di Alessandro Villari

cotechino[Questo racconto è l’ideale seguito di un altro dello stesso autore, apparso nel Natale 2013.]

«Noi veniamo mangiati!», gridò Marty a sua madre mentre si precipitava giù per le scale, sogghignando tra sé per quell’espressione triviale appresa dai genitori di Jennifer, di origine italiana.

Infilò la porta senza attendere risposte. Sapeva che i genitori, quella sera in particolare, l’avrebbero voluto anche a cena, ma la verità era che non sopportava quei ricevimenti natalizi sontuosi e formali, e meno ancora di lui li tollerava Jennifer: era già stato faticoso convincerla a venire per il brindisi.

Si diresse senza esitazioni al garage, dove Joshua stava finendo di lucidargli il pick up ricevuto pochi giorni prima per il suo ventunesimo compleanno.

«Grazie Joshua, va bene così», congedò il domestico, che probabilmente era al lavoro da ore. Non fece caso al grugnito che ricevette in replica: era il suo modo consueto di esprimersi. Joshua infatti era un non-morto. Raccontava suo padre che, circostanza più unica che rara, fosse addirittura nato in questo stato, oltre trent’anni prima. Una delle guardie nella fabbrica che all’epoca era del nonno l’aveva trovato in un padiglione semi-nascosto, in grembo a quella che pareva essere la madre: gli scienziati ne avevano dedotto che fosse incinta al momento dell’infezione. Un po’ per curiosità, un po’ per togliere a quell’operaia una distrazione dal lavoro, il nonno aveva fatto prelevare il pargolo-zombie, non prima di avergli infilato la faccia in una solida museruola: sarebbe cresciuto in casa. Col tempo, aveva trovato il modo di impiegarlo nei lavori domestici più semplici. Ma più che per la sua utilità, il padre ora lo teneva, ben vestito e relativamente presentabile, per sfoggiarlo agli amici e dimostrare il proprio progressismo.

Ma non era certo questa vicenda a occupare i pensieri di Marty, mentre ingranava le marce e sfrecciava verso casa di Jennifer. Si godeva piuttosto il rombo del motore, la ripresa fenomenale, l’aderenza in curva, la morbidezza della pelle sul volante e sul pomello del cambio, l’infinita varietà dei settaggi elettronici: le virtù dell’auto nuova sarebbero state materia di conversazione con la fidanzata e con gli amici a cena.

Un’ora dopo, le cose non stavano andando esattamente come aveva sperato. Non solo Jennifer non appariva particolarmente impressionata dal bolide, ma – peggio ancora – invece che di macchine a cena si discuteva di politica. Avrebbe dovuto aspettarselo.

«E tu, Marty, hai votato come il tuo vecchio?», gli stava chiedendo  Biff, con tono provocatorio.

«Beh, sì, certo.»

«Così tutti potranno possedere il loro zombie da giardino?»

«Smettila, Biff, non sono soprammobili, sono lavoratori», intervenne Jennifer.

«Ah giusto, per voialtri quelli sono persone, gli avete dato perfino il diritto di voto!»

«Sì, come no, il diritto di votare quello che vogliono i loro padroni!», si intromise Owen, il radicale della compagnia.

«Ma che stai dicendo, Owen? Non crederai a quelle bufale messe in giro dai reazionari come Biff…»

«Intendi le notizie sulle fabbriche in cui agli operai si insegna a votare Sì con il rinforzo positivo?»

«Per non parlare di quelle dove usano le scosse elettriche per evitare che votino No…»

«Owen, ti rendi conto che sei d’accordo con i conservatori?»

«Per nulla, Jen, dico solo che è vero che i non-morti servono solo a essere sfruttati, e più largamente potranno essere impiegati, più aumenterà il loro sfruttamento.»

«Senza contare che un sacco di umani diventeranno disoccupati», aggiunse Biff.

«Papà dice che aumentare la quota di non-morti serve ad abbassare il costo del lavoro e rilanciare l’economia».

«Lo sappiamo tutti che cosa dice tuo padre, Marty, è in televisione dalla mattina alla sera!»

«Comunque ormai è inutile discuterne ancora, a mezzanotte escono i risultati del referendum», concluse Marty sperando di chiudere il discorso. «Piuttosto, lo sapete in quanto fa da zero a cento il pick up? Non ci potete credere…»

Mancava poco alla mezzanotte quando la compagnia si sciolse. In macchina, sulla strada verso il ricevimento che il ragazzo sperava stesse per concludersi, Jennifer era silenziosa.

«A che cosa pensi?»

«Al referendum, le cose che diceva Owen… Comunque penso che vincerà il Sì, non credi?»

«Be’, Joshua ha imparato a votare dopo una settimana che, quando premeva il pulsante giusto, riceveva in premio una coscia di maiale…», rispose Marty ridacchiando. Subito dopo tornò a concentrarsi sulla gara con Biff – anche lui invitato al ricevimento: suo padre era un grosso industriale – che gli stava incollato ai tubi di scarico con la sua Porsche a lampeggianti accesi. Non colse così lo sguardo esasperato di Jennifer.

Dal cancello, custodito da guardie private che li fecero passare con ossequio, la villa sembrava emanare luce da ogni vetrata. Il patio e il parco erano illuminati a giorno da centinaia di lampade appese ai rami dei giganteschi abeti trapiantati per l’occasione. Nel giardino d’inverno un quartetto d’archi eseguiva un motivo natalizio davanti a una coppia di anziani: Jennifer si fermò ad ammirare l’abito della donna, che sembrava preso dal guardaroba di Greta Garbo, mentre lui aveva un che di Humphrey Bogart in Casablanca, con il suo smoking bianco e il cravattino nero. Altri ospiti passeggiavano nel parco, sui sentieri di pietra naturale, tra le fontanelle zampillanti, stretti nei cappotti di cachemire e nelle pellicce di visone, alzando di tanto in tanto gli sguardi verso le decorazioni più splendide.

