di Sara Giudice

Quando avevo ventun anni i miei andarono in vacanza per un mese, al mare, in Spagna. Era divertente immaginarli mentre tentavano di farsi capire da qualcuno che non parlava l’italiano, o che peggio cercavano di parlare spagnolo aggiungendo “s” a casaccio alla fine delle parole perché “parlare lo spagnolo tanto è facile, basta fare così”. Cinque anni di liceo linguistico e due anni di vani tentativi alla facoltà di mediazione linguistica mi hanno insegnato che nessuna lingua è semplice, tanto meno lo spagnolo – anche se in realtà questo è una conclusione a cui si può arrivare anche solo attraverso il buon senso.

Dicevo che quindi i miei decisero di andare in vacanza per un mese, al mare, in Spagna, per riposarsi. Avevano i soldi, volevano spenderli. Mi sembrava giusto, anche se io non spendevo quasi mai i miei perché avevo il pallino di conservare tutto quello che riuscivo a raccattare e ce l’ho anche ora e comincio sinceramente a chiedermi se io sia uno di quei soggetti malati che finiscono in programmi tv di dubbio gusto che parlano di persone affette da disturbi o psicosi strane. Non andai con loro anche per questo, per far risparmiare loro i soldi che avrebbero dovuto spendere per il mio biglietto aereo, per la stanza tripla, per il cibo e così via. Mi piaceva andare in vacanza coi miei anche se avevo più di vent’anni, ma quell’estate volevo anche che si facessero i cazzi loro, magari che scopassero un po’, che si facessero le coccole e che si dessero bacetti teneri e che si tenessero per mano mentre aspettavano l’ordinazione al ristorante. Mi piaceva sapere soprattutto che per un mese avrei avuto l’appartamento tutto per me, avrei potuto tenerlo in ordine da sola, avrei potuto fare la lavatrice la sera e poi avere l’ansia di stendere i vestiti in balcone la mattina e poi ritirarli se piove o se c’è troppo sole, sennò poi si seccano e ti devi mettere addosso t-shirt incartapecorite che sembrano inamidate col cemento – per non parlare dei jeans. Molto spesso mi chiedevo se fossi in realtà la figlia della colf (che tra le altre cose aveva il divieto categorico di entrare nella mia camera perché mi faceva schifo l’idea che qualcuno che non fossi io o i miei genitori o chiunque avesse la mia personale autorizzazione si mettesse a toccare le mie cose e lei quest’autorizzazione, come dicevo, non la aveva) piuttosto che la figlia di mia madre. Forse un po’ mi sarebbe piaciuto. Mi era sempre stato sul cazzo essere una ragazza bianca e privilegiata, mediamente benestante. La terapeuta diceva che ero una maniaca del controllo ed era in effetti una maniera molto più semplice di descrivere la mia condizione.

Da giovane ero una persona noiosa. Pensavo a fare la lavatrice, a fare la spesa, a comprare vestiti monotoni. Le poche amiche che avevo al liceo mi avevano lasciato da sola quando avevo passato sei mesi orribili in cui ogni sera sentivo mia madre frignare in bagno a qualsiasi ora o mio padre sospirare in balcone di notte mentre fumava i suoi sigari dall’odore rivoltante perché mia nonna stava morendo lentissimamente e quindi non potevo invitarle a cena da me per mangiare pizza e fumare l’erba che mi passava mio cugino e che mi passa tutt’ora.

Domenico, mio cugino, ha tre anni più di me e una galleria d’arte che gli fa guadagnare molti soldi e mi aiutava, quando ero più giovane, a portarmi a letto un sacco di wannabe artisti-barra-critici d’arte che ce l’hanno lungo ma con i quali il giorno dopo non puoi scambiare due parole in croce perché hanno lo spessore cerebrale ed emotivo della mia coppetta mestruale, che è piuttosto sottile. Anche adesso esco con mio cugino per scoparmi i suddetti wannabe artisti-barra-critici d’arte che ce l’hanno lungo bla bla e bla e più passa il tempo più la cosa mi innervosisce, persino più delle pubblicità in tv che prendono per il culo i vegani.

