di Franco Pezzini

locandina_satyricon_jpg[Si propone qui un brano dai testi di Satyricon. L’odissea di Encolpio, un ciclo di incontri sul celebre romanzo latino in corso di presentazione a Torino. La scena è quella del famoso banchetto di Trimalchione, dove a un certo punto vengono narrate due storie di argomento fantastico. Per la traduzione utilizzo quella di Andrea Aragosti, dell’edizione Bur 2009.]

Trimalchione si rivolge all’amico Nicerote che sta troppo zitto, chiedendo di narrare una storia che gli è capitata: e costui, messe le mani avanti sul timore che gli intellettuali a tavola ridano di lui – ma, a ben pensarci, che je frega? – “tali parole proferite” (secondo la formula di Virgilio ironicamente richiamata) inizia il racconto.
Anche lui è un ex-schiavo, e la vicenda risale a prima della sua liberazione. A quel tempo gli piaceva la donna dell’oste Terenzio, tale Melissa di Taranto, “magnifica lardona” che però lui corteggiava soprattutto – bontà sua – “perché era perbene” e gli gestiva i soldi con onestà. Schiattato il partner di lei mentre era in campagna, lo schiavo Nicerote fa di tutto per non lasciarla sola in quel momento critico: e profittando dell’assenza del padrone a Capua per affari, si fa accompagnare da un ospite della casa – “un soldato, forte come un orco” – per un pezzo di strada. Partono “verso l’ora del canto dei galli, la luna splendeva che sembrava il sole di mezzogiorno” (plausibilmente il plenilunio), e a un certo punto arrivano in mezzo a un cimitero.

“[…] il mio uomo si mette a farla in mezzo alle pietre tombali; io tiro in lungo canticchiando e conto le steli. Poi, come rivolsi lo sguardo al mio accompagnatore, quello si svestì e depose tutti i suoi indumenti sul ciglio della strada. Non avevo più una goccia di sangue nelle vene e ero stecchito come se fossi morto. Lui invece si mise a pisciare torno torno ai suoi vestiti e d’un tratto diventò lupo. Non crediate che io scherzi; non direi una balla per tutto l’oro del mondo. Ma, come avevo principiato a dire, dopo che diventò lupo, cominciò a ululare e fuggì nel bosco. Io, sulle prime, non mi raccapezzavo su dove fossi, poi mi accostai per raccogliere i suoi vestiti: ma quelli erano diventati di pietra. Io sono morto di paura come nessun altro. Ciò nonostante impugnai la spada e zac zac tirai fendenti alle ombre, finché non arrivai alla cascina della mia amica”.

Quando però vi mette piede Nicerote è l’ombra di se stesso, sudato da grondare e con gli occhi sbarrati, e per poco non gli viene un coccolone: e solo quando si è un po’ ripreso, Melissa, stupita di quel suo girarsene in piena notte, commenta che ad arrivare prima, beh, avrebbe dato loro una mano. Un lupo infatti ha sterminato le pecore, prima che uno degli schiavi riuscisse a piantargli una lancia tra capo e collo… Spaventatissimo, Nicerote attende la luce per tornare di corsa dal padrone “come l’oste ripulito”, riferimento che allude alla favola Fur e Caupo di Esopo: lì un oste si vede sottratta la tunica nuova da un ospite che lo spaventa fingendo appunto di essere licantropo.
