di Valerio Evangelisti

[Sono iniziate le “celebrazioni” del 1968, nel cinquantenario di quella rivolta su scala mondiale. E’ prevedibile che, per l’Italia, si insista sul versante della ribellione studentesca e culturale, certo decisiva. Ma vi fu anche un’insubordinazione operaia che preludeva a quella, più ampia, del ’69. Per richiamarla alla memoria ripropongo un brano tratto da: Valerio Evangelisti, Salvatore Sechi, L’autunno caldo: l’offensiva della classe operaia, in AA. VV., “Storia della società italiana”, vol. XXIV, Teti Editore, 1991 (il testo che cito è solo mio). Ho soppresso le note.]

L’ORGANIZZAZIONE DELLA SPONTANEITA’

Nei primi mesi del 1968 i moti di insofferenza e di insubordinazione che, pur contenuti e disorganici, si erano sporadicamente manifestati nelle fabbriche fin dall’inizio del decennio cominciano a precisarsi e a distendersi in una serie di azioni di lotta. In febbraio uno sciopero di tre giorni alla Pirelli vede una partecipazione operaia talmente compatta da sorprendere e turbare gli stessi sindacati. In marzo uno sciopero generale sul problema delle pensioni è sorretto da una mobilitazione inattesa per estensione e per intensità. Tra marzo e aprile scioperi a oltranza, accompagnati da picchettaggi, infrangono la pace sociale all’ Autobianchi, all’Ercole Marel1i, alla Magneti Marelli e all’Innocenti di Milano, stabilimenti in cui la presenza sindacale era tradizionalmente priva di incisività.

Nello stesso periodo scende in lotta la Marzotto di Valdagno, fabbrica a gestione paternalistica, collegata a una comunità operaia votata al culto della dinastia tessile. Gli operai affrontano la polizia davanti ai cancelli, dilagano in città, si congiungono al resto della popolazione e per ore sfogano la loro rabbia sui simboli del precedente asservimento (facendo a pezzi, tra l’altro, l’effigie benevolente del fondatore).
Quasi contemporaneamente alla Fiat, regno di «anime morte», una vertenza aziendale viene gestita dalla nuova leva operaia con inedita durezza, ponendo le basi per l’ingresso in fabbrica di gruppi di estrema sinistra fino ad allora a predominante composizione studentesca.
Analoghi momenti di scontro si verificano nel corso dell’anno in tutti i maggiori centri industriali. Tra i tanti, il più gravido di anticipazioni sulle caratteristiche del biennio successivo è quello che, dall’autunno in poi, vede ancora una volta protagonisti gli operai della Pirel1i.

La frettolosa chiusura dello sciopero di febbraio è accolta con un diffuso malcontento, che non tarda a tradursi in una serie di di fermate di reparto improvvise e devastanti. Al centro delle rivendicazioni operaie è la limitazione del cottimo, e in prospettiva la sua abolizione, quale supremo strumento di costrizione a produrre. Arma di lotta, e al tempo stesso suo obiettivo, è l’autodeterminazione dei ritmi. (…)
C’è di più. Il giovane proletariato {alla Pirelli sono state effettuate duemila nuove assunzioni nell’arco di due anni) contrappone alla razionalizzazione dei metodi produttivi la razionalizzazione delle forme di conflitto, cercando i punti deboli dell’organizzazione aziendale e sferrando i propri colpi là dove il danno è minimo per gli operai e massimo per il padrone. Lo sciopero prevedibile e programmato, attuato dopo essere passato al vaglio delle centrali sindacali, perde importanza, mentre la conflittualità diffusa diviene il modo “normale” di stare in fabbrica. L’estraneità all’azienda e ai suoi fini raggiunge livelli tangibili ed estremizzati.

Nascono, dapprima collateralmente e poi contro i sindacati, i Comitati unitari di base, diretta espressione della volontà operaia di autogestire le vertenze. La loro incidenza raggiungerà i massimi livelli nella primavera-estate del 1969, quando ben pochi saranno i grandi complessi industriali del Settentrione privi al loro interno di organismi di massa extrasindacali. E’ curioso osservare come gli elementi su cui riposano la forza e la capacità d’attrazione dei Cub siano gli stessi che ne rappresentano la sostanziale fragilità e che, a partire dalla seconda metà del 1969, ne determinano il crollo. Sorgendo dalla base ed essendo estranei a ogni forma di istituzionalizzazione, i Cub riescono a muoversi con estrema duttilità entro la fabbrica, cogliendo reparto per reparto e squadra per squadra le istanze collettive e persino individuali, fino a condensarle in rivendicazioni globali e in articolazioni tattiche la cui stessa gestione (al di là quindi del risultato contrattuale) sposta i rapporti di potere a favore dei lavoratori. Non è un caso se i volantini dei Cub offrono spesso un quadro assai più dettagliato della condizione di fabbrica di quello offerto dalla pubblicistica sindacale e di partito.
Tuttavia – e qui è il limite fatale dell’esperienza – i Cub finiscono per attribuire alle lotte fabbrica per fabbrica un valore strategico globale, senza riuscire a cogliere pienamente i nessi che uniscono operaio e condizione operaia, azienda e territorio, tempo di lavoro e tempo libero. La stessa unità operai-studenti che i comitati perseguono, non essendo per lo più basata su precise analisi sociali ma su mere considerazioni politiche (gli uni al servizio degli altri, o gli uni in posizione di guida rispetto agli altri), non sfocia in una fuoriuscita dai cancelli, ma anzi in una più stretta chiusura entro gli stessi. E poiché all’interno della fabbrica il momento della risoluzione delle vertenze è saldamente in pugno alle rappresentanze sindacali, i Cub devono limitarsi a un’opera di pungolamento e di sollecitazione, agendo sulla quotidianità senza poter gestire il lungo periodo.
Finiranno con l’appoggiarsi al supporto non sempre disinteressato di alcune organizzazioni extraparlamentari, mentre altre organizzazioni (Lotta Continua in particolar modo) preferiranno scavalcarli assumendo in proprio compiti a un tempo politici e sindacali.

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