di Gioacchino Toni

All’interno del saggio L’Effet Sherlock Holmes (Hazan, 2015) lo storico dell’arte Victor I. Stoichita propone un interessante confronto tra i romanzi polizieschi di Arthur Conan Doyle pubblicati a puntate dalla rivista The Strand Magazine con le illustrazioni di Sidney Paget e il cinema di Alfred Hitchcock. Nel volume, uscito recentemente in italiano con il titolo Effetto Sherlock (Il Saggiatore, 2017), Stoichita indaga le novità che sono state introdotte nella rappresentazione pittorica, sul finire dell’Ottocento, da artisti come Édouard Manet, Edgar Degas e Gustave Caillebotte, che accordano importanza a ciò che nell’opera si nega all’osservazione perché posto fuori campo o perché di difficile individuazione, ed i “giochi di sguardo” presenti nei film di registi come Alfred Hitchcock e Michelangelo Antonioni.

Secondo lo studioso le modalità di rappresentazione proposte da tali opere visive negano allo spettatore una chiara leggibilità dell’opera imponendogli una vera e propria attività investigativa. Queste immagini si presenterebbero, dunque, come luoghi del delitto con cui deve fare i conti lo spettatore-detective costretto a calarsi nei panni di Sherlock Holmes. L’effetto Sherlock sarebbe dunque da intendersi come esercizio intellettuale della rivelazione.

Nel celebre film Rear Window (La finestra sul cortile, 1954) di Alfred Hitchcock, il protagonista, Jeff (James Steward), è un fotoreporter che, costretto su una sedia a rotelle da un incidente, passa il tempo a spiare i vicini e, quando i suoi occhi non sono sufficienti, non esita a ricorrere a protesi oculari come binocoli e teleobiettivi. Il nocciolo del film, secondo Stoichita, consiste nel rapporto tra la passione scopica di Jeff e la rivelazione come processo di risoluzione del mistero. Tale relazione, secondo Stoichita, è ripresa dai romanzi polizieschi di Arthur Conan Doyle che hanno come protagonista Sherlock Holmes. «La duplice natura del regista, rilevatore di immagini e creatore di trame visive, nella Finestra sul cortile si coniuga con la moltitudine di ruoli impersonati da Jeff, il protagonista della pellicola, che è al contempo fotografo, voyeur e detective. In questo personaggio, così come avviene per Holmes, la “rivelazione” corrobora l’interpretazione dei segni visibili tramite operazioni logiche segrete. La finestra in quanto spazio per la comparsa di segni è uno dei motivi prediletti di Conan Doyle e il suo primo illustratore, Sidney Paget, l’aveva capito benissimo. Le sue vignette che accompagnavano i romanzi pubblicati a puntate sulla rivista The Strand Magazine ne sono la conferma. Se, come credo, Hitchcock si è ispirato proprio a queste immagini, lo ha fatto con riferimenti al contempo deferenti, ironici e trasgressivi» (pp. 131-134).

Hitchcock, sostiene Stoichita, instaura un dialogo tra i romanzi a puntate illustrati e il cinema; se il fascino dei primi è dato dall’impaginazione, quello del film è invece dato dal montaggio. Nelle opere di Doyle-Paget è l’impaginazione a creare suspense in quanto l’immagine evita di fondersi del tutto con lo scritto; essa, accompagnata da una frase del testo, è spesso inserita come anticipazione, come elemento visivo che precede il racconto. «Per esempio, nel Ritorno di Sherlock Holmes, pubblicato sul The Strand Magazine nell’ottobre del 1903, il testo cui si riferisce la scena della finestra non si trova nella stessa pagina dell’illustrazione corrispondente né tantomeno su quella a fianco, ma su quella dietro. In questo caso l’astuzia risulta ancora più pertinente in quanto si tratta di una storia di doppi – cosa che del resto sarà lo stesso testo a rivelare, ma soltanto nella pagina successiva. La sagoma nella finestra, scopriamo allora, altro non è che il simulacro di Holmes, il suo sosia. Per capirlo però il lettore “deve girare la pagina”: si viene così a creare un bell’effetto ritardato, una specie di “rallenti” libresco. Sincopi di questo genere sono ricorrenti nell’impaginazione delle trame visive del romanzo a puntate» (p. 134). Secondo Stoichita è lecito pensare che Hitchcock, in Rear Window, non si sia limitato a citare la vecchia iconografia di Sherlock Holmes ma che l’abbia voluta rielaborare cinematograficamente. Il regista non manca, inoltre, di lasciarci un indizio di questo debito introducendo nella storia Thomas, il migliore amico di Jeff, un detective di professione che di cognome fa “Doyle”. Nel film Jeff risolve il crimine grazie all’osservazione puntigliosa e alla deduzione, ossia ricorrendo ai grandi topoi del racconto poliziesco. La differenza sta nel fatto che nel caso filmico il gioco tra osservazione e rivelazione ricorre alla messinscena dei dispositivi ottici.

Il film di Hitchcock riprende dunque quella tradizione delle immagini, elaborata soprattutto a partire dalla fine dell’Ottocento, volta a negare allo spettatore una chiara leggibilità dell’opera, costringendolo così ad un’attività investigativa, a quell’esercizio intellettuale della rivelazione ma, mette in guardia lo studioso, a differenza di ciò che accade nei romanzi gialli, davanti all’immagine i misteri non possono essere risolti definitivamente. L’immagine è sempre traditrice, come ha mostrato René Magritte in numerosi dipinti.

In ambito cinematografico l’irrisolvibilità delle immagini è ottimamente messa in scena da Blow Up (1966) di Michelangelo Antonioni, non a caso indicato da Stoichita come una sorta di replica di Rear Window di Hitchcock. Anche il protagonista di Blow Up è un fotografo che sospetta di aver scoperto un crimine ed anche lui ricorre al dispositivo fotografico ma mentre Jeff, immobilizzato, utilizza il teleobiettivo come strumento di intrusione senza scattare fotografie, Thomas (David Hemmings) è invece un personaggio dinamico che scatta a ripetizione. «Se La finestra sul cortile tematizza il vano di una finestra, che definisce e indica un divario, in Blow Up Antonioni cala il protagonista – e, insieme a lui, lo spettatore – nel cuore dello spazio fotografico. La trama di questo film a colori, infatti, ruota attorno a una serie di fotografie in bianco e nero che Thomas scatta durante una passeggiata» (pp. 158-159) e, continua Stoichita, soltanto quando sviluppa queste foto ha l’impressione di aver individuato un crimine. Ma fino a che punto si può essere certi di ciò che attesta una fotografia? Ingrandita ed analizzata in maniera maniacale la fotografia conduce ad un’immagine astratta ed indefinita. L’incertezza regna assoluta. È il trionfo dell’illusorietà dell’immagine. Il film di Antonioni mostra come «l’immagine non ci permette mai di penetrarla fino a svelarne i segreti più reconditi. Nell’orizzonte dell’immagine si trova l’indefinito e l’indefinibile, il vago, il cavo, l’assente, il vuoto, il nulla» (p. 159).


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