Ripassando però presso il cimitero, i vestiti pietrificati del soldato non ci sono più, solo tracce di sangue: e quando rientra a casa trova l’uomo a letto, col dottore gli medica il collo. Con quel tipo lì, che è evidentemente un lupo mannaro, Nicerote preferisce poi non avere più contatti. E la gente di quella storia pensi ciò che vuole…
Il racconto costituisce la prima testimonianza occidentale di licantropia come mutazione involontaria (cioè non collegata con rituali metamorfici come in Bucoliche VIII, 95-99); e se qualcuno ne relativizza il valore documentale per l’evidente carattere di intrattenimento, in realtà si basa comunque su tutto un patrimonio di storie folkloriche (come quelle che Plinio, St. nat. VIII 80, derubrica a menzogne “a meno di prendere per buone tutte le favole dei secoli passati”) ed elementi rituali. A partire da un contesto fortemente evocativo di quel tema morte che corre ossessivamente nel Satyricon: l’evento è innescato dal decesso del partner della “magnifica lardona” Melissa, spingendo il narratore ad addentrarsi nella notte; la scena coinvolge un soldato “forte come un orco” (“fortis tanquam Orcus”), similitudine dall’eco infera, e avviene sotto una luna “che sembrava il sole di mezzogiorno”, cioè non solo piena ma in apparenza relativa a un altro ordine di tempo ed esistenza, un notturno mezzogiorno dei morti; il tutto si consuma tra le tombe. Ma la morte può avere anche connotazioni rituali, legate a un rito di passaggio: il soldato si spoglia per assumere l’altra identità; tutto attorno agli abiti orina in cerchio come una bestia che segni il territorio (si noti che aveva già liberato la vescica almeno in parte), a innescare una duplice funzione magica. Da un lato infatti le vesti divengono di pietra, cioè simili alle stele tombali – qualcosa che sul piano pratico permette di ritrovarle (conditio sine qua non del tornare uomo, in certe tradizioni, e sembra alludervi lo stesso testo di Esopo), ma insieme le ascrive al contesto di morte. D’altro canto le tradizioni su metamorfosi in lupo citano spesso la traversata di un corso d’acqua quale momento del passaggio/frontiera tra identità diverse: qui in luogo dell’acqua c’è l’orina di demarcazione. Quanto al motivo folklorico della ferita riportata dal lupo che permetterebbe di identificarlo in un uomo similmente vulnerato, tornerà con valore probatorio a distanza di secoli in vari processi a lupi mannari.
Del resto il lupo, associato dalla tradizione indoeuropea all’aspetto magico e terrifico della sovranità (nel contesto latino Romolo, figlio della lupa, circondato dalla scatenata schiera dei lupi-capri Luperci), viene spesso accostato a divinità non solo della guerra (per esempio il Marte padre di Romolo) ma della morte (gli dei inferi dei Greci, Ade, e degli Etruschi, Ajta, col capo coperto da una pelle di lupo). In un testo che di richiami alla predazione e insieme alla morte sembra tutto intessuto il lupo è insomma di casa; e a fronte della documentata esistenza in varie parti del mondo di società cultuali del furore guerriero improntato a un’idea di metamorfismo licantropico (in senso ampio – guerrieri-orsi eccetera – o invece specifico lupesco), non pare strano che qui a metamorfizzare sia un soldato.
La stessa partenza “verso l’ora del canto dei galli” in un’ora incerta tra notte e alba richiama a un’intera nebulosa simbolica. Alla scelta infatti di identificare il dio lupo/sterminatore di lupi in Apollo Febo, cioè lo Splendente, non è probabilmente estranea l’associazione onomastica tra lukos/“lupo” e leukos/“luce”: un’affinità dal significato non chiarissimo ai filologi e che interessa il più vasto bacino delle lingue indoeuropee. Ma gli intrecci simbolici tra lucis diurna e lupus che col suo ululato ne marcherebbe i limiti – alba e crepuscolo – rimanda a suggestioni così antiche e diffuse da far pensare a un’origine preistorica.
