartoni, «per scherzo». Intravedo le loro facce, anche nella velocità della corsa. Parevano facce americane, alcune bionde e butterate, altre nere dai capelli ricci, di arabi americanizzati. Erano, nella loro anonima e meccanica criminalità, le facce di Roma”. Come in Petrolio, la città notturna è attraversata da “spazzatura vagante” mentre in lontananza si erge “un riverbero rossastro e fumoso come di incendio”, “vari piccoli incendi di mondezza accesi da ragazzi intorno a prostitute e travestiti che battevano in quella zona”. La città, che diviene quasi specchio e simbolo dell’intera Italia, è connotata da marcati tratti infernali, come nel romanzo postumo di Pasolini. Non a caso, Cesare Garboli, nella prefazione scrive che, ne L’odore del sangue, “c’è un inferno, e un romanziere che lo racconta”.

Petrolio e L’odore del sangue, formalmente simili perché ‘monumenti’ letterari postumi, non rifiniti, non conclusi definitivamente, escrescenze magmatiche della penna ancora calda dello scrittore, mostrano anche metaforicamente il baratro in cui stava precipitando la società italiana. Se il primo è esplicitamente un romanzo politico che racconta un momento delicato di passaggio e di mutamento del potere, anche per mezzo di immagini molto crude di carattere erotico, il secondo, mostrando gli abbrutimenti sadomasochistici cui si sottopone il personaggio di Silvia nella relazione col giovane fascista spregiudicato, mostra anche la progressiva degradazione dell’intera società, catturata perversamente dal benessere e dal qualunquismo galoppanti. Parise scrive il suo romanzo nel 1979: solo un anno dopo inizieranno gli anni Ottanta, gli anni del disimpegno, del rampantismo sociale, dell’eroina, della “Milano da bere”, del berlusconismo e delle televisioni private. Come scrive Bertelli al termine del suo saggio, tirando le somme della sua rigorosa disamina comparata, da un punto di vista formale “l’unico viaggio possibile al termine della scrittura è quello di chi sa trattenersi in una zona incerta, la quale è anche la più carica di attesa, perché a essa corrisponde la paradossale suggestione degli inizi”. Ma forse, se guardiamo in fondo alla scrittura di Petrolio e de L’odore del sangue, troviamo ancora la notte, una notte fonda che, agendo in profondità, ha obnubilato le coscienze negli anni del disimpegno fino ai più tetri risvolti politici e sociali della contemporaneità, dei giorni che proprio adesso ci troviamo a vivere.