È un tipo simpatico, mio cugino, mi rimediava erba e scopate anche se non avevo né arte né parte e stare con lui era divertente a vent’anni ed è divertente a trentacinque. È divertente soprattutto per quanto riguarda la sua grande passione per i libri illustrati e quelli per bambini, pure quelli pop-up. Anche adesso, dopo aver sorpassato di gran lunga la preadolescenza, l’adolescenza e la post-adolescenza. Quando lo vado a trovare mi ritrovo spesso davanti alla sua libreria a cercare di capire cosa ci trovi di tanto interessante in quei cosi colorati, risultando probabilmente la matta della festa. Eppure poi scopo lo stesso.

Recentemente ho conosciuto un tizio. È stato la scopata migliore degli ultimi cinque anni. Si chiamava Alberto, era alto, smilzo, un po’ timido. Quando l’ho invitato a mettersi comodo lui è rimasto in bilico sul bordo del divano, impacciato, si guardava intorno e reggeva la birra che gli avevo offerto con entrambe le mani. Era adorabile e più giovane di me. Mi piacevano gli occhiali dalla montatura sottile che teneva sul naso da signorina francese, mi piaceva la maniera elegante che aveva di tenere addosso vestiti che di elegante non avevano nulla. Aveva gli occhi piccoli, le dita sottili. Quando ci siamo spogliati sullo stesso divano, lui mi ha toccata con le dita ancora umide dalla condensa sul vetro della birra che alla fine non ha più finito di bere. La finii io la mattina dopo, quando se ne andò. Ricordo la maniera in cui mi baciava ogni centimetro quadrato della pelle, e come mi sfiorava fra le cosce con la lingua e come mi accarezzava la testa rasata mentre io lo sfioravo fra le cosce e mi occupavo della sua erezione. Dieci anni fa avrebbe accarezzato una massa indescrivibile di ricci scuri, ma ora non più. I suoi gemiti da ragazzina si sono espansi in casa mia adattandosi alle mie urla quasi come una composizione musicale. Toccare i suoi fianchi e le sue natiche mentre mi era sopra e dentro era il gesto più intimo dopo quello della bocca di un neonato che cerca il capezzolo della madre per tirare il primo sorso di latte.

Comunque non l’ho più rivisto e in fondo mi sta bene così.

Quando i miei se ne andarono di casa per un mese non pensai di approfittarmi della situazione per scoparmi qualcuno, anzi. Volevo stare da sola. Volevo godermi il silenzio serale dell’appartamento troppo grande, che poi non era veramente silenzio dato che in una zona trafficata come quella in cui abitavano i miei i clacson delle macchine, i rumori dei mezzi pubblici, le urla delle persone e dei sociopatici ubriachi sui marciapiedi erano la regola anche alle tre della notte. Ero però diventata brava ad estraniarmi dal chiasso e a rintanarmi nelle quattro vecchie mura screpolate che allora erano quella che chiamavo “casa”. Ero riuscita a raggiungere quel particolare grado di sopportazione per cui, a comando, riuscivo a estirpare dalla testa ciò che è fastidioso e raggiungere uno speculare stato di pace che mi serviva per non uscire di testa. Adesso che vivo fuori città qualsiasi rumore che non siano uccelli che cantano al mattino oppure civette durante la notte oppure il miagolio delle gatte in calore mi disturbano e infastidiscono incredibilmente, mi tengono sveglia, ma sono rari e questo è bene.

I miei invece abitano ancora in città, soprattutto perché invecchiare in una zona isolata è di questi tempi non troppo comodo. Io non ho di questi problemi.

Allo stesso modo in cui adesso posso starmene in giardino a mezzanotte e venti ad ascoltare il niente o semplicemente a pensare a come faccia il mio gatto a stare costantemente in casa invece di godersi l’aria aperta, in quel momento della mia vita (quando avevo ventun anni) volevo solamente sedermi sul punto del pavimento più centrale dell’appartamento e cercare un silenzio che non c’era da nessuna parte, né all’interno né all’esterno.

Quando accompagnai i miei all’aeroporto, sentii un vago senso di vuoto e una forte nostalgia mi assalì quando tornai in casa quel tardo pomeriggio e mi misi a preparare una cena che avrei mangiato da sola, in silenzio. Era bellissimo e spaventoso.