Nicerote conclude “Intellexi illum versipellem esse”. Com’è noto, l’italiano “lupo mannaro” viene dal latino tardo lupus hominarius, cioè “lupo mangiatore di uomini” oppure “lupo simile all’uomo”; in modo analogo si sono formati l’inglese wer(e)wolf, dove wer sta per “uomo” (latino vir), il tedesco werwolf, il francese loup-garou (con garou per wer, oppure tautologicamente per garwolf – che già significherebbe “uomo-lupo”) e l’antico francese warouls, warous, vairout, varivals. Ma il termine usato da Petronio e in generale dagli autori latini è versipellis (da qui vertit pellem, “che muta / rivolta la pelle”) in base all’idea che il pelo del lupo mannaro cresca verso l’interno del corpo; e all’associazione “lupo – pelle / pelliccia” rimandano l’antico slavo vlŭkodlakŭ, lo sloveno volkodlak, il polacco wilkolak, il russo volkolak, e il bulgaro vŭlkolak.
Come sappiamo, la credenza nella possibilità che l’uomo si muti in forma animale (e particolarmente in fiere) è pressoché universale: ma nell’esperienza occidentale è il lupo a far da mattatore, fin da un passato antichissimo. E in effetti l’episodio sembra avere valore più ampio in un romanzo dove nella sola, esigua parte conservata appaiono un personaggio, Ascilto, che frusta come un Luperco, un Lica (che figurerà nel prosieguo dell’opera) e il rimando a un Licurgo (presente nella parte iniziale perduta) con radici onomastiche che evocano il lukos/“lupo”, e una suggestione cannibalica nell’ultima parte che richiama al mito di Licaone e all’idea di un intero popolo metamorfizzato in lupi. Il genere umano, nel Satyricon, mostra senza pudore le proprie propensioni predatorie.
Comunque il racconto ha suscitato sensazione, e Trimalchione avalla la serietà di Nicerote. Aggiungendo che anche lui ha da raccontare “una storia raccapricciante: è come quella dell’asino sul tetto” – un modo un po’ buffo di evocare situazioni che raggelano per la loro alterità. Ma è suggestivo pensare che Apuleio, per le avventure dell’asinificato Lucio, abbia presente non solo genericamente il Satyricon ma il brano come qui introdotto – e di cui in effetti offrirà un controcanto.
Come Trimalchione narra nel suo modo colorito, lui era ancora uno schiavetto quando se n’era morto il favorito del padrone, “un gioiello, un cocchino, e pieno di numeri”. La madre piange, tutti sono riuniti per la veglia funebre: ed ecco “d’un tratto le streghe attaccarono a stridere: pareva il cane quando insegue la lepre”. In realtà nel Codex Traguriensis attraverso il quale conosciamo la Cena Trimalchionis si dice soltanto “strigae coeperunt”, “le streghe iniziarono”: la frequente lettura integrativa “stridere strigae coeperunt”, che evoca il verso caratteristico alla base del nome strix, fa a pugni con la similitudine del “cane quando insegue la lepre” – che sembra piuttosto richiamare l’ansimare del segugio da caccia o forse il lamento della lepre. Notiamo comunque la continuità con il racconto precedente sia nel vago sottotesto erotico – prima l’amante Melissa, qui il favorito del padrone – sia nel fatto che anche le streghe sono versipelles, mutanti, cioè donne capaci di rendersi invisibili e soprattutto trasformarsi in animali. Anche se Ovidio nei Fasti (VI 131-168, col racconto del piccolo Proca futuro re di Alba) appare incerto sulla natura originale di questi volatili inferi affini alle Arpie, donne mutanti oppure uccelli demoniaci, nell’imbarazzo di conciliare l’immaginario sugli arcaicissimi demoni femminili responsabili delle morti in culla con il folklore sulle streghe umane.
