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L’uomo in rivolta nell’era digitale

Pubblicato il 28 Agosto 2018 · in Interventi ·

di Piero Cipriano

Vivremo in una democrazia in cui “la libertà sarà stata un episodio”, così inizia Psicopolitica, il libro dell’apocalittico filosofo tedesco-sud coreano Byung-Chul Han. Una democrazia neoliberale sotto il segno del like. O del dislike. Una comunicazione contrappuntata, quando tutto va per il bene, dagli stucchevoli love, o dagli sganasciati haha, o dagli stupefatti wow, quando va per il male dai melanconici sigh o dai livorosi grr. Lo so, sembro ridicolo, eppure anche sotto i post che accompagneranno questo scritto riceverò qualche decina di commenti in neolingua. Una specie di idiot savant si è inventato questo social network, e di anno in anno come un dio bambino inventa nuovi codici nuovi lemmi, nuove semplificazioni per narrare le relazioni. E ci siamo incamminati verso una semplificazione lessicale ed emotiva che somiglia alla neolingua immaginata da George Orwell in 1984, la semplificata neolingua incaricata di sostituire l’archilingua perché l’archilingua è articolata, la neolingua è funzionale a semplificare il pensiero. Se hai sempre meno parole per dire le cose, immagina Orwell, ovvero “chi parla male pensa male”, per dirla con Nanni Moretti, vedi che la coscienza si restringe. E pure i testi scolastici fascisti o nazisti erano dotati di un lessico semplificato, apposta per semplificare il pensiero. Per un verso allora, nota Han, in questo panottico digitale a cui ci siamo nel volgere di pochissimi anni abituati al punto da non saperne più fare a meno sembra incentivata la comunicazione e lo sproloquio. Per un altro verso c’è un invito alla sintesi e alla semplificazione, i post tanto più vengono letti quanto più sono laconici ed essenziali.

Il problema (ma ciò era prevedibile, pensateci) è che di questa semplificazione lessicale che genera neolingua si sono impossessati (e ne stanno facendo un uso criminale) dei soggetti dal pensiero semplice, che per lo più non hanno fatto studi approfonditi, non si sono spinti oltre le scuole superiori, spesso istituti tecnici, e se si sono affacciati all’università dopo pochi esami hanno capito che invece di perdere tempo a studiare c’era qualcosa di più pragmatico e redditizio da fare: la politica. Anche perché la politica negli ultimi decenni è cambiata, ha smesso di selezionare i più colti (non voglio dire i più etici, perché non è quasi mai stato così), le menti più sveglie, ma in un darwinismo sociale invertito estrae dal mazzo i più fessi, o i più scaltri, o i più ingordi di potere. E così è capitato che questi idiot savant, dico da un Trump a scendere a un Salvini o – per restare nel nostro orto – a un Di Maio un Di Battista un Toninelli insomma gli utili idioti di questi anni, nel comunicare con neolingua fatta di slogan o frasi secche (finita la pacchia, onestà, a casa loro, governo del cambiamento, prima gli italiani, e così via) sono dei veri talenti. Perché un concetto complesso non saprebbero articolarlo, ma hanno questo dono della sintesi estrema che pare fatto apposta per i social più in voga (Facebook, Twitter, Instagram).

E grazie a questo dono di saper parlare semplice – bastano due neuroni e una sinapsi – eccoli dominatori di un dispositivo panottico che il povero Bentham non avrebbe mai potuto immaginare, e neppure noi, fino a vent’anni fa. Anzi, dieci. Un dispositivo dove siamo in reciproca sorveglianza, quindi un panottico a 360 gradi. Un panottico gigantesco. Mettiamo Facebook. Oggi conta oltre due miliardi di iscritti. Che accedono al panottico più volte al giorno. Facebook ha più seguaci del cristianesimo e dell’Islam. È una chiesa più influente di tutte le altre. I cui praticanti sono sempre connessi o raggiungibili. Per mezzo dello smartphone. Smartphone che tocchiamo in media 2617 volta ogni giorno. Non c’è rosario bibbia o corano compulsato con questa frequenza. Facebook è una chiesa che per amen ha un like. Un like come primitivo sistema di gratificazione a breve termine, a base di dopamina. Fatemi semplificare e fare il riduzionista. Propongo questo sillogismo. La psicosi, secondo la teoria più accreditata, da un punto di vista biochimico è causata da un eccesso di dopamina. Il neurotrasmettitore edonico. Quello che dà piacere, insomma. Come a dire: troppo piacere fa impazzire. I like, si dice, aumentano la dopamina. Gratificazione a breve. I like, dunque, producono psicosi. Ecco. Il manicomio digitale, produce psicosi. Non è un caso che coloro che nel 2009 hanno ideato il bottone del like – Justin Rosenstein e Leah Perlman – siano ora i più accesi sostenitori di una sorta di vangelo apocrifo contro la chiesa di Facebook. Si sono disconnessi.

Insomma, ricapitolo: un idiot savant ha creato un manicomio digitale, un panottico a 360 gradi per un reciproco controllo totale. Altri idiot savant si sono impossessati del giocattolo, lo sanno giocare come nessun altro, twittano postano scrivono slogan o frasi lapidarie (molti nemici molto onore) spesso copiate o citando, sapendo o non sapendo tanto è uguale, dato che la cultura è roba da radical chic (altro slogan) e quando sento la parola cultura metto mano alla pistola (altra citazione, chi lo disse? Boh. Che mi frega). Ciò che conta è che questo giocattolo panottico globale è la nuova agorà dove si fa la politica semplificata, la pseudo democrazia partecipata, la democrazia del like, di cui si sono impossessati gli idiot savant Trump Salvini Di Maio.

