di Filippo Casaccia 

Simone Pieranni, Genova macaia, Laterza 2017, pp. 148, € 14

Noi genovesi siamo diversi.
Ci sentiamo diversi e viviamo questa diversità esibendola con un orgoglio che spesso è solo il modo per nascondere la dolce tristezza che ci contraddistingue. Abbiamo spesso un carattere ispido, burbero, mugugnone, con cui poi si raggiungerà un’intesa, ma che al primo approccio vi tiene a distanza, con diffidenza, prendendo le misure.
E di come siamo, di come ci comportiamo, ce ne rendiamo conto solo quando a Genova, finalmente, facciamo ritorno e guardiamo la nostra città con uno sguardo un po’ da foresto, come si dice da noi, apprezzando di nuovo quella dolcezza di vivere per cui l’inverno è sempre un po’ più clemente di quello che vivi a Milano e l’estate sempre un po’ più fresca.
Bene: se non avete avuto la fortuna di nascere anche voi in questa Superba da sempre coacervo di contraddizioni e di armonia tra anime diverse e che vive di passato e poco di futuro, a farvi capire quella malinconia sottile, quella somma di risentimenti e alterigia che è Genova e l’essere genovese e di come la città e la natura di chi la abita siano inseparabili, contribuisce questo nuovo libro di Simone Pieranni, ancora una volta – come nel precedente 72 – con un racconto in forma di autofiction, senza che importi quanto narrato della vita dell’autore sia vero o verosimile o forse solo immaginato.
Vi chiedo di perdonarmi se mi scapperà dell’autobiografismo non richiesto ma nel magnifico libro di Pieranni mi sono ritrovato perfettamente. E mi è successo pur partendo da presupposti sociali e geografici diversi. Io cresciuto nella Albaro borghese e distaccata di Levante, lui – di poco più giovane –, nella periferica Bolzaneto più laboriosa, già lontana dal mare, a Ponente.
Nel percorso che abbiamo fatto tutte e due da punti eccentrici ed opposti della città verso il suo cuore, alla sua scoperta – durante l’adolescenza e ai tempi dell’università –, c’è lo stesso stupore. E c’è un identico sentimento provato nella lontananza da quel nome che è luoghi familiari, affetti, amicizie, profumi, sapori e anche sofferenza, tanta. Perché – e questo spettro aleggia su di noi come su tutta la nostra generazione – Genova è la città del G8, di un mondo diverso solo sognato, di una repressione violenta mai sanzionata. Genova è diventata un simbolo, un modo di dire, “quelli che erano a Genova”, i fatti di Genova, i processi di Genova.
Una ferita che non si richiude e il cui dolore nasconde tutto il resto.
Quello che avvenne in qui giorni del 2001 ha anche scippato l’autore del nome del suo preciso luogo di nascita. Bolzaneto non è più una delle tante realtà periferiche inglobate dalla città, no: ormai è solo la caserma di Bolzaneto, quella di fianco alla quale lui giocava da bambino.
Ed è per risarcire la città, per dare dignità ai nomi che hanno una storia per fortuna diversa, Pieranni – che di quei giorni infami è stato testimone e poi ne ha seguito come cronista la storia giudiziaria – intraprende una serie di percorsi attraverso una realtà fisica che è una sfida podistica: discese e salite ripidissime tra acqua e monti, raccontando la natura verticale oltre che orizzontale di una città che è srotolata sul mare e chiusa alle spalle dall’Appennino, ma che vive nelle vallate anguste che in questi rilievi si fanno strada, passando da un sole caldo a un’ombra gelida. Genova è una città di funicolari, ascensori, ponti su altri palazzi, portoni di casa all’ultimo piano in alto e giardini bui al piano terra, stretti tra muri di contenimento altissimi. È affacci, sbocchi, strettoie, vicoli ciechi, svincoli micidiali – come cantava De Gregori – e uscite autostradali che sono le porte d’ingresso a questi tragitti di conoscenza. E ognuna di queste bocche che ti ingoiano nel corpo della metropoli ha una sua peculiarità.
Genova Ovest ti catapulta già nel centro, salutandoti con la Lanterna, e subito ti immette in quel serpentone di asfalto che è la Sopraelevata, così cara a noi e così invisa ai turisti che non capiscono quale tuffo al cuore sia tornare a casa e avere a disposizione una camera-car fenomenale, con tutta la città ai tuoi piedi, con la modernità accanto ai palazzi del 1000, il cemento a fianco della pietra, dei mattoni, del marmo.
Genova Est invece sfiora, per aria, un acquedotto storico e ti fa costeggiare il cimitero di Staglieno, il carcere e lo stadio di Marassi, il torrente Bisagno che tutti conoscono per le troppe esondazioni, la stazione Brignole e infine la Foce e il mare. E di nuovo le memorie del G8 in corso Italia.