Con la famiglia c’è un cappadoce gigantesco, fortissimo (nuovo elemento di continuità col racconto precedente, là il soldato “fortis tanquam Orcus”), che si lancia fuori ad affrontarle spada alla mano (ancora continuità col precedente, un attacco contro il mondo invisibile, come quando Nicerote tirava fendenti alle ombre)

“[…] e infilza una di quelle da parte a parte, grossomodo a quest’altezza – sia salvo quel che tocco [ancora continuità, la creatura sovrannaturale ferita ma, scopriremo, senza che ciò impedisca danni gravi]. Noi sentimmo un mugolio ma loro – vi assicuro che sto dicendo la verità – non le vediamo. Allora il nostro gigante, rientrato in casa, si buttò sul letto ed aveva dei lividi lungo tutto il corpo, come se avesse preso delle frustate, perché era chiaro che lo aveva toccato una mano stregata [chi è toccato dalle striges presenta un colorito malato, cfr. Ovidio]. Noi, chiusa la porta, riprendiamo di nuovo la veglia ma, nel momento in cui la madre fa per abbracciare il corpo di suo figlio, toccandolo si accorge che si tratta di un manichino di paglia. Non aveva il cuore, gli intestini, niente di niente: era chiaro che le streghe avevano ormai rubato il corpo del ragazzo e lo avevano sostituito con un fantoccio di paglia. Mi dispiace, ma dovete crederci: esistono delle femmine che la sanno lunga, creature della Notte, e quel che sta in su lo fanno andare in giù [l’espressione è generica e può riferirsi all’idea che le streghe possano tirare giù gli astri, ma finisce con l’evocare il tema che nel romanzo poi risulterà un tormentone, l’impotenza]. Per quanto riguarda l’omone gigantesco, dopo quest’avventura non riacquistò più il colore naturale della pelle e, anzi, dopo pochi giorni morì pazzo furioso [nuova continuità, i due omoni in silenzio per tutta la storia alla fine giacciono su un letto]”.

Il tema della veglia al morto funestata da creature sovrannaturali, divenuto con Petronio un topos letterario, rimanda in effetti a un passato molto arcaico, preistorico. Nel richiamarlo, Apuleio attribuirà alle streghe la capacità di trafugare a morsi parti del viso dei morti (un motivo che elabora il tema degli uccelli lugubri pasciuti di cadaveri), o magari di portarne via il quid utile ai riti facendo cadere le parti inservibili: dove la suggestione innesca una vicenda illusionistica e complessa attraverso un narratore equivoco. Ma sufficientemente inaffidabile è anche Trimalchione, al di là del tono in apparenza preoccupato – da inquadrare in un contesto di superstizione diffusa, vedremo i colliberti angosciati – che Petronio osserva con divertito distacco. Anche il tema morte, comunque, avvicina il racconto al precedente.
È poi interessante che in Petronio il tema delle predatrici di bambini e l’altro delle manducatrici di morti si incontrino nella veglia funebre al corpo di un giovanissimo. Se per Ovidio le strigi sono use a nutrirsi di visceri o sangue di neonati, o piuttosto a somministrare umori venefici, causando lividori o segni cutanei (quasi a prefigurare di lontano i segni sul petto o sul collo dei vampiri “moderni”), eccole qui – grazie a improvvida sortita e rientro del Cappadoce – strappare via verso il regno dei morti, sostituire l’intero corpo con un fantoccio: dove il tema perturbante del manichino sostitutivo si basa su idee molto diffuse in magia (il meccanismo similia similibus, l’uso di imagines) ed evoca brividi d’orrore.
Encolpio e gli altri sono “stupefatti e al contempo convinti da questo racconto” – qualcosa che può dirla lunga sulle loro capacità critiche, tanto più dopo aver apprezzato la credibilità di Trimalchione – per cui baciano la mensa e scongiurano “le creature della Notte di non farsi vedere” quando col buio usciranno di lì dopo la cena per vagare nel dedalo della città. Se la metafisica degli ex-schiavi gaudenti non arriva più in là dell’orizzonte del magico (a sanzionare anche qui d’ironia il successo sociale dei liberti nel nuovo ordine imperiale, che a grandi numeri vede una degradazione dell’orizzonte filosofico e in generale della cultura), i colti studenti come Encolpio non appaiono meno fragili e la morte esonda, infestando ormai il convito come la Red Death di Poe.