Il maggiordomo di casa con gesto solenne aprì al terzetto la porta d’ingresso. Benché fosse abituato allo sfarzo – era pur sempre casa sua, quella – Marty rimase abbagliato dallo splendore che lo investì oltre la soglia del salone principale. Le gocce di cristallo dei due grandi lampadari scomponevano la luce in giochi fantasmagorici sulle pareti inghirlandate e sulle grandi finestre affacciate sul parco. Un centinaio di persone si muoveva come in una danza tra i tavoli imbanditi formando e sciogliendo gruppetti al suono di brindisi tintinnanti, risa spensierate, picchiettare leggero di tacchi sul pavimento di marmo rosa. Valletti in livrea comparivano a ogni capannello offrendo bicchieri pieni in cambio di quelli vuoti, come fonti magicamente inesauribili di piacere. Proprio al centro del salone torreggiava un enorme albero di Natale, carico di decorazioni in oro e argento che Marty sapeva essere veramente oro e argento, sormontato da una stella cometa che sfiorava il soffitto e sembrava splendere di luce propria.

Il concentramento più folto era assiepato davanti a un grande schermo televisivo all’altro capo del salone, probabilmente in attesa dei risultati del referendum che sarebbero giunti di lì a poco. Lì Marty scorse i suoi genitori, circondati da amici. Scambiò un cenno di saluto con il padre e si ritenne così esonerato dall’obbligo di avvicinarsi. Non così Jennifer, che si fece largo tra gli ospiti per raggiungere i futuri suoceri. Lasciato con Biff, il giovane padrone di casa scelse invece il buffet dei dolci.

«Secondo te quante paste riusciamo a mangiare prima di vomitare?», chiese al compare.

«Non saprei. Tutte?»

«Non resta che scoprirlo», fece Marty cogliendo il primo bignè.

Non avevano assaggiato il terzo che un improvviso brusio li distrasse dalla sfida. Gli sguardi di tutti gli invitati ora erano rivolti allo schermo, su cui campeggiavano pochi, ma inequivocabili caratteri: “SÌ 40% – NO 60%”. Biff cominciò a tossire furiosamente: nel tentativo di ridere gli era andata di traverso una mezza pasta. Intorno ai tavoli imbanditi, tra i camerieri che continuavano a offrire champagne incuranti del risultato elettorale, tutti vociavano all’unisono: erano perlopiù commenti rattristati e preoccupati, qualche “L’avevo detto” e molti “Non bisogna fidarsi dei sondaggi”. Jennifer era tornata dai suoi amici, con aria affranta.

«Ma come è stato possibile?»

«Evidentemente i non-morti non hanno capito che cosa dovevano votare…»

Biff tossiva senza freni, rosso in volto. Marty gli diede una gran manata sulle spalle. Finalmente la mezza pasta si liberò dall’epiglottide e venne sparata fuori dal cavo orale, sospinta da un ultimo colpo di tosse che la fece rimbalzare fin sotto alla vetrata.

Era appena atterrata sul pavimento di marmo quando il vetro a sua volta esplose in mille pezzi. Si riversarono attraverso la breccia dozzine di arti protesi, seguiti dai corpi macilenti a cui appartenevano.

Fu immediatamente il caos.

Chi cercava una via di fuga all’estremità opposta del salone fu ricacciato indietro da un’altra ondata di zombie che procedeva dalla porta. Chi si attardava veniva afferrato e sbranato all’istante da decine di bocche fameliche. Come piccioni intorno a una pagnotta, branchi di zombie attorniavano le prede contendendosi a morsi cervelli, fegati, intestini.

Erano decine, le tute da operai a brandelli come le carni che a stento nascondevano, deformi e maleodoranti. Avanzavano sgraziati ma inesorabili verso gli umani superstiti, eleganti e ingioiellati, asserragliati dietro un’improvvisata barricata eretta con un paio di tavoli, sgombrati dalle vivande.

Del terzetto di amici, che si erano issati sopra il mobile bar per guadagnare qualche minuto, Jennifer venne presa per prima. Incapace di articolare parole e probabilmente pensieri coerenti, gridava e piangeva mentre si sbracciava inutilmente verso il fidanzato. Marty riconobbe la creatura che la ghermiva, per via dell’aspetto un po’ meno malsano degli altri zombie:

«Joshua, anche tu?», piagnucolò.

Il servitore gli rivolse un grugnito, poi con un morso lacerò un polpaccio della ragazza.

Nello stesso momento Biff cercava di divincolarsi da un altro predatore:

«Ma anch’io ho votato no!», provò a giustificarsi. Invano: in due lo trascinarono giù e fu sbranato in pochi attimi.

Quando udì risuonare il motivo di Jingle Bells, Marty credette per un momento di essere impazzito. Invece era il suo cellulare. Senza rendersi conto di quanto il gesto fosse inconsulto, rispose: era Owen.

«Marty, hai visto i risultati? Marty, ehi, ma che cosa sta succedendo lì? Marty!»

Marty reggeva con una mano il telefono, con l’altra un capo del suo intestino, nel vano tentativo di difenderlo da una mezza dozzina di fauci fameliche. Prima di perdere definitivamente i sensi, ebbe solo il tempo di rispondere:

«Noi… veniamo mangiati.»