L’altro ieri, una mia amica che ha votato per gli idiot savant creati dal comico Grillo mi rimprovera la mia anarchia: è il tuo non voto che ha determinato l’ascesa del ministro razzista e fascista. E difendeva i suoi eletti, meritevoli di aver abolito l’aereo con cui Renzi era andato a vedere una partita. Ma non c’è mai andato! È un news fake, informati, ma esci dal panottico, cazzo!

E mia moglie, dopo che lei è andata via (con lo smartphone in mano, e per strada avrà senz’altro distribuito una decina di like a qualche post farlocco): lo vedi? Faccio bene io, che non sono su Facebook, che resisto ai social network tutti: Twitter, Instagram eccetera?

Ma sei un’idiota allora! Ecco perché ti salvi! Davvero, non ti offendere, non sto scherzando. Sai che dice il filosofo Han? Dice che solo se sei un idiota ti salvi. Aspetta, capiscimi. Perché tra tutti questi tipi diversamente idioti ci confondiamo. Non quel tipo di idiota di cui abbiamo detto finora. Han dice: “Una funzione della filosofia è giocare a fare l’idiota”. La filosofia, e sembra controintuitivo, è fatta da idioti. Ma un altro tipo di idioti rispetto a questi che non sanno ma credono di sapere. “Ogni filosofo che realizza un nuovo idioma, un nuovo linguaggio un nuovo pensiero sarà necessariamente un idiota”. Socrate, per dire, sa però afferma di sapere di non sapere, se così è, è un idiota. Pier Aldo Rovatti, per dire, che sostiene la forza del pensiero debole, dell’epochè, del rifuggire i saperi forti, le certezze, le idee potenti, e propone la pratica di un’etica minima, è un idiota. Franco Basaglia, colui che secondo quel grafomane di Vittorino Andreoli “non sa la psichiatria” – e, ammesso sia vero, forse è per questo che l’ha saputa sovvertire – è un idiota. L’idiot de famille, si definiva lui proprio. Oggi – ancora Han – “la figura dell’outsider, del folle o dell’idiota sembra essere scomparsa dalla società”, perché “la connessione digitale”, l’esserci di nostra sponte internati in questo panottico digitale ha aumentato straordinariamente la “coercizione alla conformità”. L’idiotismo, la riluttanza a questa corsa all’internamento digitale, è forse l’ultima “pratica di libertà” rimastaci. L’idiota è colui che non si connette e dunque non si informa al modo dell’informazione totalitaria della rete o dei social. Il non trasparente, colui che non sciama nella rete.

In questi giorni tutti, nei social italiani, come pecore digitali, belano intorno ad alcuni argomenti: tra questi i migranti: gli invasori, i barbari, difenderci dai barbari, casa loro, casa nostra, pacchia, finita la pacchia, così via. Aizzati da un ministro basico che maneggia ripeto con talento da idiot savant i social e la comunicazione fatta di slogan. È la nuova psicologia delle folle. Però siamo ormai oltre “l’età delle folle” descritta da Gustave Le Bon, perché siamo nell’epoca del gregge digitale, o, per dirla sempre con Han, nell’epoca dello sciame digitale. Ma lo sciame non è folla. I connessi sono soli pur sentendosi insieme. L’uomo digitale resta solo, è un hikikomori, uno schizoide, pur sentendosi parte delle cinquecento o cinquemila amicizie o contatti che il social mondiale ti mette a disposizione. I greggi digitali, gli sciami digitali non sanno marciare, non sanno organizzare rivolte, sanno al massimo indignarsi per la causa del momento – ora sono i migranti, c’è chi li difende e chi li vorrebbe morti anzi ha già cominciato ad ammazzarli, domani saranno di nuovo i vaccini, e così via – sanno indignarsi mediante quella scarica emotiva che rapidamente si esaurisce, la chiamano shitstorm, la tempesta di merda.

L’idiota disconnesso non lo sa cos’è una shitstorm. Non ne è stato contaminato. Non ne ha mai subito gli schizzi dell’eloquio semplice a base di merda di un Salvini o dei suoi sgherri. L’idiota disconnesso, non sa, non bela. L’idiota disconnesso, non comunica, non è raggiungibile. L’idiota a-digitale è apolide. È in una sorta di esilio. Potrebbe perfino non esistere, nonostante l’anagrafe. È in una dimensione pirandelliana.

È l’idiota disconnesso che, nell’era della trasparenza e del panottico digitale, forse saprà organizzare, un giorno, una vera rivolta.

Per cui, in questa sorta di nosologia degli idioti, tiriamo le somme: ci sono tre tipi di idioti, in ballo. L’idiot savant che ha creato il panottico digitale, che ha inventato il gioco (Zuckerberg, per non far nomi); gli idiot savant che sanno meglio di tutti giocare il gioco della neolingua e della psicologia delle folle che il panottico determina (Trump, Salvini, per fare qualche esempio). Infine l’idiota disconnesso che non conosce il gioco non gioca ma organizza la rivolta. È sempre un idiota, ma un altro tipo di idiota, e sarà lui il nuovo uomo in rivolta.

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