Ma c’è anche Genova Nervi, un’uscita autostradale che significa evasione, mare, spiagge – spiagge come lo sono quelle di Genova e dintorni: scogli lepegosi e sassi, ma lì, a due passi da casa, evocate da quelle facce marroni, sempre abbronzate che hanno i genovesi che mettono il naso al sole appena possono (e possono molto spesso).
La città, il centro, sono poi attraversati da un reticolo di tragitti individuali, di incroci, di sorprese, perdendosi e ritrovandosi: ed ecco allora il Cantinone, i centri sociali, le facoltà, le panetterie, la comunità di San Benedetto al Porto, la poesia di Caproni fatta realtà e quella in musica e parole di Ivano Fossati e tanti altri ancora.
Io, futuro architetto, scoprii veramente il cuore della mia città nel 1994, facendo una ricerca sociologica per la facoltà di Economia.
Vengo da Albaro – uno dei quartieri alti, come li chiama Pieranni – e ho vissuto in una condizione astorica, protetta, vicino a Boccadasse, col lungomare davanti, le domeniche delle vasche dei genovesi con la radiolina attaccata all’orecchio per seguire i risultati del Genoa e di quegli altri.
Quel lavoro mi permise di capire che, quelli che erano fondali per noi studenti privilegiati, erano in realtà voragini profonde: entravo negli appartamenti che si affacciavano sui caruggi, vedevo come si viveva tra quei muri antichi, spesso fatiscenti, e constatavo la dignitosa vitalità imprenditoriale di quella immigrazione che ancora non era comodo dipingere come pericolosa. E al contempo testimoniavo la sparizione, spesso per semplice consunzione, della Genova antica, non più al passo coi tempi.
Ovviamente per Pieranni è interessante la commistione delle vite di questa città e come si sono consolidate nella pietra, nei luoghi. E per condurci per mano in questo viaggio racconta anche le vicissitudini dei suoi familiari.
La Genova di Ponente del dopoguerra rivive attraverso la figura della nonna paterna: la città dell’acciaio, dell’Italsider – una presenza ingombrante, venefica, che significava fatica, sacrificio, la polvere di ferro nei vestiti, sui davanzali, nell’aria; e anche riscatto sociale e orgoglio operaio. E la nonna è anche testimone della Resistenza, della Liberazione e della Genova migliore: quella dei fatti del 1960 e delle magliette a strisce, quando la città si oppose al ritorno in città dell’ex prefetto Basile e al congresso del Movimento Sociale Italiano al teatro Margherita (teatro che ritorna nella narrazione, quasi per essere riabilitato, per un concerto di De André che vidi anch’io). E da quel rifiuto si misero in moto una serie di avvenimenti che poi portarono alla caduta del governo Tambroni. Quella volta la piazza aveva vinto.
Grazie alla voce di uno zio un po’ legera, che scappa più volte e più volte ritorna e stringe amicizie che ben esemplificano la trama sentimentale di questo autentico porto di mare, c’è anche la storia millenaria della città, ripresa attraverso la sua passione per quel 1200 che la vide diventare una potenza mai militare ma commerciale e finanziaria, una ricchezza che diventerà una maledizione quando qualcuno non rimetterà i suoi debiti, condannandola la Repubblica al declino.
E poi il Ghedda, amico dello zio, curioso animale metropolitano dalla vita romanzesca che vive la giungla del centro storico trovandosi in mezzo ad affari e malaffari, forte di un’ascendenza nobile e poi calato in quell’intrico che era la città vecchia prima degli anni più recenti, più insipidi, incattiviti dall’eroina e dalla gentrificazione.
Ma in tutto questo andirivieni della memoria non c’è mai il compiacimento per la Genova balorda e delinquente o per il passato glorioso, secondo certa facile retorica. No, Pieranni osserva e riflette, con la sua curiosità, volendo svelare gli aspetti che al visitatore casuale sfuggono, specialmente oggi, con la città apparentemente ripulita, pacificata.
L’ultima testimonianza è quella più intima: la figura del padre a cui l’autore si rivolge sempre. È il racconto della ricerca di un contatto, di una comprensione, di un abbraccio ostacolato da due nature troppo diverse, tra un genitore distaccato e un figlio irrequieto ma riservato, arrabbiato col mondo e pronto a scappare nel posto più lontano dal mare che esista, nel cuore dell’Asia centrale, sul limite del deserto del Takla Makan, in Cina, a Urumchi.
Manca il versante materno, citato solo una volta quasi di sfuggita, con pudore, in occasione del ritorno poco distante dalla metropoli, a Recco. Forse è una mia interpretazione ma questo ricongiungimento è una sorta di riconciliazione con la natura materna (e matrigna) della città, come se la separazione avesse portato a una conoscenza possibile solo grazie alla distanza.
Genova macaia è una prova dalla scrittura fine e ricchissima, con un equilibrio prezioso tra saggio e narrativa: una guida per l’anima e anche per il turista che ragiona col cuore e coi piedi.