di Maurizio Marrone

Matteo Meschiari – Rocco Lombardi (illustratore), Neghentopia, Exòrma, pp. 168, € 16,50.

Lucius è un bambino ma è anche un sicario; un killer spietato che uccide a contratto per conto di un monaco misterioso. In un pianeta divorato dalla polvere, diviso tra Repubblica Democratica del Nord e Federazione Popolare del Sud, il suo compito terminale, il suo ultimo contratto da onorare è quello di arrivare a Neghentopia e uccidere il padrone di ciò che resta del mondo. Passando da un omicidio all’altro, il bambino si aggira come un ramingo macilento tra i detriti di una terra stuprata dall’apocalisse. In questo suo viaggio attraverso i sotterranei della vita e della storia lo accompagnano un passero parlante e il dono di dimenticare i propri crimini non appena compiuti. Sospeso in un tempo dilatato e senza confini, il killer solitario attraversa lande deserte e paludi minacciose, istmi di ghiaccio e cittadelle simili a slum, dove un’umanità reietta si accalca alla ricerca della flebile speranza di sopravvivere un giorno in più. Alla fine del viaggio il protagonista dovrà confrontarsi con un esito inatteso.

Neghentopia, l’ultima pregevole fatica letteraria di Matteo Meschiari, sembra consumarsi così: entro il perimetro noto di un futuro distopico e postapocalittico nel quale l’essere umano, attraverso la devastazione del pianeta, porta a compimento il processo della propria autodistruzione. Il riferimento a La Strada di Cormac McCarthy è talmente esplicito e trasparente da risultare più un tributo doveroso che un modello da scimmiottare o al quale ispirarsi. In una intervista di qualche tempo fa lo stesso Meschiari ricorda infatti che, mentre scriveva il libro, sul suo tavolo, tra gli altri testi di riferimento, c’era ovviamente anche La strada di McCarthy: “Perché come si fa a scrivere un testo in primo grado sul dopo apocalisse oggi? Per me dopo McCarthy è impossibile. Ci vuole molta presunzione e il rischio di scrivere banalità è altissimo.” E invece questo rischio è stato aggirato in maniera mirabile grazie alla natura ibrida del tessuto narrativo e alla struttura sempre mutante dell’oggetto-libro che, tra le molte altre cose, è pieno di riferimenti (a volte anche denunciati) alla cultura cinematografica: da Fitzcarraldo a Blade Runner, dalla Guerra del Fuoco a The Great Wall, passando probabilmente per alcune visioni funeste dello Jarmush di Dead Man e del Signore degli Anelli in versione Peter Jackson.
Non è un caso, quindi, che Neghentopia, arricchita dalle splendide illustrazioni di Rocco Lombardi, si presenti come una vera e propria sceneggiatura; uno script con titoli di testa e di coda, nel quale i dialoghi si succedono alle descrizioni, con tanto di accennati quanto meticolosi movimenti di macchina – Lampadina appesa a un filo. Dondola al vento. Il cerchio di luce si sposta. Va avanti. Torna indietro. Ma in questo registro biunivoco, in cui l’oggetto è legato a doppio filo con l’occhio che guarda, si inseriscono spesso dei marcatori espliciti e repentini che riportano il lettore alla sua condizione di estraneità strutturale: le parentesi in cui l’autore suggerisce una personalissima colonna sonora (da Schoenberg alle vertigini elettroniche di Delia Derbyshire, passando per Patti Smith, Brian Eno e Frank Zappa) si alternano a veri e propri suggerimenti sullo stato d’animo che il lettore (anche se forse sarebbe più appropriato dire lo spettatore) dovrebbe provare in quel momento. Poi accade qualcosa all’improvviso che ci fa sussultare. È come se Meschiari si prendesse gioco di noi. Prima ci spinge oltre il limite delle nostre possibilità mimetiche, strappandoci di continuo alla narrazione, per ricordarci che, in fondo, si tratta solo di fiction; poi invece ci lascia quasi affogare nella straordinaria potenza simbolica ed evocativa dei paesaggi che si dipanano lungo il viaggio. Anche per questa ragione il libro procede per sottrazioni e accumulazioni progressive: sottrazione di dialoghi, rarefatti ai limiti dell’estinzione e accumulazione di immagini parlanti, paesaggi vivi restituiti al lettore con la meticolosità scientifica di un entomologo.

Meschiari è un autore eclettico: etnologo, antropologo, studioso del rapporto tra paesaggio e scienze cognitive, narratore e saggista militante, teorico dell’inesorabile dissoluzione ambientale a cui ci sta lentamente ma inesorabilmente condannando quello che lui definisce il carattere cannibale del neoliberismo. E forse è proprio la natura esogena del suo background di narratore che fa di Neghentopia un oggetto, a sua modo, prezioso e svincolato dagli stilemi tipici della narrativa distopica. Come in ogni classico del genere, dalla Macchina del Tempo di Welsh in poi, ci sono ovviamente la critica al sistema e una visione pessimistica e lisergica del futuro. Il tutto però è arricchito da una straordinaria cura nella descrizione del paesaggio, da un ricorrente e complesso sottotesto simbolico e dalla presenza di una serie di personaggi fantastici che, a tratti, trasformano il libro in una cupa e affascianante fiaba animistica. Oltre al passero (il riferimento al grillo parlante di Pinocchio è immediato) che guida il protagonista lungo il cammino e lo pone al cospetto dei suoi gesti scellerati, la coscienza di Lucius sembra essere sorvegliata dall’anima stessa delle cose: i granchi, il suo kayak, la sabbia, un caribù, la fiamma del fuoco al quale si scalda. Le cose e gli animali gli parlano, lo interrogano, lo confondono, lo spaventano e lo mettono in guardia. Ma l’assassino prosegue, uccide e dimentica.
Il potere confortante dell’oblio è quindi il motore che spinge Lucius verso il compimento della sua missione, che è anche il suo fato, e l’orrore dimenticato dei suoi gesti è il simbolo del collasso ecoambientale in cui l’umanità ha precipitato se stessa. In questo viaggio inesorabile verso la fine, tuttavia, le nubi dell’oblio di tanto in tanto sono squarciate dall’apparizione di una creatura immonda che bracca l’assassino; una bestia dalle sembianze mostruose a metà tra inconscio collettivo e proiezione onirica della colpa. La bestia segue il bambino, lo minaccia come un’ombra di morte che è dentro e fuori di lui e gli parla per ricordagli il suo destino e il suo peccato inemendabile. In questo movimento dialettico tra oblio e coscienza rammemorante, passo dopo passo, si consumerà il declino dell’essere umano e del suo mondo. Non è un caso che, dopo i titoli di testa, bianco su fondo nero, appaia una profetica citazione di Guy Debord, probabilmente a tutt’oggi il più lucido cantore della potenza distruttiva del mondo globalizzato:

lo spettacolo organizza magistralmente
l’ignoranza di ciò che accade e, subito dopo,
l’oblio di ciò che comunque siamo riusciti a sapere.

[schermo nero]

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