Mentre masticavo i broccoli che avevo buttato alla rinfusa su un piatto di pasta al pomodoro, la solitudine mi riempiva la testa di pensieri scuri e pesanti che non riuscivo a cacciare via nemmeno guardando fuori dalla grande finestra, visibile dal tavolo della cucina, che sovrastava i fornelli di mia madre, una cosa che di solito era sempre riuscita a calmarmi. Masturbarmi quando ero totalmente sola diventava una tortura e ogni volta che nel silenzio vuoto dell’appartamento in cui per trenta giorni avrei vissuto da sola cominciavo ad infilarmi la mano sotto gli slip un po’ bagnati dal sudore dell’estate, una voce mi riempiva le orecchie di risate maligne che mi ricordavano che fino ad allora non ero riuscita ancora a fare tutto quello che secondo le mie idee di allora devono fare le persone giovani se vogliono cominciare a costruirsi una vita decente. Le cose di cui parlo sono: fare l’università, costruire dei rapporti di amicizia con delle persone su cui poter contare e trovare l’Amore. Io avevo fallito i miei pochi tentativi all’università, non avevo amici e scopavo persone che mi annoiavano e che quindi non avrebbero potuto suscitare in me nessun tipo di sentimento, nemmeno impegnandosi. Non mi stavo nemmeno accontentando, perché una non può accontentarsi di qualcosa se non ha nulla tra mani. Mi capitò di scoppiare in lacrime mentre mi facevo la e il fatto di poter piangere e singhiozzare senza dovermi preoccupare che i miei genitori o la nostra colf mi sentissero (mi disturbava l’idea di farmi consolare da un adulto tanto quanto mi disturba ora l’idea di farmi consolare da una persona più giovane di me) mi faceva in qualche modo sentire meglio e mi permetteva di essere capace di smettere di lacrimare molto prima di quanto sarei riuscita a fare se ci fosse stato qualcuno nella stanza accanto che avrebbe potuto sentirmi.

Era piacevole poter essere triste in totale libertà.

«Non capisco che problemi hai, porca puttana» mi disse una volta Domenico «i tuoi sono pieni di soldi, potresti fare qualsiasi cosa»

«Il problema è proprio questo: io non voglio fare qualsiasi cosa» risposi io con aria pretenziosa, fissando la vita sotto al balcone dell’appartamento di suo padre.

La madre di Domenico morì durante il parto, quindi nessuno di noi due la conobbe mai, la conoscevamo solo attraverso i racconti dei miei genitori, di suo marito e dei nostri nonni. Quando mio cugino andò a vivere da solo per la prima volta lo aiutai a fare il trasloco insieme a suo padre e quando finimmo di sistemare tutti gli scatoloni di roba che aveva portato nel nuovo appartamento ricordo chiaramente le sue mani che sistemavano, su un piccolo mobile all’ingresso, una foto di dimensioni piuttosto modeste che ritraeva i suoi genitori giovani e felici in un giardino. Si abbracciavano, sorridevano. La stessa foto sta adesso all’ingresso della sua attuale casa, quella che era riuscita a comprare con i soldi della galleria d’arte, e se la guardo abbastanza a lungo riesco a sentire la risata cristallina della donna che aveva partorito Domenico e con cui Domenico sentiva un legame viscerale, ma che non aveva mai conosciuto. Un legame viscerale non compiuto, interrotto al principio. Un cappio al collo delle sue budella. I loro cuori avevano battuto insieme solo per il breve periodo in cui lui aveva abitato il suo corpo, poi lei si era spenta come se qualcuno avesse premuto per sbaglio un interruttore.

Dopo la mia frase incomprensibile, comunque, lui mi strappò gentilmente lo spinello dalle dita e rise senza rispondermi. In fondo non c’era nulla da dire, quindi nemmeno mi incazzai più di tanto.

Durante quel mese di finta indipendenza, invitai un paio di volte a casa Domenico e i suoi amici e li guardai entrambe le volte addormentarsi in salone (per la maggior parte sul pavimento) mentre mi chiedevo per quale motivo li avessi invitati. Poi mi chiudevo in camera mia e dormivo tranquillamente fino al giorno dopo e mi svegliavo solo quando Domenico bussava alla porta per dirmi che lui e i suoi amici se ne stavano andando e per chiedermi se avessi bisogno di una mano a mettere in ordine la casa. Io farfugliavo puntualmente che non dovevano preoccuparsi perché la colf dei miei sarebbe arrivata presto. La colf non sarebbe arrivata, i miei gli avevano dato quel mese di vacanza retribuita per dedicarsi alla sua famiglia in provincia e a me comunque rilassava pulire e riordinare, forse perché ero una persona noiosa, forse perché quello era l’unico modo che avevo per tenere sotto controllo le cose. Mi piaceva sapere che qualcuno degli amici di mio cugino mi avrebbe guardato il culo, quindi non mi preoccupavo mai di mettere i pantaloni corti del pigiama sopra gli slip mono-tono.

Il rapporto fra me e Domenico era sempre stato piuttosto particolare: da piccoli, avendo lo stesso carattere insopportabile, durante le cene di famiglia finivamo puntualmente per picchiarci come animali, delle risse casalinghe dalle quali uscivamo entrambi distrutti (per quanto possa essere distruttiva una rissa fra bambini) perché lui non era uno di quelli che non picchiavano le donne in quanto donne e anzi me le dava forte tanto quanto gliele davo io (in faccia, sulle gambe, sul culo, coi piedi, con le mani, con le ginocchia). Poi un giorno un bulletto a scuola (frequentammo la stessa scuola elementare per un anno e mezzo, prima che il padre di Domenico se lo portasse dietro quando per lavoro dovette trasferirsi all’estero) lo prese di mira e io decisi di mettermi in mezzo, non ho mai capito il perché dato che ero incredibilmente minuta. Io e Domenico venimmo pestati a sangue dal grasso e incredibilmente forte figlio di un noto avvocato, che accusò noi dell’accaduto quando i nostri genitori furono convocati dalla maestra per discutere di ciò che era successo. Poi mio cugino se ne andò e quando tornò, dopo sei mesi, fummo sin da subito culo e camicia. Lui era il culo, io la camicia.

Domenico è la cosa più vicina che io abbia mai avuto a un fratello e se penso a quello che è venuto negli anni successivi penso che mi farei pestare da quel ragazzino insopportabilmente viziato altre mille volte. Ogni tanto ne riparliamo, della rissa alle elementari, soprattutto quando siamo brilli e in compagnia. Ci fa ridere.

Alla ragazza di Domenico sono particolarmente simpatica e quella storiella la fa sempre sorridere, ma senza troppe esagerazioni. È una donna molto posata. Anche a me lei piace molto: si chiama Angelica, è bella, bionda, intelligente e secondo me sarà una brava madre. È già incinta, di una femminuccia, da quattro mesi. Lei è inoltre l’unica motivazione per la quale le persone che frequentano mio cugino hanno smesso di scherzare ipotizzando una relazione incestuosa. Lì ho capito che gli amici di Domenico mi scopavano soprattutto perché aleggiava intorno a me quest’aura di ribellione e trasgressione, che passava per una possibile relazione con mio cugino più grande e finiva nella vaga possibilità che fossi lesbica. Mi scopavano per sfida e io li lasciavo fare.

Sono una bella coppia, Angelica e mio cugino, so che saranno felici finché resteranno insieme.

Quando i miei se ne andarono in Spagna per un mese, una domenica andai al mare. Mi svegliai alle quattro del mattino, mi feci una doccia, indossai il costume, un vestito leggero e infilai in una grossa borsa la crema solare, una bottiglia d’acqua di rubinetto, un asciugamano in microfibra, il cellulare, il portafogli, un libro che volevo finire di leggere. Presi la macchina dei miei (a diciannove anni ero riuscita a distruggere la mia rischiando la vita nel frattempo perché uno aveva preso la mia carreggiata contro mano e per evitare un frontale io avevo preferito schiantarmi su una parete della galleria che stavo attraversando in quel momento) e alle sei meno dieci arrivai in spiaggia.

La sabbia era umida, fresca, non c’era nessuno. Solo dopo dieci minuti vidi in lontananza un tipo in divisa che cominciava a rastrellare la fetta di sabbia di uno stabilimento poco lontano. Io ero in zona franca, la spiaggia libera, potevo fare quello che volevo. Stesi l’asciugamano con cura e mi sfilai i sandali dai piedi posizionandoli accanto alla borsa ancora chiusa. Fissai il mare lasciando che i miei lunghi capelli ondulati e scuri si muovessero liberamente al suono del vento, che danzassero nell’aria e mi solleticassero il viso, le braccia. Le onde che facevano timidamente avanti e indietro dal mare alla battigia mi fecero venire voglia di rimanere in quella sezione di spazio-tempo per sempre, quindi decisi che tornando a casa avrei fatto il pieno con un po’ dei soldi che mi avevano lasciato i miei e l’indomani sarei tornata di nuovo lì. Mi lasciai cadere sdraiata sulla superficie morbida dell’asciugamano e allargai le braccia per accarezzare la sabbia, farmela passare fra le dita, lasciare che mi si infilasse sotto le unghie e rimanesse lì. Forse mi addormentai per qualche decina di minuti.

Ad un certo punto mi venne voglia di entrare in acqua, anche se sapevo che sarebbe stata gelida. Sfilai il vestito e lo lasciai cadere sopra la borsa, dopodiché camminai senza guardarmi indietro verso il bagnasciuga, dove i miei piedi affondarono nella sabbia mista ad acqua che sembra fanghiglia, con cui può creare strane costruzioni facendotela sgocciolare dalla punta delle dita, una cosa che facevo spesso da piccola e che probabilmente mi faceva sembrare piuttosto scema agli occhi degli altri bambini in vacanza con mamma e papà.

Ad ogni passo affondavo un po’, mentre mi avvicinavo ad una quantità eccessiva di acqua che non puoi bere altrimenti il sale ti entra in circolazione facendoti uscire di testa poco prima di morire. Mi tuffai senza pensare alle mie cose, abbandonate sulla spiaggia, lontano da me, non mi preoccupavo del fatto che qualcuno me le potesse portare via dato che quel luogo era totalmente deserto in quel momento e io volevo stare da sola. Mi andava bene.

Quando entrai in acqua e mi lasciai sprofondare nell’acqua limpida, mi misi a pensare che volevo restare in apnea fino a quando non avessi sentito i polmoni bruciare. Lo feci: rimasi sott’acqua fino a quando i sacchetti di tessuto vivente che avevo nella cassa toracica non cominciarono a fare male e più la corrente mi spingeva in alto più io mi spingevo in basso. Tentavo di sentire i capelli che fluttuavano nell’acqua, ma non ci riuscivo. Non riuscivo nemmeno a sentire la salsedine sulla pelle, l’avrei sentita solamente una volta uscita. Riemersi dalla superficie dell’acqua inspirando quanta più aria possibile. Avevo la vista appannata, forse perché avevo tenuto gli occhi aperti nell’acqua del mare. Mi guardai intorno e tentai di vedere se la mia borsa fosse ancora dove l’avevo lasciata e dopo essermi stropicciata le palpebre con le dita misi il mondo a fuoco e la vidi lì, sola, che mi aspettava. A quel punto mi sdraiai sul pelo dell’acqua e mantenni il bacino in alto per rimanere a galla, così come mi avevano insegnato al corso di nuoto che i miei mi obbligavano a frequentare da piccola perché avevo paura dell’acqua. Tenni gli occhi chiusi mentre la luce non troppo debole del mattino mi colpiva il viso bagnato.

Mi sentivo una piccola Ofelia marina, col costume da bagno intero, blu scuro, da signora, la pelle bianca, i capelli scuri, gli occhi tondi e castani, che comunque erano coperti dalle mie palpebre quindi non erano visibili al sole, che in quel momento sembrava guardare solo me.

Dopo poco decisi di ritornare alla mia postazione sulla sabbia, per asciugarmi. Chi avrebbe potuti farmi del male su una spiaggia totalmente vuota alle sette meno un quarto del mattino? Chiunque, forse nessuno. Alla fine mi sdraiai sul mio asciugamano in microfibra e lessi il romanzo che mi aveva accompagnato fin lì, al mare. Il caldo non era così spiacevole come in città. Lessi in mio libro per quasi tre ore. Era un libro molto lungo.

Tornai in macchina accompagnata dal rumore delle prime automobili che venivano sistemate nel parcheggio dello stabilimento vicino. Erano probabilmente coppie con bambini piccoli, che non possono essere esposti al sole dell’ora di pranzo esattamente come i pelosi gremlin non possono essere nutriti dopo mezzanotte.

Sorrisi all’idea di Domenico che educava e allevava un piccolo gremlin biondo.

Smisi di ridere quando rispondendo alla chiamata di mia madre il mio “ciao, mamma” fu soffocato da un singhiozzo e mi ritrovai ad essere consolata da una persona più grande di me e la cosa mi diede molto fastidio.

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